Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1
http://www.units.it/etica/2006_1/MORDACCI.htm

Grande divisione e modelli alternativi di fondazione
dell’etica. Commento a Zecchinato
1. Non posso che essere d’accordo con la sintetica e
acuta contro-argomentazione offerta da Zecchinato sul libro di Putnam.
Quest’ultimo in effetti tradisce un’idea del dibattito sul tema piuttosto
datata (ferma all’incirca agli anni Trenta del Novecento): non solo considera
un po’ sommariamente tutto il dibattito, che dura ormai da cinquant’anni, sulla
legge di Hume in etica, e quindi sceglie come bersaglio critico argomentazioni
ampiamente superate, ma presenta della legge di Hume una concezione piuttosto
rozza e decisamente limitata. Rispetto a tale concezione (in sostanza quella
del primo positivismo logico), lo sviluppo della filosofia del linguaggio e
soprattutto della filosofia della mente, cui lo stesso Putnam ha dato un
significativo contributo, ha reso quasi un luogo comune una serie di obiezioni
profonde: basti pensare, per restare su un terreno familiare a Putnam, alle
critiche alla concezione idealizzata dei «fatti» (e a quella incomprensibilmente
«aliena» dei valori) che già nei giorni aurei del positivismo subiva gli
attacchi endogeni derivanti dal
principio di indeterminazione, la fisica quantistica, la relatività. (1)
Va osservato, a parziale discolpa di Putnam, che il
suo obiettivo esplicito, in questo libro non è tanto l’opposizione fatti-valori
nel dibattito etico-filosofico, bensì la sua persistente presenza nell’area
delle scienze economiche, o almeno nella vulgata che alimenta la gran parte
delle dinamiche consapevoli degli operatori ai vari livelli dell’economia
mondiale. Putnam fa mostra di volersi occupare, da filosofo, della nefasta
influenza di un’interpretazione troppo radicale e insostenibile della
distinzione fra fatti e valori sulle discipline economiche e sulle dinamiche
indotte nell’economia mondiale da questa immagine del rapporto fra il mondo
«reale» (quello materiale ed economico) e l’orizzonte dei valori (etici, politici
ed estetici). Sembra questa separazione, popolare e imprecisa, il vero
bersaglio della polemica di Putnam, che vi rivolge contro un armamentario non
proprio nuovissimo ma abbastanza collaudato. Visto così, il titolo del libro
può anche suonare, invece che come il pretenzioso proclama di una confutazione
definitiva, come la presa d’atto di un processo lungo e complesso, che
raggiunge ora anche settori meno filosoficamente impegnati di quanto lo siano
l’epistemologia e la logica.
Per un ampio periodo, la Grande Divisione
(GD) ha svolto il ruolo di criterio di demarcazione fra discipline che
promettono la validità oggettiva delle procedure e la possibilità sistematica
della verifica intersoggettiva dei risultati da un lato, e discipline in cui la
ricerca di oggettività non può basarsi sull’appello ai fatti d’esperienza
(ovviamente intesa solo nel senso di esperienza sensibile) dall’altro. Si è
trattato di un fondamentale esercizio di chiarificazione dei confini di quella
che Husserl chiamava «una pura scienza di fatti», che non ha naturalmente nulla
da dirci – proseguiva lo stesso Husserl – sui valori e sul senso. Tuttavia, nessuno
più crede che la GD
da sola costituisca una base sufficiente per negare in radice all’etica e alla
riflessione sui valori qualunque legittimità e per chiudere qualunque spazio
per la definizione di criteri di validità intersoggettiva diversi da quelli
della verifica esclusivamente in base ai puri «fatti». C’è anzi da chiedersi,
come fa Zecchinato, se a questo potere dissolutorio della GD nei confronti
dell’etica ci abbia mai davvero creduto qualcuno (certamente non David Hume).
Resterebbe comunque da vedere se la GD, una volta ridimensionatane
l’interpretazione, non possa svolgere un ruolo importante nella costruzione stessa
dell’etica, così come nelle discipline storiche, politiche ed economiche. Il profilo
di un’interpretazione meno ingenua della GD mi pare esattamente delineato nella
caratterizzazione offerta da Zecchinato:
La Grande Divisione è un teorema
logico-linguistico che riscontra nell’uso e raccomanda una distinzione
irriducibile fra proposizioni con funzione eminentemente conoscitiva e
proposizioni con funzione eminentemente direttiva; essa vieta di derivare
enunciati dell’un tipo da soli enunciati dell’altro tipo. (p. 3)
Tuttavia, Putnam non va così per il sottile: attacca
frontalmente la GD
e fa di questo attacco la base per proporre un’idea (per la verità già
affacciata nelle sue opere precedenti) di validità epistemica come
«asseribilità garantita» che dovrebbe unificare i campi, che la GD intende tenere distinti,
delle scienze descrittive e di quelle valutative. Paradossalmente, l’esigenza
di negare totalmente la validità della GD deriva dalla condivisione dei
presupposti della sua interpretazione «fanatica», che pretende di farne lo
strumento logico-linguistico principale della critica a ogni forma di
cognitivismo e di oggettivismo in etica. Vale a dire: si ritiene che la
fondazione dell’etica possa avvenire soltanto attraverso la riconduzione del
suo criterio di validità a qualche versione del criterio di validità della
conoscenza scientifica. Anche se quest’ultima è intesa in senso più ampio
rispetto all’interpretazione riduttivista tipica del neopositivismo, si tratta
pur sempre di ricondurre la normatività pratica dei giudizi morali a criteri teoretici di verità. Negare la GD significa, in un certo
senso, rivendicare la possibilità di riscontrare in qualche forma di esperienza
la dimensione assiologica del reale e ritenere che l’autorità normativa dei
giudizi morali dipenda essenzialmente
dalla loro capacità di rispecchiare tale dimensione. Ora, se questo è un
criterio plausibile per la conoscenza teoretica, è quanto meno discutibile che
lo sia per l’agire pratico: quest’ultimo non
deve adeguarsi al mondo per essere vero, bensì si proietta nel mondo come
«aver da essere» e tenta di adeguare il mondo al volere. Come è noto, questa
distinzione, che ha origine kantiana, è stata frequentemente ribadita nel
dibattito recente, in particolare nella formulazione suggerita da Elisabeth
Anscombe: la «direzione di adeguazione» del giudizio conoscitivo è mind-to-world, quella dei giudizi
pratici è world-to-mind. Trascurare
questo aspetto essenziale significa travisare il funzionamento della ragion
pratica assimilandola al modello di validità della ragion teoretica.
Ma allora, appunto, perché negare la GD? Si tratta, certo, di
ridimensionarne la portata rispetto ad interpretazioni «assolutiste» o
fanatiche, le quali pretendono di derivarne l’insensatezza o l’infondatezza del
discorso morale. Tuttavia, non sembra che i moralisti siano mai stati molto
impressionati dalla potenza di questa distinzione: basti considerare, in
proposito, la vicenda dell’intuizionismo classico (in primo luogo Price, ma
anche i neointuizionisti del Novecento) e soprattutto la grande lezione
kantiana. Lo stesso Hume, in fondo, affida la fondazione della normatività del
discorso morale a una dinamica che combina l’elemento pratico (la capacità –
indiscussa per Hume – dei giudizi morali di essere moventi efficaci
dell’azione) con un elemento esperienziale (la percezione del «piacere
particolare» che suscita la virtù), tenendo però rigorosamente distinti i
criteri di validità teorici da quelli pratici. (2) La GD non è stata considerata un
avversario invincibile dai filosofi morali; anzi, essa è stata in qualche caso utilizzata,
come hanno fatto gli intuizionisti, come uno strumento di difesa dalle pretese
colonialiste della scienza, mentre si cercava una fondazione dell’etica
nell’orizzonte pratico, prendendo le mosse, anziché da una concezione del bene
e dell’ordine del mondo, dalla struttura dell’agire umano o dal linguaggio
morale. Forse, in parte, la distorsione del discorso di Putnam rispetto
all’evoluzione recente della filosofia morale dipende, oltre che dal già citato
riferimento all’economia, dal fatto che Putnam non è propriamente un filosofo morale,
ma un filosofo della logica e del linguaggio che di tanto in tanto sconfina
nelle questioni etiche. Per altro, questo potrebbe spiegare perché, in fondo,
Putnam in realtà mostri di continuare a condividere il presupposto neopositivista
secondo cui l’etica può trovare fondamento, se mai lo può, soltanto attraverso
una fondazione «empirica» e perciò negando la GD; anche i moralisti di orientamento
naturalistico o empiristico sono ormai restii a prendere questa strada.
2. Gli argomenti di Putnam sono sottoposti da
Zecchinato ad un’analisi piuttosto efficace. In questa sede si può cercare di
interpretare tali argomenti in un modo che li faccia apparire, possibilmente,
meno«stranamente sfocati» di come li vede Zecchinato.
Il primo argomento richiama la distinzione
analitico-sintetico e ne critica l’interpretazione esasperata o «metafisica».
Credo che la tesi che Putnam intende criticare sia piuttosto un complesso di
argomenti che una semplice distinzione. In sostanza, l’opposizione fra
analitico e sintetico consentirebbe di dire che, poiché l’etica non può
contenere proposizioni sintetiche (né a priori né a posteriori), essa è
destituita di ogni fondamento possibile. La tesi centrale è quella per cui in
etica non si danno proposizioni sintetiche. Ciò a sua volta presuppone due
elementi impegnativi: a) la tesi per cui gli enunciati significanti sono
soltanto quelli riconducibili a referti d’esperienza e b) la Grande Divisione.
Poiché l’etica non può basarsi su enunciati conoscitivi di tipo empirico, a
causa della irriducibilità del prescrittivo al descrittivo, e poiché altri tipi
di enunciati non sono significanti (o non sono comunque verificabili), allora
l’etica non può avere fondamento. Per fondarsi, l’etica avrebbe bisogno di
proposizioni sintetiche, le quali però, a causa della GD, nel caso dei giudizi
morali non possono congiungere elementi descrittivi ed elementi prescrittivi.
Putnam sembra voler ridurre la portata della distinzione analitico-sintetico
per riaprire la porta all’etica; tuttavia, non è affatto necessario accettare
la premessa, cioè che in etica (come nella conoscenza teoretica) non siano
possibili giudizi sintetici a priori. Ciò consentirebbe ovviamente di fondare
l’etica su qualcosa di diverso dall’esperienza sensibile, per esempio una
procedura razionale o un atto riflessivo della ragion pratica. Come è noto,
quest’ultima è la strada intrapresa da Kant (la prima è quella dei
contrattualisti): in quest’ottica, l’imperativo categorico è precisamente ciò
di cui si ha bisogno per fondare l’autorità dei giudizi morali senza né negare
la distinzione analitico-sintetico né pretendere che vi siano proposizioni
etiche sintetiche a posteriori. È proprio l’aver assunto, insieme a quella
distinzione, i pregiudizi del neopositivismo a motivare le preoccupazioni di
Putnam. Mi pare quindi che Zecchinato abbia visto giusto.
Il secondo argomento intende, di nuovo, ridurre la
portata della tesi della neutralità assiologica dei fatti: Putnam richiama la
tesi per cui non ci sono «puri fatti», ovvero fatti del tutto «value free», e
sostiene che l’intreccio fra assiologico e ontologico non sia districabile in
maniera netta. Tutte le forme di nuovo naturalismo (McDowell e Wiggins, ad
esempio, ma anche Brink, almeno per certi aspetti) traggono vantaggio da una
tesi come questa, ma è dubbio che essa sia necessaria per sostenere
l’oggettività dell’etica. In primo luogo, l’intreccio fatti-valori, se pure è
inestricabile, non è detto che sia univoco: la coloritura assiologica di certi
fatti (azioni o eventi che siano) potrebbe non essere sistematica in tutte le
culture e le tradizioni morali e, anzi, in molti casi non lo è affatto. Con
ciò, resta vero che i fatti hanno sempre
una coloritura assiologica, ma non è possibile indicare, al di fuori di un
contesto storico determinato, quale sia la particolare coloritura assiologica
che pertiene a un certo fatto. In tal senso, il lavoro ermeneutico e
genealogico sulle pratiche (per esempio, quello svolto da Foucault sulla
nozione di epimeleia heautou) può
mostrare una profonda diversità di strutture assiologiche associate a pratiche
esteriormente molto simili. In secondo luogo, come Zecchinato nota più avanti,
se interpretiamo la GD
come uno strumento di distinzione fra usi diversi del linguaggio, la
commistione di fatti e valori non costituisce di per sé un argomento contro la
possibilità di mantenere una distinzione di «punti di vista fenomenologici»
sugli oggetti, tale per cui resta significativa la distinzione fra un uso
prescrittivo e un uso descrittivo senza
che ciò comporti la separazione «ontologica» di fatti e valori: dei medesimi
«fatti» parliamo per descriverli o per determinarci ad agire in merito, ma lo
facciamo con due funzioni diverse del linguaggio. Qui direi che Zecchinato non
si discosta molto da Putnam: quest’ultimo non sembra voler abolire del tutto la
possibilità di parlare dei fatti da un punto di vista ora pratico ora
teoretico; diversamente, sarebbe assai difficile spiegare la innegabile
differenza logica fra linguaggio descrittivo e prescrittivo. E non mi pare che
Putnam sia disposto a fare questo.
Il terzo argomento di Putnam chiama in causa la
semantica «pittorialista» di Hume. Come già detto, Hume stesso si affida in
realtà a una certa capacità di «sentire» la somiglianza fra il soggetto e la
virtù nel dar conto dell’autorità dei giudizi morali. Si tratterebbe di una
palese violazione della GD, se questa fosse interpretata «metafisicamente» da
Hume; ma, appunto, proprio Hume mostra di intendere la GD in modo tutt’altro che
fanatico, anche se, come vedremo subito, l’interpretazione «moderata» della GD
fa sorgere qualche dubbio sulla sua rilevanza.
Zecchinato ritiene che la quarta tentata confutazione
di Putnam sia «la più seria». Putnam invoca qui i concetti thick a dimostrazione dell’inestricabilità di elementi prescrittivi
e descrittivi nel linguaggio morale (l’argomento si deve a Bernard Williams). È
qui che, utilizzando l’approfondita analisi di Celano, viene delineato un senso
della distinzione descrittivo-prescrittivo che non comporterebbe le
implicazioni pretese dai neopositivisti. Anche se non viene sempre compiuta, la
distinzione può sempre essere
tracciata, o quanto meno si può sempre sensatamente chiedere al parlante se sta
parlando in senso descrittivo o prescrittivi (per farlo risaltare si pensi a
questo dialogo: «Ciò che fai è crudele» «Certamente lo è. Ma che male c’è a
farlo?»). La questione qui non è tanto che la distinzione sia sempre tracciabile, quanto su quale base
essa possa esserlo di principio. La GD tiene se si può mostrare che
di principio è sempre possibile distinguere l’aspetto valutativo da quello
descrittivo. Nel caso di «crudele» (un tipico concetto thick) ciò significa
sostenere che la descrizione degli atti designabili come crudeli non è mai
definita (in termini esclusivamente
descrittivi) una volta per tutte e che benché ogni descrizione di un atto
come crudele includa almeno implicitamente un elemento prescrittivo,
quest’ultimo non dipende intrinsecamente e in maniera univoca dalla sola
descrizione (osservativa) dell’atto. Solitamente, l’appello a concetti thick serve a rivendicare la presenza di
un contenuto normativo non meramente formale nei concetti morali (a differenza
di quanto avviene con i concetti thin,
che appaiono difficilmente identificabili, in prima istanza, in termini di
azioni concrete); un concetto thick
include elementi descrittivi sufficienti per identificare alcune azioni come
esempi di tale concetto. Ciò significa che tali concetti implicano la
necessaria compresenza dei due aspetti, ma non la loro indistinguibilità di
principio; se la implicassero, tutti i concetti thick sarebbero univocamente determinati in termini di azioni corrispondenti
in tutte le lingue del mondo, cosa che non accade. Accade però che in ogni
linguaggio questi concetti implichino il riferimento ad alcuni elementi descrittivi,
che possono variare da linguaggio a linguaggio. Tuttavia, il parlante può
facilmente distinguere, in ciascuno di questi contesti, l’intenzione
descrittiva da quella valutativa; soltanto questa possibilità, infatti, spiega
perché i concetti thick possano
variare da linguaggio a linguaggio.
Ritengo che questa argomentazione funzioni di supporto
alla controconfutazione di Zecchinato. Ci si può chiedere, tuttavia, se
l’interpretazione moderata della GD non ne diminuisca grandemente l’importanza.
In tale ottica, infatti, la GD
è compatibile con varie forme di cognitivismo, e segnatamente di naturalismo.
Distinguere fra due usi del linguaggio è certamente utile al fine di evitare
confusioni, ma non sembra essere decisivo per la questione del fondamento
dell’etica. In fondo, sembra che, se diamo un’interpretazione logico-semantica
della GD (l’interpretazione «assolutista» o «metafisica»), allora questa è uno
strumento abbastanza forte (anche se forse non decisivo) di critica verso le morali
metafisiche e naturalistiche; ciò però comporta l’onere di accettare in blocco
una serie di presupposti tipici del neopositivismo che gran parte del dibattito
novecentesco sembra aver messo profondamente in discussione (o addirittura
confutato). D’altra parte, se forniamo della GD un’interpretazione moderata
(definendola come una distinzione fra due usi entrambi legittimi – fino a prova
contraria - del linguaggio), allora essa non ha implicazioni immediate per la
fondazione dell’etica, a meno di sostenere contestualmente (come facevano i neopositivisti)
che uno dei due usi del linguaggio è privo di legittimità. Essa però ha un’importante
funzione positiva: se la distinzione fra i due usi del linguaggio è abbastanza
netta da poter dire che essi sono, almeno di principio, reciprocamente
irriducibili (ma cosa resterebbe della GD senza questo requisito?), allora la GD costituisce un forte
elemento a favore del riconoscimento dell’autonomia
dell’etica rispetto tanto alla
scienza (o meglio: alle scienze naturali e alle scienze del comportamento)
quanto alla metafisica e all’ontologia. In altri termini: se l’uso prescrittivo
del linguaggio, in particolare quello morale, è distinto e irriducibile a
quello descrittivo, e se tale uso è legittimo (non è privo di significato o
intrinsecamente contraddittorio), allora il discorso morale ha (deve avere) un
fondamento di validità diverso dalla semplice adeguazione fra mente e mondo nel senso del mero rispecchiamento. Come
si vede, contrariamente a quanto pensavano i neopositivisti e, con loro, lo
stesso Putnam, la GD
è tutt’altro che un ostacolo per la fondazione dell’etica.
Infine, in riferimento al quinto argomento di Putnam,
ci si può chiedere se la GD
sia un teorema logico o se abbia «una base ermeneutica o fenomenologica», per
usare le parole di Celano. Putnam ritiene che, non essendo un teorema logico,
essa non abbia validità; Zecchinato, con Celano, ritiene che essa sia valida
sul piano «ermeneutico-fenomenologico» proprio in quanto non è un teorema
logico. Mi pare che, per quanto emerso fin qui, si possa facilmente consentire
con la proposta di Zecchinato; ancora una volta, Putnam sembra lottare contro
una concezione esasperata della GD, che però non è affatto necessaria.
Tuttavia, mi chiedo che cosa significhi «fenomenologico» (e «ermeneutico) in
questo contesto: mi pare che ci si riferisca alla «fenomenologia» degli usi
linguistici, per cui la GD
porta ad evidenza fenomenologica una distinzione fra usi diversi; l’intuizione
eidetica cui essa apre l’accesso è allora quella di una differenza originaria e per questo irriducibile fra tali usi linguistici; si tratta allora,
direi, di una distinzione linguistico-fenomenologica.
Se invece si intende dire che la GD
è un’evidenza fenomenologica riguardo alle «cose stesse», mi pare che ci si
proietti immediatamente proprio in quella comprensione tipicamente
fenomenologica (nel senso della prospettiva propria di autori come Husserl,
Scheler, Stein, Reinach ecc) secondo cui – si dovrebbe dire – i modi di
evidenza dei fatti e dei valori sono originariamente distinti; ciò comporta la
tesi per cui l’intuizione eidetica dei valori è analoga ma distinta rispetto
all’intuizione eidetica delle essenze e, insieme, tutto l’apparato
fenomenologico-intuizionistico che segue a questa comprensione del linguaggio
morale (accesso diretto ai valori, natura ambigua delle qualità morali,
autoevidenza dei principi normativi ecc.). La questione è importante anche per
il ruolo che la GD
ha avuto nell’intuizionismo anglosassone: negare in toto la sua validità significa probabilmente riportare il
dibattito al punto in cui lo aprì G.E. Moore con l’open question argument: se non vi è distinzione né linguistica né
ontologica fra fatti e valori, allora come è possibile che la domanda se
qualcosa sia buono (o giusto) resti sempre aperta per qualsiasi definizione
naturalistica o metafisica di buono (o giusto)? Può darsi che, se la discussione
di Putnam fosse in realtà pertinente, questo debba essere il nostro destino; ma
francamente, arretrare di un secolo esatto non mi parrebbe un gran risultato
per la filosofia morale.
Note
(1) Di fatto, questo è
proprio uno degli argomenti rispolverati da Putnam per confutare la distinzione
fatto-valore. Peccato che lo presenti come una sua nuova invenzione.
(2) La verità delle
asserzioni conoscitive è attestata dalla congruità con le rappresentazioni
percettive, mentre per i giudizi pratici non si può parlare di una
«adeguazione» bensì Hume parla di una «approvazione» connaturata al piacere
destato dalla virtù. Bene è ciò che si approva, vero è ciò che si esperisce.