Etica &
Politica / Ethics & Politics, 2005, 2
http://www.units.it/etica/2005_2/TOMMASI.htm
Max Weber: il valore dell’armonia
tonale
Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia
Abstract The
key-principle is the main pillar of the theory and the practice of musical
composition, as developed by the Western culture from the Renaissance up to
the end of XIXth century. Its crysis
and refusal by the theorists and composers of the “modern music” (Arnold Schönberg, Igor Stravinski, Ferruccio Busoni and their fellowers)
inaugurate a period of intense experimentation and research, lasting until
today. Opposite to this loss of centre, Weber’s attitude is twofold. From the
one side he cannot accept it quietly, because of the danger of an irrationalistic decay, while, from the other, he
recognizes in the modern music the signs of a deep distress, which pervades
the “civilization” at all and not only single personalities. So in his Rational
and sociological foundations of music Weber defends the key-principle and
the tonal harmony, as a value that conveniently reflects the character and
the historical dignity of Western culture and music. But at the same time he
doesn’t condemn the modern music as anarchical or degenerate, because of the
rationalistic rigour, mastering the efforts of its conceivers. |
I. Nel
lessico elementare della musica, la “tonalità” è un principio compositivo che
organizza i suoni in relazione a una nota di riferimento, detta “tonica”. Tale
principio si afferma in Europa agli albori dell’Età Moderna, dapprima come
portato della prassi compositiva ed esecutiva, e poi come esito di più mature
elaborazioni teoriche.(1) La
sua adozione, appagando il crescente desiderio di conferire all’opera un senso
e un carattere unitari, spiana alla musica dell’Occidente la via di uno
sviluppo originale, che condurrà, nel corso del tempo, ad ulteriori innovazioni
tecniche, organologiche e sintattiche. Così, fra i primi del Seicento e la fine
dell’Ottocento, l’intera arte dei suoni farà capo a un “sistema tonale”, al cui
interno confluiranno esperienze ed elementi diversi, in una sintesi artificiosa
e non sempre coerente.(2) Esso
sarà un sistema di funzioni, composto da 24 “tonalità” (12 maggiori e 12
minori) e fondato su tre accordi principali (di I, IV e V grado, ossia di
tonica, sottodominante e dominante), intorno ai quali, in posizione
gerarchicamente subalterna, graviteranno tutti gli altri.(3)
II
“sistema tonale”, delineando una serie di percorsi armonici (concatenazione di
accordi, modulazione, integrazione o trattamento delle dissonanze), manterrà
sempre, come suoi tratti peculiari, un’apertura sufficiente a favorire la
pluralità degli stili (4) e
una misura di rigore tale per cui, nell’ambito d’una composizione, la tensione
fra le parti si esaurirà solo con la riaffermazione dell’accordo di tonica
[cfr. però O. ALAIN, 1965, p. 39]. Con facile analogia si può dire che, fin dal
suo sorgere, esso individua uno spazio musicale “eliocentrico”, percorso da due
linee‑forza (la verticale o armonica e l’orizzontale o melodica) e dominato
dalla funzione del tono fondamentale, che disciplina i rapporti fra gli altri
suoni per “attrazione” o per maggiore o minore distanza intervallare.(5) Ciò ha fatto sì che, come vedremo, non
poche volte si sia tentato, dal Settecento in poi, di forzare l’analogia e di
asserire, su basi “scientifiche”, la “naturalità” del “sistema tonale”, col chiaro
scopo di assolutizzarlo. Né sorprende che, di conseguenza, solo negli ultimi
cinquant’anni sia maturato, fra gli studiosi, un interesse precipuo per gli
aspetti semantici, sociologici e comunicativi della musica, quale prodotto
“culturale”. (6)
Proprio
da quest’ultima prospettiva, lo scritto weberiano su I fondamenti razionali e sociologici della musica possiede ancor
oggi un particolare significato. Esso è poco più che una raccolta d’appunti,
comparsa postuma nel 1921 e resa leggibile dal lavoro di interpolazione e
riordino a cui si accinse il curatore, Theodor Kroyer. Ciò nondimeno se ne può
parlare come di uno studio pionieristico, che, in senso lato, concerne il
rapporto arte‑società, ma che, nello specifico, esamina alcuni elementi
del “sistema tonale”, ne approfondisce il retroterra storico e infine cerca di
presentarli come un portato della “progrediente razionalità” occidentale. (7) Se infatti è vero che in tutte le culture
affiora, prima o poi, la necessità di selezionare e ordinare il materiale
acustico (onde i prodotti musicali abbiano un senso socialmente riconoscibile),
è pure indubbio che solo qui, in Occidente, lo sforzo di razionalizzazione a)
si è compiuto tanto sull’asse melodico (della successione dei suoni), quanto e
soprattutto su quello armonico (della loro sovrapposizione); b) si è avvalso di
innovazioni esterne alla pura prassi compositiva (ad es. la notazione
diastematica e il perfezionamento tecnico degli strumenti);(8) c) ha emancipato dalle abitudini d’ascolto la definizione di
scale e intervalli consonanti; d) ha favorito uno sviluppo geometrico (e non
solo lineare) dello spazio musicale, tanto da rendere concepibili anche le
forme e i generi più complessi (dalla cantata al concerto, dalla sonata al
grande melodramma lirico).
Il saggio
di Weber, benché non sempre recepito secondo i meriti, ha ispirato indagini sia
sulla tipologia dei sistemi musicali,(9) sia
sulle proprietà comunicative della musica. (10)
Esso è
stato inoltre già oggetto di approfonditi studi storico‑critic,(11) i cui argomenti non saranno qui
replicati. Restano così alcune domande, che una lettura non distratta fa
sorgere quasi inevitabilmente. Tanto sul piano sociologico, quanto su quello
musicologico, l’approccio weberiano si segnala per la nettezza delle scelte,
delle cesure e delle esclusioni a cui procede, in relazione all’ampio materiale
(artistico e scientifico) già disponibile all’epoca. Che ciò possa
giustificarsi con opzioni di metodo, è tesi ammissibile solo in parte. Che
invece all’origine di tali interventi ci sia anche un qualche movente
“valutativo”, è cosa che, nei limiti del possibile, il presente articolo
cercherà di appurare.
II.
Quella in cui Weber vive e lavora è, nella storia della musica, una
straordinaria età di passaggio, che si protrae fino ai primi anni Venti e al
termine della quale nulla (o quasi) sarà più come prima. Rivoluzionaria negli
esiti assai più che negli intenti, quest’epoca vede assurgere a dignità
istituzionale parole d’ordine dapprima deprecate, come “dissoluzione della
tonalità”, “emancipazione della dissonanza” o “composizione per serie di note”.
La catastrofe che, con la Prima Guerra mondiale, travolge la vecchia Europa,
accelera fatalmente anche il declino delle sue tradizioni artistiche e
culturali. Ora le porte dei loro santuari si aprono a “novità” un tempo
bandite: a esperienze e idee maturate in ambienti “d’avanguardia” o
sviluppatesi furtivamente nel seno di vetuste accademie. A Vienna, dal 1919, la
Universal‑Edition pubblica e distribuisce su scala internazionale le
opere di autori moderni, quali Arnold Schönberg, Franz Schreker, Béla Bartók,
Leoš Janáček e Alfredo Casella. Ognuno di loro collabora al periodico
“Musikblätter des Anbruch”, che lo stesso editore dà alle stampe a partire dal
medesimo anno. A Berlino invece, nel 1920, l’Accademia Prussiana delle Arti assegna
a Ferruccio Busoni la cattedra di composizione, mentre l’austero Allgemeiner
Deutscher Musikverein (fondato nel 1861 da Franz Liszt e da Franz Brendel),
dapprima accoglie nel proprio direttivo il musicista Heinz Tiessen (già allievo
di Richard Strauss) e poi organizza a Weimar un festival memorabile, nel cui
programma figurano brani come i Fünf
Orchesterstücke op. 16 di Schönberg e il Quintetto per archi op. 1 di Hermann Scherchen.
Simili eventi
provvedono di sanzione ufficiale un mutamento compiutosi per gradi, nell’arco
di circa un quarantennio: un’evoluzione lenta nei tempi, ma ampia e capillare
come non mai quanto alle dimensioni e agli effetti. Durante l’Ottocento
l’armonia tonale è giunta al culmine del proprio sviluppo. La scuola romantica,
sensibile alle sfumature più sottili della “vita interiore”, le ha messe in
musica pel tramite di un raffinato cromatismo, che per un verso ha esteso il
dominio della “tonalità”, ma per l’altro ha palesato l’angustia delle regole
che l’assicurano. Da Schumann a Chopin, da Brahms a Wagner, le partiture per
piano e per orchestra si son così “arricchite” di elementi anomali: in special
modo, di accordi alterati o “vaganti”,(12)
utili ad assestare idee melodiche non più trattabili con le formule
convenzionali. Un passo oltre ed ecco che l’accordo singolo, valorizzato per le
sue proprietà timbriche ed “emotive”, diviene il nucleo di cellule melodiche
ristrette, a sé stanti, ma collegabili fra loro in base a un nuovo paradigma
sintattico. E’ quanto accade nel Pelléas
et Mélisande di Claude Debussy, ove l’impiego della scala esatonale (o a
toni interi) accentua l’impressione d’una perdita del centro tonale unico; (13) oppure nel Prometeo e nella Settima
sonata per pianoforte op. 64 di Aleksandr Nicolaevič Skrjabin, ove la
gravitazione verso la “tonica” è impedita dall’azione centrifuga dell’accordo
principale.(14)
Ai primi
del Novecento, mentre qualcuno inneggia alla “libertà della musica”,(15) altri provvede a sciogliere ogni residuo
vincolo, che unisca e reciprocamente limiti, in senso “conservatore”, gli
sviluppi della melodia, dell’armonia, del ritmo e della forma. Schönberg
dichiara che la “tonalità” non è “una legge di natura”, né una “legge eterna”,
ma solo “una possibilità formale – che sprigiona dalla natura del materiale
sonoro – di raggiungere, nell’unità, una certa compattezza”.(16) Egli dunque non la ripudia in via
pregiudiziale: anzi, raccomanda agli allievi lo studio delle sue regole e
potenzialità. E tuttavia ritiene che, quale catena “di un’estetica dei tempi
passati”,(17) essa vada spezzata,
onde si concretizzi (ad es. nei Sechs
Klavierstücke op. 19) un ideale formale ed espressivo, improntato a una
condensazione massima degli elementi compositivi. Tale ideale comporta anche il
ricorso a ritmi asimmetrici o sincopati, in luogo delle “tradizionali” battute
di 2/4, 3/4 o 4/4. Essi permettono di accentuare la nuova funzione che
l’accordo è chiamato a svolgere e che consiste nel mantenere distinte (anziché
nel connettere) le superfici sonore sovrapposte, così alludendo a una pluralità
di centri tonali. E’ quanto accade, fra gli altri, ne Les noces di Igor Strawinskij o nel terzo e nel quarto dei Quartetti per archi dì Béla Bartók.
A voler
ora riassumere in poche frasi il senso e la portata di tutte queste
trasformazioni, si può dire che, mentre la musica tonale si connota per una
chiara convergenza fra strutture profonde (o “grammaticali”) e strutture di
superficie (“morfologiche” e “stilistiche”), la “nuova musica” separa, in via
preliminare, il materiale acustico dalle regole con le quali ordinarlo: ed è
perciò suo impegno precipuo la selezione di suoni e la definizione di criteri
sintattici, che permettano all’idea di articolarsi e di rendersi percettibile
nella propria unicità. La musica tonale è un prodotto estetico, modellato su
concetti standard di armonia e bellezza. La “nuova musica” è invece anzitutto
un prodotto linguistico, che trae origine da uno sforzo inesausto di
oggettivazione e razionalizzazione, e che consiste di una sequenza di “intuizioni,
controllate da una logica indispensabile alla loro omogeneità”.(18) Il musicista “classico” compone in base a
regole “impersonali”, dalle quali si scosta solo per piccoli episodi giustificati
dallo sviluppo dell’opera. Il musicista “contemporaneo”, intento a definire
previamente il “proprio” linguaggio, tende invece a “personalizzare” in toto gli elementi della musica,(19) a esaltare “la bellezza del suono in
piena autonomia” (20) e
a ricavare la forma da un’unica serie di proporzioni sonore, scelte in base
alle altezze, alle durate e alle intensità. (21)
III. Data
la situazione non sorprende che, fra le accuse rivolte più spesso alla “nuova
musica”, ci sia quella di “intellettualismo”. L’ascoltatore stenta a percepire
un senso e una forma, in un composto sonoro di cui non riconosce subito i
principî ordinatori. L’“io empirico”, con la sua scorta di nozioni ingenite o
acquisite, se da un lato soccombe, nell’atto creativo, a un’esigenza strenua
di selettività e rigore, dall’altro si dibatte, al momento della fruizione, in
una trama di segni che fatica a decifrare. Oltre a non procurare il piacere
estetico, che i fautori della “tonalità” attribuiscono al gioco di pause e sussulti,
“attese deluse e ricompensate”, a cui il musicista sottopone l’ascoltatore
“sulla scorta di un progetto” che quest’ultimo “crede di indovinare”,(22) la “nuova musica” difetta sul piano
comunicativo. I suoi significati intrinseci – ossia scaturenti
dall’interconnessione delle parti e dalla loro integrazione nel “tutto
compositivo”(23) – prevalgono di gran
lunga su quelli estrinseci o riferibili, in qualche modo, a un universo
semantico non musicale.(24) E l’efficacia espressiva, anche laddove il
compositore non la identifichi, formalisticamente, nella sola “presentazione”
delle proprie idee, (25) è
impoverita da una “competenza” comune (26) che non va oltre la cerchia ristretta degli specialisti e dei
cultori.
Anche in
Weber gli “sviluppi recenti della musica” destano un chiaro imbarazzo. Egli non
li rigetta come “aberrazioni del gusto” o come “prodromi d’anarchia” (quanta
critica stroncò in questi termini beceri il Pierrot
lunaire di Schönberg o La sagra di
primavera di Strawinskij!), né farnetica di una loro origine da
illuminazioni mistiche, da patti col diavolo o da altre scempiaggini più o meno
letterarie. Avendo letto la Harmonielehre
schönberghiana, Weber sa bene che la via qui indicata porta al “dissolvimento
della tonalità”: e che non pochi musicisti vi si prodigano in modo consapevole,
con competenza e metodica disciplina. Ma è pure convinto che la “ratio tonale” sia radicata a fondo nelle
abitudini d’ascolto, tanto da mantenere comunque un primato nella composizione
e nelle preferenze del pubblico. Perciò, dinanzi alla “nuova musica” il suo
contegno ostenta pacatezza. Egli evita di pronunciarsi nel merito e, quanto ai
fattori d’origine, si limita a chiamare in causa la “caratteristica svolta, in
senso romantico‑intellettualistico, del nostro gusto verso ciò che è
‘interessante’”. (27)
Che però
il suo sia un distacco solo apparente, è cosa non difficile da accertare.
Parlando di “intellettualismo romantico”, Weber allude alla spiccata curiosità
che molta arte contemporanea manifesta per gli aspetti più torbidi e
irrazionali della vita psichica.(28)
Nel celebre Referat sulla “scienza
come professione”, egli introduce poi il concetto di “intellettualismo
scientifico”, con ciò intendendo il dominio che la ragione e i mezzi tecnici
hanno via via acquisito, in Occidente, sulle più varie espressioni del pensiero
magico. Tale dominio, corroborando la “fede” o la “coscienza” che basti solo “volere, per potere ogni cosa”, ha dato (e continua a dare) come esito il
“disincantamento del mondo”.(29)
Ma fatalmente lascia senza risposta le grandi questioni etico‑trascendentali
circa il significato e il fine dell’esistenza. Le costruzioni scientifiche,
poiché incapaci di penetrare “la linfa e il sangue della vita reale”, destano,
soprattutto fra i giovani, un’avversione crescente: un’insofferenza che sfocia
nel ripudio del pensiero astratto, dell’artificio tecnico, del formalismo
rigido e coattivo.
È dunque
logico ritenere che l’“intellettualismo romantico” sia una delle vie,
attraverso le quali si palesa un desiderio strenuo di emancipazione dai vincoli
della ragione scientifica. Tale desiderio, a cui rinviano molte scelte o
“vocazioni” religiose (quale “presupposto fondamentale della vita in comunione
con la divinità”), è lo stesso che ormai pervade gran parte dell’“esperienza
in generale”. Esso denota, nell’uomo contemporaneo, un preoccupante disagio:
un’incapacità di accettare il destino che “gli impone di vivere in un’epoca
senza Dio e senza profeti” [ivi, p. 38]. (30) Di
qui la fuga nel subliminale, nel “totalmente altro”; di qui l’evocazione e
trasfigurazione “artistica” di elementi irrazionali apprezzati come
“autentici”. Di qui infine il proliferare degli “dèi in lotta”, da servire o
combattere (31), e la protervia dei
“falsi profeti in cattedra”, che inondano di ciarpame ideologico i loro
allievi, “condannati al silenzio”. (32)
Anche se
mai formulato expressis verbis, il
giudizio di Weber circa la “nuova musica” non può scostarsi granché da questo
ritratto d’epoca a tinte fosche. E tuttavia le sparse affermazioni, dalle quali
desumerlo, non sono univoche, né sempre combaciano. Weber è consapevole che
l’“intellettualismo romantico” conduce, nella pratica, a “un risultato
esattamente opposto alla meta immaginata” dai fautori.(33) Anziché “liberare l’irrazionale”,
permettendogli l’accesso alla coscienza, esso esaspera, sulla vita reale, il
peso degli artifici tecnici e delle regole desunte da principî astratti. Tale è
per certo il caso della “nuova musica”, il cui proposito di dar voce all’inesprimibile
mette capo a una sorta di “iperrazionalismo” che, sul piano del metodo, date le
restrizioni che comporta, “non regala nulla: anzi, priva di molte cose”.(34) A ciò si aggiunga che, ricusando ogni
convenzione estetica “per ordine di una verità che non può più tollerare
compromessi”, (35) il musicista
antepone, al successo e alle ambizioni di carriera, il valore della propria
testimonianza. Egli può dunque atteggiarsi a profeta, a latore di ineffabili
messaggi: ma nulla avrà mai a che fare col demagogo, col ciarlatano, col
mestatore d’opinione e con chiunque aspiri a procurarsi un consenso pel tramite
di un linguaggio corrivo o di “emozioni” facili a comunicarsi.
La “nuova
musica” è socialmente innocua. Le smanie irrazionalistiche a cui soggiace
vengono via via disciplinate e costrette all’ordine, con l’ausilio di strutture
ideate all’uopo e a tal punto raffinate da risultare quasi impercettibili.(36) Che essa assuma su di sé “tutta la
tenebra e la colpa del mondo”, sì da esibire una bellezza che rifugge
“all’apparenza del bello”, (37) è
un giudizio forse eccessivo e vanamente ampolloso. Ma non c’è dubbio che, più
che ad intrattenere e a divertire, la “nuova musica” ambisca e far riflettere.
E proprio questo, in Weber, è fonte di perplessità. Nei tempi più remoti, la
musica e l’arte in generale erano unite alla religione. Il loro fine consisteva
nel plasmare miti e nel propagarne l’influenza. L’affermarsi
dell’“intellettualismo scientifico” ha dato luogo a una crescente separazione
fra religione ed “estetica”, tanto da farne due sfere di valori autonome e
distinte. E in età cristiana, mentre la prima ha sviluppato al proprio interno
un’etica razionale della salvezza, (38)
la seconda è venuta concentrandosi attorno a un valore “fondante” qual è il
puro godimento estetico. Cosicché l’arte, se per un verso si serve di mezzi
tecnici razionalmente evoluti, per l’altro adempie a una funzione sociale che
di etico e di razionale (in senso stretto) non ha nulla, ma consiste piuttosto
nell’alleviar la mente dalla pressione “del razionalismo tecnico e pratico”. (39)
Volendo
farsi carico di una verità, che la ragione tecnico‑scientifica non può
attingere e che è perciò “deferita” alla sola fede, la “nuova musica” incorre,
agli occhi di Weber, in una sorta di penoso autoequivoco. Essa non solo si nega
alla comunicazione e al “diletto dei sensi”, ma tende pure a invadere la sfera
religiosa e ad appropriarsi di valori non suoi. Ciò in ragione del fatto che il
suono, non “rappresentando” nulla,(40) si presta
meglio delle parole e delle immagini a evocarli nella loro purezza. E tuttavia
“evocare” può voler dire almeno due cose, ossia a) richiamare ciò che già fa
parte di una tradizione (ad es. quella cristiana), e b) rendere attuale un
contenuto inedito. Nel primo caso trattasi di musica sacra o liturgica, che
emana da un’esperienza di fede e ne solennizza singoli aspetti o momenti. Nel
secondo caso è invece l’esperienza musicale che, totalmente piegata su di sé,
diviene il nucleo di una religiosità “profana” e refrattaria ai “legami esteriori”.(41) Qui l’atto creativo sprigiona dalla
concomitanza di due opposti, quali un rigore ascetico e una hybris prometeica. Ma anziché sciogliere
questa contraddizione, esso ne cade vittima: poiché il frammento di verità,
sottratto a Dio, non è traducibile in alcun linguaggio umano, né può servire a
erigere, sulle macerie del vecchio, un nuovo ordine di consuetudini e valori.
L’Angelus Novus di Klee è, secondo
Benjamin, l’emblema della tragedia del moderno. Lo stesso forse può dirsi per
il Mosé e Aronne di Schönberg. La
parola divina è proferita sul Sinai da un coro, nel quale echeggiano
confusamente tutte le voci del mondo. Mosé la recepisce come idea, ma non è in
grado di comunicarla agli uomini. Aronne invece, immune da balbuzie, può
tradurla in formule, ma solo al prezzo di falsarla. Tale è il dilemma della
“nuova musica” e di colui che, anima e corpo, vi si dedica. Egli risponde
all’“intimo appello” di una verità che, “dapprima inconsapevolmente”, lo scuote
col suo rumore indistinto. (42) L’intento di conferirle una forma lo
porta a infrangere le regole della comunicazione e del bello, e a dotarsi di un
“proprio” linguaggio. Ma in tal modo l’umanità che danza intorno al vitello
d’oro lo prenderà più spesso per “un truffatore o un pazzo”, (43) né il suo messaggio avrà di che giovarsi
dell’opera di interpreti e divulgatori d’occasione. Come pretendere infatti di
divulgare la verità? Non è già arduo e inesplicabile il silenzio, col quale
essa si annuncia fra le pieghe dei nostri tanti dubbi.
Iperrazionalistica
e iperspecializzata, la “nuova musica” concorre, suo malgrado, al
“disincantamento del mondo”. Se da un lato sovverte (e radicalmente modifica)
la teoria e la prassi compositive, dall’altro non le riesce di indicare
all’umanità la “forma di vita più elevata”,(44) della quale vagheggia. I contenuti che vorrebbe diffondere,
tramite idiomi all’uopo predisposti (quelli cromatico‑integrali
dell’atonalità e della dodecafonia, e quelli modali del neoclassicismo),
restano perlopiù lettera morta, senza mai tramutarsi in valori socialmente
condivisi. Né basta a trarla dall’impasse
il cauto favore che ottiene, a partire dagli anni Venti, presso talune
istituzioni. I suoi fautori sapranno accreditarla, soprattutto sul piano
didattico: e qualche critico, all’ascolto di certe esecuzioni, ne farà pure
l’elogio. Ma la distanza da un pubblico, che poco o nulla si interessa ai suoi “misteri”,
permarrà invariata, e non solo per mancanza di comprensione.
Weber si
duole “che la nostra arte migliore sia intima e non monumentale, e che oggi
soltanto in seno alle più ristrette comunità, nel rapporto da uomo a uomo, nel pianissimo, palpiti quell’indefinibile
che un tempo pervadeva e rinsaldava come un soffio profetico e una fiamma
imperitura le grandi comunità”.(45)
La civiltà dell’Occidente europeo si va via via sfaldando. I suoi valori
“supremi e sublimi” sono ormai divenuti estranei al “grande pubblico” e sopravvivono
solo entro circoli ristretti. Proprio perciò, nell’arte e nella musica a lui
contemporanee, Weber non vede nulla di “aberrante” o di “degenerato”. Dal punto
di vista morale, egli non ha alcun rimprovero da muovere alle “avanguardie”,
che anzi si segnalano per l’onestà e la coerenza estrema dell’impegno. Nate
dalla crisi, esse ne illustrano esemplarmente gli aspetti più gravi, a
cominciare dalle tensioni che lacerano fin nel profondo la “soggettività
borghese”. E tuttavia ciò che le nobilita le rende anche impotenti: poiché
l’anelito a una razionalità superiore è di continuo frustrato, sia
dall’indifferenza che suscita, sia dal suo stesso carattere utopico ed
elitario.
Non
sorprende che già nel periodo fra le due guerre la “nuova musica” declini certe
pretese “autonomistiche”, per ricercare un senso e una capacità di dialogo più
consistenti nella condivisione di valori diffusi. Una forte passione politica e
civile permea tanto l’intera opera di autori come Tiessen, Kurt Weil e Hanns
Eisler, quanto talune gemme di Paul Hindemith (l’oratorio Das Unaufhörliche, del 1931), Luigi Dallapiccola (i Canti di prigionia, del 1938‑40),
Benjamin Britten (la Ballad of heroes,
del 1939) e Vladimir Vogel (il Thyl Claes,
del 1938‑45). La devozione ingenua e talvolta struggente di Anton von
Webern (quale affiora già nei Fünf
Geistliche op. 15, del 1917, e poi nei dodecafonici Drei geistliche Volkslieder, del 1924, e infine in Das Augenlicht, del 1935) ispira splendide
pagine di musica sacra a Stravinskij (ad es. la Symphonie de Psaumes, del 1930, o la Messa, del 1947), a Dallapiccola (le Tre laudi, del 1937), a Olivier Messiaen (le Offrandes oubliées, del 1931, o il Quatuor pour la fin du temps, composto nel 1941, durante la
prigionia in un lager tedesco) e, in
anni più recenti, a Ernst Křenek (lo Spiritus
intelligentiae sanctus, del 1956), a Karlheinz Stockhausen (il Gesang der Jünglinge, del 1956) e a
Krzysztof Penderecki (i Salmi di David,
del 1958, e la Passione secondo San Luca,
del 1963).
Mentre
l’impegno politico e civile trae soprattutto alimento dalla lotta contro il
nazifascismo, il riavvicinamento alla tradizione giudaico‑cristiana ha
all’origine sia la ricerca di una più intima “comunione col prossimo e con
l’Essere”,(46) sia un desiderio
profondo di “spiritualità”, (47)
sia un interesse affatto “laico” per l’“immenso pianeta Bibbia”, dagli
enigmatici e inesauribili significati.(48) Weber non fa in tempo ad assistere a tutti questi sviluppi. E
d’altra parte l’epoca, alla quale appartengono, ormai non è più la sua. Da
intellettuale fin du siècle (o da
“borghese con coscienza di classe”), egli considera l’arte e la musica
portatrici di una “redenzione intramondana e irrazionale”: (49) ed è convinto che in ciò risieda la loro
ragion d’essere. Viceversa, durante il Novecento, esse antepongono, alla
ricerca dei puri contenuti estetici, una vocazione nuova alla testimonianza,
alla denuncia e alla critica sociale. Che poi lo facciano per libera scelta o
per sottrarsi al rischio dell’estinzione, è un quesito che, almeno in questa
sede, non può ricevere un’adeguata risposta.
In compenso,
vale la pena insistere sull’importanza che Weber assegna all’armonia tonale.
Già si è detto come essa gli appaia, a giusto titolo, una conquista tecnico‑razionale
dell’Occidente. Ma c’è di più. Nello studio della “realtà artistica”, egli
distingue tre diversi approcci, e cioè a) la pura considerazione estetico‑valutativa,
b) la pura considerazione empirico‑causale, e c) l’interpretazione di
valore.(50) Mentre gli approcci a) e c) consentono di
comparare le epoche e gli stili, in relazione ad aspetti quali la forma, il
significato, la nozione del “bello” ecc., l’approccio b) è il solo che,
separando la “realtà empirica” dalla “sfera dei valori”, permetta di appurare
l’esistenza di un oggettivo “progresso”. L’indagine empirico‑causale
verte sui presupposti tecnici, sociali e psicologici della creazione artistica,
in ciò ravvisando i fattori più importanti del suo sviluppo storico. Se è vero
che non sempre (e non necessariamente) il loro affinamento migliora la qualità
delle opere, è tuttavia innegabile che, risolvendo all’artista certi problemi
posti dal suo lavoro, esso offra almeno “la possibilità di una crescente
‘ricchezza’, nel senso di un avanzamento di valore”.(51) Così, ciò che distingue l’arte
“primitiva” da quella tecnicamente “evoluta” non è la dignità estetica dei
prodotti (che a seconda dei casi può essere in entrambe ugualmente elevata), ma
è la quantità dei mezzi disponibili alla “volontà artistica”, nonché la loro adeguatezza
allo scopo a cui quest’ultima propende.
Da
storico e da sociologo “empirico”, Weber considera l’armonia tonale il “mezzo”
che rende unica ed “evoluta” la musica dell’Occidente. L’“uomo moderno”, a suo
dire, ha tutto l’interesse a chiedersi perché mai “la musica armonica si sia
sviluppata, sulla base della polifonia affermata quasi ovunque tra i popoli,
soltanto in Europa e in un determinato spazio di tempo, mentre altrove la
razionalizzazione della musica si è incamminata per un’altra strada, il più
delle volte precisamente opposta”. (52)
La scienza già fornisce utili informazioni. Weber dimostra di ben conoscere i
manuali di storia della musica in auge ai primi del Novecento, (53) tanto da replicarne anche gli errori. Non
è infatti corretta la tesi che fa della polifonia il terreno unico di coltura
dell’armonia tonale. La tecnica del contrappunto vocale, perfezionata dal
Palestrina a metà Cinquecento, segnò senz’altro un “progresso” rispetto agli organa medievali e alle formule in uso,
nella prima Età Moderna, per la condotta delle voci, per la gestione
“alternata” di consonanze e dissonanze e per l’organizzazione ritmico‑metrica
dei brani.(54) Essa inoltre orientò
lo sviluppo che la musica strumentale conobbe in Germania, durante il
Settecento, per opera soprattutto di Bach e di Händel. (55) Ma il moderno “sistema tonale”, retto da
una sintassi di accordi, ebbe la sua prima teorizzazione da Jean‑Philippe
Rameau. E a istruire quest’ultimo fu soprattutto la tecnica del basso continuo,
i cui esordi risalgono alla fine del Cinquecento, al recupero della monodia
greca da parte degli esponenti della Camerata Fiorentina (Giovanni Bardi,
Vincenzo Galilei, Jacopo Peri, Ottavio Rinuccini ecc.), e al conseguente
ripudio della “barbarica” (poiché fiamminga) polifonia. (56)
Un’altra fonte,
alla quale Weber attinge a piene mani, consiste nei contributi della nascente
disciplina etnomusicologica. Nota in Germania come “musicologia comparata” (vergleichende Musikwissenschaft), essa
ha il proprio centro principale a Berlino, ove Carl Stumpf, ai primi del
Novecento, fonda dapprima un archivio di registrazioni fonografiche (il
Phonogramme‑Archiv) e poi dà vita, insieme agli allievi Erich Maria von
Hornbostel e Otto Abraham, a una vera e propria scuola. (57) Il fonografo Edison, già usato da
studiosi statunitensi in alcune indagini sul campo, (58) è qui innalzato a strumento principe
della ricerca. Il suo impiego procura ampio materiale empirico a
un’elaborazione teorica, che ha alla base sia la stumpfiana “psicologia dei
suoni” – in special modo la tesi per cui il senso della consonanza e della
distanza intervallare dipende, in ciascuna cultura, da una capacità cerebrale,
più o meno evoluta, di sintesi o “fusione” acustica –, (59) sia il concetto di “area di diffusione
culturale”, formulato dagli antropologi Fritz Groebner e Wilhelm Schmidt.
Gli
esponenti della Scuola di Berlino pubblicano raccolte di musica etnica extra‑europea,
studiano l’origine e la propagazione geografica di singoli strumenti,(60) elaborano metodi matematici per la
misurazione degli intervalli inferiori al semitono.(61) Le loro ricerche, diversamente da quelle
che a partire dal 1912, Béla Bartók e Zoltán Kodály condurranno nelle campagne
ungheresi e transilvane,(62)
si rivolgono più agli scienziati che ai compositori: e comunque non puntano a
“rinnovare” la musica per iniezione di elementi “popolari”. Inoltre, dato
l’orientamento prettamente evoluzionistico, la Scuola indulgerà, fino agli anni
Sessanta, a una visione “per stadi” dello sviluppo storico‑musicale, (63) sempre asserendo, in accordo col
fondatore, che la musica europeo‑occidentale è la più elevata “anche dal
punto di vista socio‑psicologico”.(64) Essa infatti si situa a una maggior distanza dalla musica
arcaica o “primitiva”, che, concependo il suono come sostanza dell’universo,
tende a esaurirsi nella ripetizione rituale di formule melodiche invariabili.(65) I suoi elementi strutturali (la scala
eptatonica e i due “modi”) sono il prodotto di una mente, capace di sottoporre
l’esperienza acustica a processi superiori d’astrazione: e di ottenerne un
materiale sonoro tanto selezionato da prestarsi alle più raffinate creazioni.
Weber
non è un evoluzionista, e poco gli importa stabilire se ci sia una musica “più
elevata” delle altre. Dai lavori della Scuola di Berlino – e soprattutto
dall’ampia documentazione empirica che li accredita – egli trae argomenti a
sostegno della propria tesi, circa
l’unicità e l’intrinseca razionalità dell’armonia tonale. Essa è un prodotto
autentico della civiltà dell’Occidente: e
dunque un valore che, data la sciagura incombente su quest’ultima, l’“uomo
moderno” deve saper apprezzare e difendere. Nulla vieta di credere che, col suo
dissolvimento, la musica possa arricchirsi di mezzi ancor più duttili e
sofisticati. Ma intanto, l’unità di senso e di linguaggio, che le è conferita
dal principio di “tonalità”, resta preclusa agli idiomi sperimentali delle
“avanguardie”. E la comunicazione che assicura, almeno sul piano “estetico”, è
una risorsa sociale indispensabile, che si può perdere ma non rigenerare con
pari facilità.
IV. La
crisi dell’armonia classico‑romantica, così come si delinea già alla fine
dell’Ottocento, “è in realtà una crisi della teoria dell’armonia”: e proprio
per questo “esige una critica sistematica dei suoi metodi e concetti”.(66) Nel campo della musica, ove tutto è
artificiale, i fenomeni armonici esistono e hanno un senso in ragione a) di un
processo di simbolizzazione che li organizzi, rendendoli intelligibili, e b) di
un paradigma teorico (e “meta‑linguistico”) che tale processo giustifichi
nelle sue singole fasi. La presenza di queste due condizioni consente sia di
definire, sul piano analitico, cosa sia un accordo e quale rapporto gerarchico
sussista fra un accordo e l’altro; sia di decidere, sul piano pratico, quale
successione d’accordi sia più adatta a stabilire o a contraddire una
“tonalità”. La crescita del materiale sonoro (ad es. a seguito di innovazioni
tecnico‑strumentali) o l’acquisizione di nuovi concetti estetici o,
infine, la cogenza di idealità e valori socialmente emergenti, possono far sì
che l’intero edificio si dimostri vieto e inadeguato. In tal caso, come le
teorie scientifiche, che “muoiono di ciò di cui non hanno parlato”, (67) anche la teoria musicale va messa in
discussione e convenientemente rimpiazzata, onde i costrutti simbolici di
nuovo conio non sembrino insensati, “irrazionali” e arbitrari.
L’indagine
fin qui condotta ha mostrato come Weber, nella sua “apologia” dell’armonia
tonale, sia mosso più da preoccupazioni etiche che estetiche in senso stretto.
Se è vero che egli ne apprezza anche le qualità espressive e comunicative, è
tuttavia innegabile che, a interessarlo di più, siano quelle assiologiche: e
che il suo intento consista principalmente nella tutela di uno dei prodotti
“nobili” di una civiltà prossima al tramonto. Già questo potrebbe forse
bastare a revocare in dubbio la tesi, secondo cui lo zelo weberiano sarebbe
indotto dalla convinzione che “l’idioma tonale degli ultimi
trecentocinquat’anni” sia “natura”.(68)
Ciò anche
in aggiunta al fatto che la musica, per Weber, è sempre e comunque “cultura”,
ovvero artificio tecnico. Si pensi solo all’importanza che, per lo sviluppo
dell’armonia tonale, egli attribuisce a un fattore eteronomo come il
“temperamento equabile”.(69) A
fine Seicento, la suddivisione dell’ottava in 12 semitoni uguali rispose alla
necessità di sopprimere le distanze irregolari, risultanti sia dalla scala di
Pitagora (il “comma” si diesis‑do,
pari a circa 1/4 di semitono), sia dalla scala “armonica” di Gioseffo Zarlino
(il “comma sintonico”, fra terza maggiore e minore, pari a circa 1/5 di
semitono). La scala temperata e cromatica fu ricavata dall’equiparazione
artificiale di due macrointervalli (7 ottave = 12 quinte) e dalla loro
suddivisione matematico-sperimentale. Ma se da un lato favorì la “libera
successione degli accordi” (senza l’intralcio di microintervalli “irrazionali”
o “impuri”), dall’altro, uniformando la misura dei semitoni all’irrazionale 12√2,
essa non permette neanche oggi l’intonazione univoca degli strumenti ad
accordatura mobile (dai cordofoni alla voce umana).
Ciò
detto, va altresì rilevato che la “teoria dell’armonia”, in auge al tempo di
Weber, non esita a proclamarsi “eterna” e “fondata in natura”. Pur contemplando
aspetti “costruttivi e speculativi”, assai più che “empirici”, (70) essa pretende di derivare i propri
concetti base (consonanza, dissonanza, accordo, cadenza, modulazione ecc.)
dalla struttura fisica del suono e dell’udito. Il suo antesignano, Rameau,
nell’opera più matura dichiara che i “rapporti fra le sensazioni, suscitate dai
suoni nella nostra anima, corrispondono ai rapporti esistenti fra le cause che
tali suoni producono”. (71) Come
a dire che il piacere estetico (ossia il fine del comporre musica) deriva da un
perfetto incontro fra psiche e natura: e che a tale incontro l’armonia provvede
con regole utili a uniformare, su base matematica, le leggi fisiche e i moti
dell’anima.(72) Gli studi di Joseph
Sauveur sulla risonanza, dimostrando come la nota sia un suono composto da
varie frequenze (gli “armonici”) in successione ordinata (la più bassa, o
“fondamentale”, e le altre più acute), (73) permettono a Rameau di ottenere la “triade naturale” (ossia
l’accordo maggiore, ricavato, per trasporto d’ottava, dall’unione della
“fondamentale”, della dodicesima e della diciassettesima, fino a comprendere,
sullo schema do‑mi‑sol,
un intervallo di terza maggiore e uno di terza minore), e di indicare, come
essenziali per l’armonia, le cadenze “dominante‑tonica” (gradi V‑I)
e “sottodominante‑tonica” (gradi IV-I; la “sottodominante” è qui fatta
coincidere con la “dominante” nell’ottava inferiore).
Su queste
basi, Rameau sviluppa una dottrina che, semplificata e ridotta in pillole da
illustri epigoni, (74)
diverrà il nucleo dell’insegnamento accademico dell’armonia fino ai primi
vent’anni del Novecento. Le conseguenze, sul piano sia teorico che pratico,
saranno incalcolabili. Il primato, conferito all’armonia sulla melodia,(75) diverrà un dogma che
solo Wagner, per primo, avrà il coraggio di sconfessare.(76) L’accordo, concepito come agglomerato
statico e a sè stante di note, sarà sottoposto a regole di concatenazione, le
quali, poiché desunte presuntivamente dalla “natura dei suoni”, provvederanno
più a condizionare dall’alto la prassi compositiva che non a promuoverne ed
accompagnarne lo sviluppo. Infine, la “cadenza mista” (gradi I‑IV‑V‑I),
ricavata “per interazione” dalle due cadenze essenziali di Rameau, verrà eletta
a modello della “tonalità”,(77)
il suo pregio maggiore consistendo nel rafforzare il carattere della tonica
come centro tonale e nel condurre il periodo musicale verso il punto di riposo
conclusivo.
Durante
l’Ottocento qualcuno dimostra, in contrasto con Sauveur, come nel fenomeno
della risonanza affiori, dall’insieme delle frequenze, una gamma di suoni assai
più vasta di quella compresa entro la scala cromatico‑temperata.(78) Ciò implica che a) non esistono accordi
naturali, dato che la differenza di altezza fra due suoni è sempre
suddivisibile per frequenze intermedie; b) la consonanza e la dissonanza sono
termini relativi, atti a indicare il maggiore o minor grado di percezione degli
armonici appartenenti a due suoni distinti; e c) l’armonia non riposa su
immutabili leggi di natura, ma “in parte è anche conseguenza di principî
estetici, che nello sviluppo progressivo dell’umanità sono stati soggetti a
mutamento e lo saranno ancora”. (79)
Solo Schönberg trarrà più tardi, da tutto questo, la conclusione estrema che
non esistono suoni estranei all’armonia, poiché l’armonia è fondata da
qualsiasi sonorità simultanea di più suoni”.(80) Dato l’accordo di tonica, i rapporti di prossimità o distanza
che lo legano agli altri accordi permettono di usare, senza alcun bisogno di
modulazione (ovvero di passaggio a nuovo centro tonale), anche le note non
appartenenti alla sua scala.(81)
Nella
prima metà del Novecento qualcun altro, in parallelo con Schönberg, approderà a
una concezione dinamica dell’accordo, quale aggregato di suoni scaturente, in
seno alla composizione, dal moto combinato delle parti. (82) L’“elaborazione compositiva” (Auskomponieren), modificando via via
un’unità singola di suono e interponendo nuovi elementi, dà luogo a un’opera
articolata su più livelli, ove la funzione della tonica (al livello profondo)
non è evidenziata dalle concatenazioni armoniche (ai livelli intermedio e
superficiale), ma è piuttosto definita dal senso che l’ascolto percepisce in
taluni momenti o nell’interezza del brano. L’ascolto, a seconda dell’andamento
imposto dal compositore alle parti, tende a trattare ciascuna come unità di senso
e a gerarchizzarla per importanza. Così, come “ascolto strutturato” o
“distanza”,(83) esso svolge un
compito di “valorizzazione” che è essenziale per l’economia dell’opera,
individuando certi accordi e assegnando loro la preminenza in ampie aree
tonali.
Non
sorprende che in anni recenti, dinanzi alla crisi in cui la “teoria
dell’armonia” continua a dibattersi, (84)
si sia parlato, da un lato, di “relatività del linguaggio sonoro” e di
“indefinite possibilità di adattamento dell’orecchio”, (85) e si sia pure tentato, dall’altro, di
riannodare i vecchi fili pendenti, proponendo ora la “consonanza”, (86) ora il “ciclo delle quinte”,(87) quali principî trascendenti d’unità.
Accanto alle perduranti ricerche sulla materia e sulla struttura del suono, è
inoltre maturata, in campo analitico, la consapevolezza di una terza dimensione
del “fatto musicale”: quella cioè dei significati che l’ascolto può conferire a
costrutti armonici e melodici determinati.(88)
A fine
Ottocento, invece, persasi la certezza delle basi fisico‑acustiche, la “teoria
dell’armonia” ricava dalla Gestaltpsychologie
nuovi argomenti a sostegno della sua pretesa “naturalità”. Ciò che le è d’aiuto
è la tesi secondo cui, a rendere riconoscibile una struttura percettiva (ad es.
una frase melodica), non sono le sue qualità fisiche, ma quelle formali.(89) La mente umana, obbedendo a un’ingenita
“legge di natura”, non trattiene i suoni, ma lo “schema” nel quale le si
presentano (ossia i loro reciproci rapporti intervallari): e può pertanto
riconoscere un brano, anche se accennato o eseguito in diversa tonalità. Lo
stesso principio vale per gli accordi, il cui “schema”, anziché da una
sequenza, è dato da una sovrapposizione d’intervalli.
La mente
umana, elaborando l’esperienza, non si limita ad “associare” le percezioni, ma
le ordina in base a un criterio formale costante. Quel che si deve intendere
per “consonanza”, “scala” o “accordo”, può dunque dedursi dalla sua “natura” e
non più da quella del suono. La diversa accezione, che a questi termini compete
a seconda delle culture, è poi riducibile all’unità di un modello
evoluzionistico, che proceda dal semplice al complesso: e che da ultimo,
supponendole un cervello “più sviluppato”, proclami la musica d’Occidente
“superiore” alle musiche “altre”. Tale è, come già detto, il caso di Stumpf, i
cui scritti più tardi testimoniano un vivo interesse per la Gestaltpsychologie.(90) E tale è, pur con molte differenze, il
caso di Hugo Riemann, che, dopo Rameau, può ritenersi il secondo padre della
“teoria (classica) dell’armonia”. Tipica del suo approccio è infatti
l’aspirazione a far dell’armonia una “scienza pura”, che individui le leggi,
mediante le quali “la mente concepisce i rapporti fra i diversi suoni”.(91) Né meno rimarchevole è la tesi che,
nella storia della “teoria musicale”, vede realizzarsi un progresso tracciato
“dal dito indice della natura”: progresso concernente il grado di precisione e
chiarezza, con cui certe nozioni, eterne e immutabili, vengono via via
formulate.(92)
Fin dagli
scritti giovanili, Riemann si dice convinto che l’ascolto musicale implichi un
“sentire in senso comparativo”, una selezione del “materiale sonoro riprodotto”:
e che perciò non sia “passività fisica, ma attività logica”.(93) Su queste idee, apprese a Göttingen alla
scuola del filosofo Hermann Lotze, egli edifica pian piano la propria
“armonistica”, che è dottrina incentrata sulla nozione di accordo (quale
“rappresentazione di suoni”) e sul progetto di una “logica musicale”, come
sistema di regole poste dalla mente, in conformità con se stessa e non con le
peculiarità del “materiale sonoro”. (94)
Il privilegio assegnato alla psicologia sulla fisica gli permette inoltre di
ridurre a un “dualismo di rappresentazioni” la dualità dei modi maggiore e
minore: la stessa che, da Rameau in poi, aveva indotto vari studiosi a
ipotizzare armonici inferiori (e immaginari), accanto a quelli superiori (e
sperimentalmente comprovati).(95)
Ne scaturisce allora un “sistema armonico dualistico”, formato da oggetti
“mentali”, ognuno dei quali, adempiendo a una “funzione” in ambito compositivo,
è da ciò qualificato per rango e importanza (gli accordi di tonica, dominante e
sottodominante, ad es., vengono detti “principali”, proprio perché deputati a
tradurre in pratica il principio di “tonalità”).
In età
matura, sicuro delle proprie scoperte, Riemann giunge persino a escludere che
il suo sistema “sia destinato in avvenire a subire altre trasformazioni”. (96) I fatti lo smentiranno ampiamente. La via
che passa per il “dissolvimento della tonalità” porta i compositori a
oltrepassare le regole da lui stabilite. Ma nel contempo, le “teorie
dell’armonia” di nuovo conio palesano un non trascurabile difetto: quello cioè
di non saper dare una fondazione univoca alla pluralità dei “fatti musicali”.
Weber di questa crisi ha certamente sentore. E tuttavia si astiene dal proferir
giudizi. Tanta cautela, altrimenti apprezzabile, è qui inopportuna, poiché, pur
non essendo un musicologo, Weber sa bene che, privo di un’adeguata “teoria
dell’armonia”, il “sistema tonale” perde di consistenza. Diversamente dalla
“valutazione estetica” e dall’“interpretazione”, tale teoria non è neppure
separabile dai fattori “tecnici” della musica: anzi, essa è proprio il mezzo
che li rende “razionalmente” accessibili alla “volontà artistica”. Come
spiegare infatti, in sua assenza, l’invenzione del “temperamento equabile”, o
quella dei due pedali che, nel pianoforte, attutendo o amplificando la voce,
permettono di apprezzare “la bellezza degli accordi suonati in modo
arpeggiante”? (97)
Weber conosce l’“armonistica” di Riemann e, a più
riprese, la usa come riferimento teorico‑generale. Se ciò non basta a far
di lui un assertore della “naturalità” dell’“idioma tonale”, è però innegabile
che tale scelta sia tanto “analitica” e “mirata allo scopo”, quanto
implicitamente “valutativa”. L’armonia tonale, per Weber, è un valore, non solo
un artificio tecnico. E la dottrina di Riemann è ciò che meglio di tutte
l’accredita sul piano teorico, concependola quale prodotto di una mente
integra, evoluta e affatto consapevole delle “leggi” che intrinsecamente la
governano. Riemann nobilita l’armonia tonale innalzandone le regole a principî
universali di ragione: gli stessi che il “soggetto borghese” (cartesiano?
kantiano?) dovrebbe dapprima saper riconoscere (quali fattori strutturanti la
vita psichica e intellettuale) e poi applicare proiettivamente all’esterno, nei
rapporti interpersonali e nelle attività “creative”. La dottrina di Schönberg
(come anche quelle di altri esponenti della “nuova musica”) pare invece
riflettere una soggettività inquieta, lacerata, vanamente protesa alla ricerca
del “tutto nel frammento”, dell’“assoluto” nei meandri dell’esperienza singola.
Liquidarla come “irrazionalistica” sarebbe tanto comodo, quanto errato, data la
limpida razionalità dei suoi argomenti. Forse per questo Weber con grande
onestà intellettuale, evita di far confronti. Che rimarrebbe infatti del valore
dell’armonia tonale, una volta che le sue basi teoriche fossero scalfite o revocate
in dubbio da quella stessa “ragione” che per circa due secoli si è sforzata di
consolidarle?
Note
(1) E.
LOWINSKY, 1961.
(2) J. CHAILLEY,
1951; C. DAHLHAUS, 1968; M. DE NATALE, 1986.
(3) H.
RIEMANN, 1887, p. VIII; E. KURTH, 1920, p. 273.
(4) R.F.
GOLDMAN, 1965, pp. 130‑131; J.J. NATTIEZ, 1975, p. 83.
(5) E.
LOWINSKY, 1946.
(6) R.
FRANCÈS, 1958; H. POUSSEUR, 1974; K. BLAUKOPF, 1982; N. RUWET, 1983; J.J.
NATTIEZ, 1989; M. IMBERTY, 1990; I. BONTINCK, 1992; L.B. MEYER, 1992; M.
BARONI, R. DALMONTE, C. JACOBONI, 1999.
(7) Th. W.
ADORNO, 2002, p. 256.
(8) M. WEBER,
1980; pp. 55‑66.
(9) K.
BLAUKOPF, 1951.
(10) A.
SILBERMANN, 1959.
(11) P.
HONIGSHEIM, 1968, pp. 75‑89; Ch. BRAUN, 1992; A. SERRAVEZZA, 1993;
F. MONCERI, 1999, pp. 49‑87.
(12) A. SCHÖNBERG, 1967, pp. 80‑87, e
1978, pp. 301‑305.
(13) E. ANSERMET, 1961, I, pp. 450‑451.
(14) il celebre “accordo mistico” a sei note:
cfr. J. YASSER, 1932, p. 67 ss.
(15) F. BUSONI, 1907, p. 12.
(16) A.
SCHÖNBERG, 1978, pp. 34‑35.
(17) R.
LEIBOWITZ, 1947, p. 80.
(18) P. BOULEZ,
1968, p. 165.
(19) O.
MESSIAEN, 1944, p. 10.
(20) P. BOULEZ,
1995, p. 154.
(21) K.
STOCKHAUSEN, 1963, p. 39; cfr. P. BOULEZ, 1979, p. 56.
(22) C. LÉVY‑STRAUSS,
1974, p. 34.
(23) R. JAKOBSON,
1970, p. 12.
(24) R.
FRANCÈS, 1958, pp. 259‑260.
(25) A.
SCHÖNBERG, 1975, p. 111.
(26) G.
STEFANI, 1982.
(27) M. WEBER, 1980, p. 68.
(28) E.
WEILLER, 1994; Ch. BRAUN, 1992, pp. 33‑42.
(29) M. WEBER,
1971, p. 20.
(30) ivi, p. 38.
(31) Il lettore spero mi scuserà se,
risparmiandogli l’ennesimo confronto Weber‑Nietzsche, mi limito a
indicare, su questi temi, gli studi di R. SCHROEDER, 1987; D.J.K. PEUKERT,
1989; e A. GERMER, 1994.
(32) ivi, p. 35.
(33) ivi, pp. 24‑25.
(34) A.
SCHÖNBERG, 1975, p. 116.
(35) A.L.
RINGER, 1999, p. 33.
(36) C. DAHLHAUS,
1978, pp. 147‑148.
(37) Th. W.
ADORNO, 1959, p. 134.
(38) M.
WEBER, 1988, I, p. 600.
(39) ivi, p. 615.
(40) I. STRAVINSKIJ, 1979, p. 97.
(41) A. SCHÖNBERG, 1969, p. 68 (la lettera a
Kandinskij del 1922).
(42) V.
KANDINSKIJ, 1989, p. 26.
(43) ivi, p.
23.
(44) A.
SCHÖNBERG, 1975, p. 190.
(45) M. WEBER,
1971, pp. 41-42.
(46) I. STRAVINSKIJ, 1984, p. 13.
(47) O. MESSIAEN, 1944, I, pp. 3‑4 (la
musica come atto di fede); cfr. J. McCARTHY, 1995, p. 57.
(48) L. BERIO, 1992, p. 285.
(49) M. WEBER, 1988, I, p. 615.
(50) M. WEBER,
1974, p. 352.
(51) ivi, p. 351.
(52) ivi, p. 349.
(53) G. ADLER,
1881; H. RIEMANN, 1898.
(54) K. JEPPESEN, 1925; L. BIANCHI, G.
FELLERER, 1971.
(55) J. LESTER,
1989.
(56) P.
WILLIAMS, 1970; H. BECKER, 1981.
(57) E. M. v. HORNBOSTEL,
1927; C. SACHS, 1982, pp. 13‑68.
(58) J. W.
FEWKES, B. I. GILMAN, 1891.
(59) C. STUMPF, 1898, II, pp. 127‑130 e
215‑216; e 1911, pp. 84‑85.
(60) E.M. v.
HORNBOSTEL, C. SACHS, 1914.
(61) E. M. v.
HORNBOSTEL, 1921.
(62) B. BARTÓK, 1935; e 1977, pp. 108‑151.
(63) M.
SCHNEIDER, 1934‑35; M. KOLINSKI, 1961; W. WIORA, 1963.
(64) C. STUMPF,
1911, p. 60.
(65) M.
SCHNEIDER, 1992.
(66) M. VOGEL,
1962, pp. 82‑83; cfr. E. KURTH, 1920.
(67) A.
REGNIER, 1974, p. 99.
(68) Th. W.
ADORNO, 1959, p. 21.
(69) M. WEBER,
1980, pp. 65‑68.
(70) K.
JEPPESEN, s.d., p. 23.
(71) J.-Ph.
RAMEAU, 1737, p. 15.
(72) J.‑Ph. RAMEAU, 1722, p. V.
(73) J.
SAUVEUR, 1701.
(74) J. L. R.
D’ALEMBERT, 1752; J. B. MERCADIER, 1776; J.‑J. de MOMIGNY, 1803‑06.
(75) J.‑Ph. RAMEAU, 1722, p. 1.
(76) R. WAGNER, 1924, p. 72: “l’unica forma
della musica è la melodia”; cfr. V. D’INDY, 1903, p. 91: “l’armonia risulta
dalla sovrapposizione di due o più melodie diverse”.
(77) S.
SECHTER, 1853, I, p. 13.
(78) H. v.
HELMHOLTZ, 1865.
(79) H. v.
HELMHOLTZ, 1983, p. 386.
(80) A.
SCHÖNBERG, 1978, p. 401.
(81) A. SCHÖNBERG, 1967, pp. 43‑67: il
concetto di “regione”.
(82) H.
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