Etica & Politica / Ethics & Politics, 2004, 2

http://www.units.it/etica/2004_2/ARDILLI.htm

 

 

 

 

Dalla comunità giusta alla comunità duratura:

Stuart Hampshire lettore di Machiavelli

 

Deborah Ardilli

 

Dipartimento di Filosofia

Università di Trieste

 

 

Abstract

 

Does Machiavelli have still something to say about the nature of politics? This essay inquires into the historical and theoretical premises implied in Hampshires response to this question. The author claims that, in spite of all appereances, Hampshire overturns Machiavellis views about the aims of politics. Unlike Machiavelli, Hampshire appeals to anthropology in order to neutralize the paradoxes involved in the exercise of political power. The consequences derived from this overturning emerge clearly in Hampshires conception of minimal procedural justice, which is proved to be the result of a shift from the issue of just community to the issue of enduring community.

 

 

 Vi dico che la fortuna non muta sententia

 dove non si muta ordine

 

 N. Machiavelli, La provisione del danaio

 

Quando si considera che l’interesse per Machiavelli da parte di Stuart Hampshire matura di concerto con l’elaborazione della teoria della giustizia procedurale minima (1), risulta difficile sottrarsi ad uno stato di disorientamento teorico generato dalla compresenza e dall’intreccio di orizzonti tematici, nonché di obiettivi pratici, radicalmente differenti, se non addirittura mutuamente esclusivi.

 Compito preliminare assegnato alle considerazioni che seguono è quello di indicare le coordinate entro le quali tale incontro ha luogo. Storicizzare le circostanze di quella renaissance di studi e di proposte originali che, a vario titolo e con differenti gradi di pertinenza, hanno riattivato la curiosità per il Segretario fiorentino, è il primo passo in vista di una collocazione puntuale dell’analisi hampshiriana. Senza questa veduta d’insieme, questioni come il rapporto tra potere e giustizia, l’incidenza del male nella vita politica e il conflitto come elemento strutturale - non contingente e non patologico – dell’ordine politico risulterebbero eccessivamente astratte. Un percorso orientato a localizzare in Machiavelli il punto di fissazione paradigmatica dell’eterna antinomia tra diritto e violenza, sarebbe poco promettente in questa sede. Vale la pena, invece, rilevare come, in un contesto intellettuale ben delimitato e generalmente ostile ad un’interpretazione volta a lasciar sfumare il “momento machiavelliano” in una perenne categoria dello spirito, Hampshire elabori una posizione relativamente autonoma. A questa relativa autonomia ci proponiamo di guardare come ad un sintomo, come ad una zona crepuscolare che annuncia, se non un tramonto, quantomeno un declino del progetto liberale, dei suoi cardini concettuali, della sua stessa pretesa di costituirsi come canone della ragione politica in un mondo contraddistinto da registri di conversazione, valutazione e azione tra loro differenziati. Si tratta, occorre precisarlo immediatamente, di un declino mai tematizzato come tale da Hampshire (né, a quanto ci risulta, dai suoi interpreti), di un dato implicito che, tuttavia, può essere interrogato e fatto parlare.

 Verificare la consistenza qua problema di un dialogo, quello tra Hampshire e Machiavelli, centrato sull’idea di conflitto, è l’ipotesi di lavoro intorno alla quale si cercherà di condensare le argomentazioni proposte nella seconda parte di questo contributo. L’obiettivo finale è quello di mostrare come il confronto con Machiavelli rappresenti, nel processo di formazione della teoria della giustizia procedurale minima, il fattore in grado di condizionarne tanto i presupposti quanto gli esiti, generando uno slittamento dal tema della comunità giusta a quello della comunità duratura. Ciò avviene nella misura in cui il compito di far dipendere l’accettabilità morale della società liberale dalla tutela dell’eguale libertà di diritto e (in una certa misura) di fatto, si trasforma, nella pagina hampshiriana, in quello di assicurare, mediante l’individuazione di un beneficio compensativo – la preservazione della comunità, appunto -, la legittimazione normativa di un sistema complessivo di relazioni sociali, nonostante le infrazioni, variamente percepite, della tradizionale promessa del liberalismo. Un primo indizio relativo alla parziale consapevolezza di questo slittamento da parte di Hampshire è il seguente: rifiutando l’artificiosa ricerca del consenso morale intorno a un grappolo di valori politici condivisi e identificando la democrazia con una continua tensione generata dalla coesistenza di ruoli e funzioni sociali diversi, l’autore di Justice is Conflict non pensa affatto di muoversi al di fuori dell’ambito della concettualizzazione, inaugurata da Rawls, della società giusta (2).  Egli si propone, piuttosto, di renderla più ospitale, più universalizzabile. Ciò di cui, nondimeno, il filosofo di Oxford sembra non avvedersi, è che il movimento di neutralizzazione delle basi sostantive del consenso politico a cui dà luogo, lo impegna in una direzione filosoficamente ancora più impegnativa e controversa di quella esplorata da Rawls. Se non è possibile isolare un nucleo di valori politici sui quali costruire un consenso per intersezione, e se d’altra parte una comunità umana deve essere possibile, quali risorse occorre mobilitare? Se la ricerca di un’area di consenso politico è pura utopia, per quale ragione la comunità politica liberale dovrebbe risultare comunque preferibile alle sue alternative e che cosa ne impedisce il disfacimento? E soprattutto, se la giustizia procedurale va accuratamente distinta dalla giustizia sostanziale, che cosa esprimono e che cosa interpretano la sue leggi?

 Non è il caso di anticipare troppo. Basti dire che intorno a questi interrogativi si gioca la questione del conflitto tra giustizia e opportunismo, tra consenso e forza, quella che Hampshire considera la sfida di Machiavelli.

 

 

 

Machiavelli e il liberalismo politico contemporaneo

 

 Prendere le mosse da una tesi di controversialità circa la legittimità della pretesa di riassorbimento della riflessione machiavelliana nell’alveo di quella tradizione di liberalismo politico che annovera Stuart Hampshire tra i suoi esponenti, è un’operazione che non si giustifica da sé. Si potrebbe, anzi, invalidare questa tesi mediante un appello alla mole di studi che, a partire dalla fine degli anni Settanta, hanno concorso a urbanizzare, in chiave liberale, il pensiero di Machiavelli fino a ricavarne il profilo autonomo di un repubblicanesimo fondato su una particolare forma di libertà negativa, in base alla quale la partecipazione dei singoli soggetti alle vicende pubbliche non esprimerebbe una destinazione naturale dell’uomo, e nemmeno, all’opposto, una dissoluzione dell’individualità sommersa da una totalità sociale che preme per darsi esistenza politica, bensì una necessità dettata dal pericolo di una degenerazione dispotica del governo (3). 

 Un vasto schieramento di studiosi, attingendo principalmente ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, alle Istorie fiorentine e all’Arte della guerra, ha letto in Machiavelli una vigorosa esaltazione del governo della legge e dell’uguaglianza civile come qualità fondamentali del vivere politico, a cui sarebbe affidato il compito di preservare la libertà attraverso i conflitti. In base a questa interpretazione - contestata, tra gli altri, da Gennaro Sasso (4) - l’opera del Segretario fiorentino accoglierebbe due distinte concezioni della politica: l’una, fedele alle convenzioni del vocabolario politico ciceroniano tramandate al pensiero politico tardo-medievale dal commento di Macrobio del Somnium Scipionis, si troverebbe radicata nel concetto di res publica in quanto comunità di individui che vivono insieme in giustizia. L’altra, dispiegata nella spregiudicata precettistica del Principe, e finalizzata a demolire la concezione ciceroniana e umanistica dell’ottimo principe, sarebbe invece figlia di quel linguaggio dell’arte dello Stato che, largamente impiegato nei verbali delle consulte e delle pratiche della Firenze rinascimentale, veniva invocato per giustificare il consolidamento del potere di una persona o di un gruppo sulle istituzioni pubbliche (5).  La tendenza odierna a valorizzare l’arte politica in contrapposizione frontale all’arte dello Stato, ad esperire, quindi, la prestazione di Machiavelli dal punto di vista di una riconsacrazione etica della sostanza della politica, sarebbe un’operazione del tutto inintelleggibile al di fuori dalle circostanze storiche del dibattito che mette all’ordine del giorno la questione della giustificazione normativa delle democrazie occidentali. La crisi di legittimazione delle istituzioni politiche democratiche ha imposto una drastica inversione di rotta rispetto alla tradizionale indifferenza liberale verso la dislocazione sociale e politica del potere (6).  Una volta consumatasi la stagione intellettuale che ha visto il nome di Machiavelli puntualmente associato alla nozione di demoniaco e all’insolubile antinomia tra potere e giustizia (7), è stato possibile rilanciare l’idea che, se i cittadini di una società democratica hanno da conservare i propri diritti e le proprie libertà fondamentali, devono anche possedere le virtù politiche necessarie a sostenere un regime costituzionale. È nell’idea di ragione pubblica, in quanto “ragione di cittadini uguali che esercitano un potere ultimo e coercitivo l’uno sull’altro promulgando leggi ed emendando la costituzione” (8), che si raccoglie e si concentra, da un punto di vista liberale, l’eredità più preziosa di Machiavelli, ossia la difesa della libertà come assenza di dominio e di interferenza arbitraria. Significativo è il fatto che, nel localizzare i luoghi istituzionali in cui la ragione pubblica si incarna, autori per altri versi in disaccordo come Hampshire e Rawls convergano, pur con accentuazioni diverse, nel chiamare in causa la Corte Suprema, espressione del potere costituente del popolo e garante contro gli umori di maggioranze transitorie. Se Rawls insiste sul fatto che sono valori esclusivamente politici a fornire la base delle interpretazioni della Corte (9), Hampshire tende a sostituire il linguaggio dei valori con quello delle procedure, ma l’obiettivo generale rimane il medesimo. Vale a dire, puntare l’attenzione su di un modello deliberativo che rinvia alle pratiche intersoggettive che contraddistinguono i variegati fori del giudizio e dell’arbitrato, quando si tratta di regolare le circostanze del conflitto tra pretese e aspettative rivali, di sostituire l’argomentazione alla forza, le virtù collaborative alla pervicace difesa del privilegio, l’istituzionalizzazione dell’antagonismo al suo artificioso soffocamento (10). Inquadrato in questa prospettiva, l’incontro tra Hampshire e Machiavelli pare essere tutt’altro che bizzarro o controverso. Se a ciò si aggiunge, come ha osservato Salvatore Veca, che le applicazioni delle giustizia procedurale minima hanno il carattere di exempla, essendo “valide nella prospettiva di un universalismo del passo dopo passo” (11),  ci si trova in perfetta consonanza con una recente formulazione che invita a guardare all’impresa intellettuale di Machiavelli come a un’ “arte del rimedio” (12).

 Questa, dunque, la cornice intellettuale di riferimento, all’interno della quale il problema di ricongiungere l’idioma della libertà con il progetto di fissare in un nucleo di significati condivisi i termini politici della cittadinanza liberale, è risolto nello stesso momento in cui è posto – cioè non è affatto risolto - combinando alcune suggestioni machiavelliane a intonazione civica con un disegno politico di “riformismo migliorista” che comprende intenti umanitari, disponibilità a rinegoziare le regole del gioco inadeguate a tenere aperto l’accesso alle risorse e assicurazione sul trattamento equo delle aspettative di tutti (13). Come tale disegno, legato ad una concezione della libertà che considera prioritaria la tutela del cittadino contro gli abusi del potere, possa essere armonizzato con una concezione che, invece, associa la libertà alla potenza, intesa come resistenza ai colpi della sorte, resta un intricato mistero (14). Ciò che, in ultima analisi, la linea interpretativa di cui si sono rapidamente richiamati i risultati tende a trascurare, è il fatto che Machiavelli rappresenta una sfida, anziché una conferma, alle teorie improntate al riformismo migliorista. L’idea di un “universalismo del passo dopo passo” non tiene conto del fatto che, mentre è tipico della tradizione classica considerare la conoscenza politica come una prescrizione terapeutica tendente alla progressiva eliminazione del male dalla società politica, la proposta di Machiavelli si fonda sul presupposto che la quantità di male nel mondo sia relativamente costante e che, pertanto, sia una peculiarità dell’azione politica il non poter andar disgiunta da conseguenze perverse (15). 

 Questa consapevolezza - non poco insidiosa laddove si annovera, tra i punti di forza dell’equità procedurale come parte del liberalismo politico, la capacità di scoraggiare comportamenti sleali e non cooperativi - è drammaticamente avvertita da Hampshire. La doppiezza che autori come Viroli attribuiscono all’opera di Machiavelli, salvo poi riservare un’attenzione esculsiva al lato luminoso della virtù civica, è qui accolta integralmente, nella sua dimensione tragica, nel dissidio tra innocenza ed esperienza. Scrive Hampshire: “la giustizia è l’opposto dell’aggressione, della conquista, del dominio, della violenza e dell’inganno, tuttavia tutti questi elementi contrari alla giustizia costituiscono mezzi indispensabili per garantire la sopravvivenza di una città o di uno Stato in tutte le condizioni prevedibili della vita politica. Machiavelli sostenne che era irresponsabile da parte di una persona occupare una posizione elevata all’interno di uno Stato, e insediarsi come capo all’interno della città, senza tuttavia essere disposto a utilizzare, se necessario, l’inganno, la violenza e il tradimento in difesa dello stato (16).”

 Ancor più insidiosa per lo schieramento liberale, se riportata alla crisi reale delle istituzioni democratiche, sia su scala nazionale che su scala sovranazionale, è la conclusione che si può trarre dal riconoscimento di una necessità legata all’uso dell’inganno e della forza. Sotto questo profilo, le restrizioni di libertà e gli abusi riflettono una crisi che, lungi dal sospendere un ordine ideale da portare a ricomposizione, ne mette a nudo la vera natura. Che la crisi, intesa come esercizio sempre più difficile e aleatorio dell’egemonia (17), possieda una qualità disvelante, ovvero la tendenza ad amplificare (talora non senza un’esagerazione formale dei sintomi del malessere) lo stravolgimento di un equilibrio consolidato come condizione necessaria per il suo superamento, non costituisce del resto una novità per i lettori di Machiavelli (18). Nel primo libro dei Discorsi, in cui viene indagato il passaggio dalle repubbliche ai principati, Machiavelli spiega come il principato sia impossibilitato a nascere se le repubbliche non hanno toccato il limite estremo della corruzione e della decadenza (19). L’argomentazione è nota: per opporre un argine alla spinta corruttrice occorre trasformare ab imis fundamentis gli ordini della città, il che è quasi impossibile. Il riordino della città al vivere politico presuppone un uomo buono, e il diventare tramite la violenza principe di una città presuppone un uomo cattivo; da qui la difficoltà dell’impresa, perché accade rare volte che un uomo buono, per vie cattive, voglia diventare principe e, viceversa, che un uomo cattivo, divenuto principe, voglia operare bene. Apparentemente il problema è espresso in termini identici da Hampshire e da Machiavelli: le riserve che Machiavelli avanza a proposito del Principe somigliano a quelle che Hampshire avanza a proposito di un moderno dirigente politico. La somiglianza, tuttavia, cela due preoccupazioni di carattere diverso: Hampshire teme che l’esercizio spietato del potere politico possa superare il limite oltre il quale il consenso morale verso le istituzioni che quel potere esprimono si avvia ad esaurimento, mentre Machiavelli teme che la malvagità del Principe sia un ostacolo al rivolgimento degli ordini deputato a sanare la corruzione. Se, in Hampshire, prevale l’obiettivo della giustificazione normativa, Machiavelli volge invece il suo interesse a un compito storico (e Roma è la garanzia della praticabilità del compito) legato alla rimozione dei particolarismi feudali in direzione della costituzione di uno Stato nazionale che non può farsi spontaneamente, ma nemmeno artificialmente, ché altrimenti il compito sarebbe affidato ad un potere tirannico, arbitrario. Da qui il duplice aspetto del potere politico sottolineato dall’autore del Principe, e ben riassunto dal termine egemonia, come unità di coercizione e consenso. Ma da qui anche una radicale differenza nei rispettivi dispositivi epistemologici, non priva di effetti sul piano sostantivo: lo spazio teorico della giustizia procedurale minima non prevede soggetti concreti, perché deve valere per ogni soggetto possibile che prenda parte ad una transazione pubblica; lo spazio teorico inaugurato da Machiavelli, prodotto sotto lo stimolo di una congiuntura singolare, ha senso solo grazie al suo soggetto d’elezione, il Principe, definito unicamente dalla funzione che deve compiere, dalla capacità di concentrare in sé le condizioni soggettive della riuscita. Da parte di Hampshire, quindi, si registra la presenza di un soggetto morale disincarnato o, più esattamente, dimidiato: in quanto bourgeois, egli è chiamato a preservare la propria identità distinta e irripetibile, allorché in quanto citoyen condivide la sua personalità morale con il resto del consorzio umano in virtù del principio di inclusione, audi alteram partem, che definisce la giustizia procedurale minima. La redistribuzione dell’attenzione pubblica verso le legittime aspettative di tutti comporta un tributo oneroso in termini di definizione della soggettività; il presupposto intersoggettivo che fonda il modello deliberativo hampshiriano, infatti, fa appello ad una invarianza antropologica in cui contano esclusivamente l’avversione prima facie verso alcuni grandi mali (assassinio, tortura, miseria, umiliazione, privazione della casa e degli affetti) e la disponibilità a sostituire il negoziato alla forza. Una soluzione di sicura suggestione morale, ma cieca di fronte alla necessità di distinguere chi usa la violenza per “guastare” e chi la usa per “racconciare”; e cieca anche di fronte ad una distinzione che, per Machiavelli, è invece di capitale importanza, ossia quella tra la violenza che il Principe mette in atto contro i grandi e quell’istinto primordiale di sopraffazione che, nella strutturale conflittualità degli umori, porta i grandi a opprimere il popolo (20). Ciò non significa che, da parte sua, Machiavelli offra una più ricca caratterizzazione del soggetto del suo discorso, dal momento che nessuna appertenenza di classe e nessun legame sociale con il popolo dispongono il Principe al suo compito. Tuttavia, se in Machiavelli c’è una teoria, un discorso che deve la sua validità all’enunciazione delle leggi del suo oggetto, ciò accade non in virtù di una deduzione fondata sull’autoevidenza delle premesse, bensì mediante l’assunzione del punto di vista della pratica politica, per il quale non ha più senso rappresentarsi obiettivi politici concreti nella forma di un’ideologia morale universalistica.

 Se tutto questo è plausibile, è allora possibile sostanziare la tesi di controversialità da cui si era partiti e imboccare una direzione di ricerca più sotterranea rispetto a quella esplicitamente indicata da Hampshire nel corso delle sue osservazioni su Machiavelli, ma in ultima analisi più completa ai fini di un bilancio critico della prestazione hampshiriana. La necessità di definire i termini di accettabilità morale di ordinamenti radicalmente imperfetti, pregiudicati, cioè, nella loro purezza, da un inevitabile ricorso a mezzi fraudolenti e, nel contempo, fugare il rischio di una precipitazione nella violenza, è un topos che, in Hampshire, ritorna con una frequenza tale da accreditare l’idea che a questo livello si raccolga tutto il suo interesse per Machiavelli. L’enfasi posta su questo snodo tematico, non equivale, però, all’unicità del motivo e, di per sé, non ne chiarisce né il sottofondo filosofico, né gli esiti politici.

 

 

 

L’originalità di Machiavelli

 

 Quanto detto finora permette di trarre una prima conclusione in merito all’impiego attuale del lascito teorico di Machiavelli e ai suoi effetti secondari. Si assiste, in linea generale, ad una sorta di vivisezione governata da una valutazione immediatamente etica di ciò che è vivo e ciò che è morto nell’opera del fiorentino. La selezione di ciò che è vivo è subordinata, in ultima analisi, ad una delimitazione preventiva del concetto di “politico” che procede per via di sottrazione, rimuovendo, cioè, dalla definizione dell’oggetto ogni riferimento alla rivendicazione di verità che le dottrine comprensive reclamano per sé. Non è dunque la corrispondenza alla “verità effettuale”, articolata come tesi ontologica o come tesi di determinazione storica (21), ad assicurare l’oggettività del giudizio politico, bensì il reiterato successo di pratiche argomentative in cui persone ragionevoli e razionali fanno appello a ragioni pubblicamente difendibili (22).

 Di questa tendenza Hampshire condivide la portata antiscettica (23), sulla base della fiducia riposta nell’esistenza di un livello di decenza comune che precede le singole concezioni sostantive del bene. Volendo ricorrere ad una metafora abusata, si potrebbe dire che la giustizia procedurale minima funge da bilancia là dove le considerazioni derivate da differenti visioni del bene rappresentano i pesi che devono essere valutati. Tuttavia, e qui si insinua una peculiarità rilevante, la bilancia della giustizia procedurale minima non costituisce, nelle intenzioni di Hampshire, un artificio razionale cui far ricorso per legittimare la formazione della società bene ordinata, ovvero delle moderne democrazie occidentali, bensì un concetto dedotto dalla totalità delle situazioni storiche di cui è possibile raccogliere testimonianza, che esprime una qualità perenne della natura umana, non localizzabile in un punto determinato del tempo e dello spazio: “Se riusciamo a riprenderci dal sogno delle filosofie teleologiche della storia, e se siamo disposti a riconoscere la disordinata varietà di morali messe in luce da antropologi e storici, la morale può essere riportata alle sue fonti reali: in primo luogo ai ricordi, alle immagini e alle emozioni degli individui che creano concezioni della vita buona all’interno di una cultura e di una lingua particolari e, in secondo luogo, al ragionamento pratico universale e al contraddittorio, attraverso i quali le persone cercano di risolvere sia i propri conflitti interni sia quelli interpersonali, che includono concezioni conflittuali del bene (24).”

Sono le condizioni strutturali della natura umana ad imporre, a giudizio di Hampshire, la giustizia procedurale minima come fattore di coesione. L’esposizione di Machiavelli, così Hampshire, deve la sua insuperata vitalità non tanto al fatto di orientare immediatamente verso un ideale normativo – il governo della legge, la libertà come non dominio, l’eguaglianza civile etc. -  ma alla sua capacità di illuminare le condizioni precipue dell’agire politico, in maniera tale da far risaltare le richieste di una moralità minima di base come la sola soluzione desiderabile in un mondo di perdurante e inconciliabile discordia tra concezioni rivali della fioritura umana (25). Ma in cosa consistono le condizioni precipue dell’agire politico che dovrebbero costringerci, in quanto esseri ragionevoli, ad optare per l’equità minima di base come unica alternativa a derive nichilistiche? E come valutare l’effettiva incidenza di Machiavelli nella formulazione del problema e nella sua risoluzione? La fonte alla quale attingere per dare una risposta a queste domande è il saggio di Isaiah Berlin, L’originalità di Machiavelli (26), che a buon titolo può essere considerato il precedente più prossimo, dal punto di vista della storia delle idee, di quanto Hampshire viene elaborando in sede di teoria politica. Vale la pena, allora, richiamare rapidamente i contenuti di questo lavoro.

 Interrogandosi sulle ragioni dello sconcerto che Machiavelli continua a produrre presso i suoi lettori, Berlin prende le distanze dalla nota tesi crociana sulla distinzione tra politica e morale operata dall’autore del Principe: “La distinzione di Machiavelli non passa tra valori specificamente morali e valori politici; quella che egli realizza non è l’emancipazione della politica dall’etica o dalla religione, che Croce e molti altri commentatori considerano la sua grande conquista; ciò che egli arriva a stabilire è qualcosa che tocca un livello ancora più profondo: una differenziazione tra due ideali di vita incompatibili, e pertanto tra due morali. Una è la morale del mondo pagano: i suoi valori sono il coraggio, il vigore, la forza d’animo nelle avversità, il bene pubblico, l’ordine, la disciplina, la felicità, la forza, la giustizia, e soprattutto la rivendicazione dei propri diritti e la conoscenza e il potere necessari per assicurarne la soddisfazione […]. Contro questo universo morale si leva, innanzitutto e soprattutto, la morale cristiana. Gli ideali del cristianesimo sono la carità, la misericordia, il sacrificio, l’amor di Dio, la clemenza verso i nemici, il disprezzo per i beni di questo mondo, la fede nella vita dell’aldilà, la credenza nella salvezza dell’anima individuale per il suo incomparabile valore intrinseco – un valore più alto, e anzi del tutto incommensurabile rispetto a qualunque meta terrestre, sociale, politica o di altro tipo, a qualunque considerazione economica, o militare, o estetica.” (27)

In polemica con la filosofia crociana, che guarda alla circolarità della vita spirituale come ad una contraddittorietà costruttiva, complementare, non eliminatoria, di sfere autonome, Berlin (e Hampshire con lui) individua in Machiavelli l’occasione per aprire una breccia nella credenza monistica in base alla quale tutti i valori ultimi sono compatibili in unico sistema. Machiavelli, secondo questa ipotesi di lettura, non condanna il vocabolario morale tramandato da secoli di dottrina cristiana, non vagheggia un rovesciamento della tavola dei valori, né tenta di accreditare come accettabile per la coscienza morale ciò che accade sotto il segno del disvalore. Egli illustra, piuttosto, come il perseguimento coerente di tali valori comporti l’autocondanna all’impotenza politica, il “pigliare certe vie del mezzo” che, inevitabilmente, conducono al fallimento di tutti i progetti terreni di gloria conseguita mediante la fondazione di un organismo politico che duri. Una simile conclusione risulta comprensibile, secondo Berlin e secondo Hampshire, solo se si ammette che Machiavelli “sostiene una specifica concezione del bene, nella quale il bene umano consiste in conquiste terrene gloriose che verranno riconosciute nella storia” (28). Ne segue che l’uomo è costretto ad una scelta e ad una rinuncia, poiché “ogni virtù, come ogni autentico apprendimento, è il risultato di una specializzazione delle funzioni” (29). 

 Di questa complessità etica determinata da scelte necessariamente laceranti, l’arena politica è, per Hampshire, lo specchio fedele, nella misura in cui le relazioni politiche normalmente hanno luogo tra soggetti e gruppi che ricercano una reciproca cooperazione, pur rappresentando interessi conflittuali. Accade, pertanto, che la rigida coerenza debba essere sacrificata al conseguimento del male minore e che la pressione verso simulazioni e infingimenti prevalga sull’argomentazione razionale o sul calcolo prudenziale di interessi chiaramente identificati. Accade, cioè, che il perseguimento di un determinato bene si traduca, nel corso del processo politico, nel conseguimento di una serie di beni parziali, di formazioni di compromesso ottenute per via di reciproche concessioni e di reciproche limitazioni.

 Di fronte all’ampiezza del consenso di cui gode una simile visione pluralista – che, beninteso, non equivale a all’ampiezza del consenso intorno all’interpretazione di Machiavelli avanzata da Hampshire e da Berlin -, vale la pena formulare due considerazioni. Innanzitutto, se l’essenza di una totalità sociale risiede nello scorporo di sfere distinte (30) e nella districazione di universi morali irriducibili, ne deriva una legittimazione della funzionalizzazione del politico e, pertanto, una de-politicizzazione della società in flagrante contraddizione con quella propensione alla deliberazione pubblica che Hampshire ascrive agli uomini di ogni tempo e luogo. La conclusione obbligata da trarne è che il sistema politico, in quanto sistema tra gli altri, diventa una specialità da lasciare ai professionisti, perché non concerne la società nel suo complesso. Hampshire stesso non esita ad avvallare questa conclusione, sulla base del fatto che “la maggior parte delle persone di tutte le epoche non ha alcun accesso al potere politico effettivo, molti non hanno alcun interesse per l’effettivo potere politico, e solo una minoranza di persone si trova a dover fronteggiare il problema di Machiavelli nelle circostanze concrete della propria esistenza” (31). 

 Secondariamente, non è così evidente che la frammentazione dell’universo etico in unità autoreferenziali rappresenti un’istanza generatrice di ricchezza morale e culturale, intrinsecamente preferibile ad ogni possibile alternativa. Quel monismo a vocazione totalitaria, l’etichetta con cui Hampshire e Berlin liquidano tutte le versioni morali che assegnano un punteggio positivo all’ideale di sviluppo onnilaterale dell’uomo (32), che si vorrebbe scongiurato dall’opzione pluralista, viene rimpiazzato dall’abbandono di ogni singola sfera alla propria logica, con il rischio di portare i membri delle società moderne alla perdita di ogni linguaggio comune e alla scomparsa di ogni opportunità di controllo sulla vita collettiva. Delle due, l’una: o le società moderne hanno raggiunto un livello di stratificazione e un tasso di conflittualità tale da far risuonare come pura suggestione l’appello a un minimo comun denominatore etico dell’umanità, e in questo caso la proposta hampshiriana risulta impraticabile sul piano del dover-essere. Oppure occorre ammettere che, se una prassi normativamente vincolante deve potersi realizzare, le sue condizioni di possibilità vanno ricercate in una dimensione fattualmente alternativa a quella suggerita dalla teoria hampshiriana, la cui carenza manifesta si colloca pertanto sul piano descrittivo.

 

 

 

Metamorfosi del conflitto: dalla storia alla metafisica

 

 L’avvertenza circa i limiti di natura descrittiva che inficiano la costruzione teorica hampshiriana - è bene chiarirlo - non riguarda tanto la fenomenologia del processo politico, bensì le lenti concettuali con le quali Hampshire isola e classifica i fatti politici. L’assunto di base è che il conflitto, da Hampshire concepito in via privilegiata come conflitto identitario, sia determinato dalla necessità di preservare la propria natura distinta (33). Da questo punto di vista, antagonismo sociale e antagonismo politico perdono la propria specificità genetica e strutturale, lasciandosi invece decifrare solo come manifestazione derivata, ritagliata su uno sfondo ontologico contraddistinto da un movimento di determinazione positiva che procede per via di negazione, senza margini possibili di ricomposizione ad uno stadio più elevato. Ciò si riflette sul piano politico, dove i soggetti contano come soggetti di potere e come soggetti al potere e in cui il potere si presenta, a sua volta, come zona di dispiegamento del desiderio, come confine mobile di “mala contentezza”, come iato tra il desiderare ogni cosa e il non poterla conseguire. Infine, come relazione di dipendenza reciproca, entro la quale prevalgono le azioni miste, quelle che, secondo l’adagio aristotelico, non si compiono in amicizia con se stessi, poiché implicano conflitto. Questa dimensione, a giudizio di Hampshire ineliminabile proprio in virtù della sua dipendenza dalla metafisica del conflitto, è ulteriormente complicata dall’esposizione alla fortuna, la percezione dell’instabilità che grava non solo su ogni formazione socio-politica, ma anche su ogni progetto parziale, su ogni linea di condotta elaborata per il raggiungimento di un obiettivo e che può essere resa vana da un improvviso capovolgimento degli eventi. Si tratta, notoriamente, di uno dei più celebri e controversi temi machiavelliani. Hampshire si accontenta di registrare questo elemento di imprevedibilità come qualcosa che proietta le persone politicamente costruttive verso il lato oscuro e indomabile dell’esperienza, come dato di realtà autosussistente, come perenne caso d’eccezione elevato a rango di categoria politica. Ben diversa, a ben vedere, è la posizione di Machiavelli: la fortuna, metaforizzata nel capitolo XXV del Principe ora come fiume rovinoso, ora come donna amica dei giovani, viene indagata nei Ghiribizzi al Soderino nei concreti motivi che ne determinano l’insorgenza, ovvero nella strutturale incapacità umana di accordare i propri modi di procedere al variare dei tempi. In altri termini, la fortuna è qui il correlato necessario di un limite di carattere antropologico, la denominazione di quella zona oscura del carattere che ostacola il “veder discosto”, impedendo così la retta percezione della realtà storica che è condizione preliminare al suo controllo (34). La teoria del “riscontro”, ossia l’idea di un incontro propizio tra le condizioni oggettive della congiuntura x e le condizioni soggettive di un individuo y, produce, in Machiavelli, un duplice effetto: anzitutto, quello di allontanare il mito della città puramente morale, giacché la necessità di entrare nel male coincide con la necessità di veder discosto. Secondariamente, viene neutralizzata l’immagine, classica e medievale, di una fortuna retta da una logica estranea a quella umana, oscura potenza capace di appropriarsi di una metà di realtà a discapito della virtù. A differenza di Hampshire, Machiavelli è disposto ad ammettere che la virtù sia capace di totalità, non perché il limite intrinseco della natura umana possa essere superato, ma perché all’uomo appartiene, attraverso la politica, la facoltà di evitare la rovina nella creazione di uno Stato in grado di ampliarsi e durare. I tumulti, i conflitti, le “dissensioni universali” sono un ingrediente indispensabile in vista dell’obiettivo politico prefissato; Machiavelli li analizza nella loro causa, mettendo in primo piano la plebe, i cui tumulti sfociano nella conquista delle leggi (35), e nei loro esiti, sottolineando come le leggi stabiliscano il rapporto di forza tra le classi e producano la libertà (36). Istanza genetica (quali siano le cause storicamente accertabili dell’insorgenza del conflitto) e istanza teleologica (quali esiti questo produca se indirizzato ad un preciso obiettivo politico) sono del tutto estranee alla speculazione hampshiriana. La metafisica del conflitto le rende inutili; la parsimonia filosofica che guida la teoria della giustizia procedurale minima si appaga del timore per la dissoluzione violenta della comunità come forma più economica di ideologia, avendo questo il vantaggio di non essere culturalmente relativizzabile.

 L’equità procedurale minima delineata da Hampshire, risulta del tutto coerente con questa caratterizzazione pre-sociale e pre-politica del conflitto: l’esigenza di scrutare nel vincolo cooperativo che mantiene in vita le comunità umane lo conduce verso una struttura socio-ontologica definita in primis dalla necessità di preservazione. Detto altrimenti, l’interesse che uomini e donne di ogni tempo e luogo manifestano per il contraddittorio e le procedure negoziali, dipende tanto dalla loro natura razional-dialogante, quanto dalla necessità di assegnare un ordine di priorità ai grandi mali da evitare, a partire dalla degenerazione dei conflitti in aggressione violenta. La disposizione intersoggettiva e conversazionale che Hampshire attribuisce alla ragion pratica, la funzione dialogica che fissa le norme al cui giudizio sottomettere i valori, conferma la sua concezione non dialettica del conflitto, tale per cui le forme empiriche che di volta in volta questo assume, possono sempre essere sublimate nel vinculum substantiale che rende possibile la convivenza tra gli uomini (37). Da questo punto di vista, la giustizia non è qualcosa che si produce, bensì qualcosa che esprime una sorta di pietas naturale.

 La salvezza della comunità politica dai colpi della sorte e dei nemici è un obiettivo che Hampshire ritiene di condividere con il fiorentino, quando sostiene che “se Machiavelli ritornasse in vita per studiare le moderne democrazie, sarebbe rassicurato dal trovare che la grande maggioranza degli elettori in tutte le democrazie sostiene fedelmente il proprio governo quando questo agisce in maniera aggressiva e con successo di fronte a potenze straniere” (38). Ancora una volta, però, la somiglianza è solo apparente, e tradisce anzi una differenza che rinvia ad una duplice struttura del tempo storico che governa la riflessione dei due autori. Per Machiavelli la salvezza è connessa al “fare epoca”, all’evento del “diventare, di privato, Principe”, ossia al dar vita a un nuovo inizio, a una nuova realizzazione politica che infrange il continuum del passato. In Hampshire, invece – e ciò risulta evidente dall’enfasi posta sul rispetto della consuetudine e del precedente come condizione empirica necessaria all’esercizio della giustizia procedurale minima - la salvezza è subordinata al durare, ad una modalità di svolgimento di un tempo inerte, in cui una formazione socio-politica si riproduce eguale a stessa in forza dell’equilibrio tra le proprie capacità di innovazione e le proprie forze di vischiosità. L’assenza di qualsiasi mutamento storicamente significativo delimita l’orizzonte entro il quale Hampshire si muove alla ricerca di quella fondatezza di cui la teoria ha bisogno per sfuggire alle secche del relativismo. È nell’antropologia, anziché nella politica, che in ultima analisi Hampshire cerca una risposta al problema della comunità duratura, invertendo quel processo che invece aveva condotto Machiavelli a cercare nella politica la soluzione di una contraddizione della natura umana e, soprattutto, lasciando del tutto indeterminato il problema del passaggio dalle forme dell’intersoggettività alle forme oggettive dei rapporti reali.

 Si è detto comunità duratura, non comunità giusta: una determinazione d’esistenza prende il posto di una determinazione di valore. Si tratta una conclusione che evidenzia lo scarto tra la posizione hampshiriana e l’aspirazione che normalmente ha guidato tutti i fautori di una concezione procedurale della giustizia, ossia che l’equità della procedura possa trasferirsi automaticamente all’equità dell’esito. Un’illusione che Hampshire mostra di non condividere, perché “il rispetto per un processo può coesistere abitualmente con l’avversione per l’esito del processo, e ciò soprattutto nelle democrazie” (39), ammettendo altresì la liceità di una temporanea sospensione dei vincoli procedurali, quando questa si rivela necessaria per sfuggire a mali ancora più grandi.

 L’illusione di cui Hampshire rimane invece vittima, è quella che un ordine improntato ai principi della giustizia procedurale minima possa, garantendo la pace sociale (il che resta da dimostrare), garantirsi contemporaneamente il consenso degli associati, indipendentemente dalla loro posizione e dal ruolo specifico che il conflitto assegna loro. Si noti di sfuggita come questa illusione, di fatto, condivida alcuni tratti salienti con un paradigma di recente affermazione nel pensiero politico contemporaneo, quello di “costituzione imperale del mondo”: il suo essere riferito ad un sistema politico decentrato e deterritorializzato, la cui sostanza normativa è l’universalismo cosmopolitico. L’esercizio del potere politico, da questo punto vista, ha luogo attraverso istituzioni politiche e apparati giuridici la cui funzione è essenzialmente quella di garantire l’ordine globale e cioè una pace stabile e universale che consenta il normale funzionamento dell’economia di mercato. L’Impero svolge, anche attraverso lo strumento bellico, compiti di polizia internazionale e persino ruoli giudiziari tendenzialmente neutrali. Il potere imperiale è addirittura invocato dai suoi sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto vista universale, e cioè sostanzialmente imparziale. Ed è significativo che nell’ultimo decennio, dopo un lungo periodo di eclissi, sia rifiorita nella cultura anglo-americana la dottrina del bellum justum, e cioè una dottrina medievale, tipicamente universalistica e imperiale” (40).

 Che di illusione - o di fallacia descrittiva - si tratti, risulterà se non evidente, almeno plausibile, a chi con Machiavelli voglia ipotizzare che “chi vuol vedere se una pace è duratura o secura, debbe intra l’altre cose esaminare chi restono per quella malcontenti e da quella mala contentezza loro quello che ne possa nascere” (41).

 

 

Note

 

(1) S. Hampshire, Innocenza ed esperienza. Un’etica del conflitto (1989), trad. it. di G. Giorgini, Feltrinelli, Milano 1995 e Id., Non c’è giustizia senza conflitto (2000), trad. it. di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2001.

(2) Cfr. S. Hampshire, Non c’è giustizia senza conflitto, cit., p. 27: “John Rawls ha vivificato lo studio della filosofia politica prendendo le distanze, com’era necessario, da questa ricerca tradizionale dell’armonia. Nel suo libro Una teoria della giustizia egli ha dichiarato che i suoi principi di giustizia razionalmente scelti devono essere indipendenti dalle concezioni del bene. Ma ha anche dichiarato che i suoi principi devono essere razionalmente scelti, in modo specifico, da coloro che vivono in una società liberale e democratica, nella quale potrebbero rappresentare un consenso politico per sovrapposizione ai principi della giustizia sostanziale. Ancora una volta c’è armonia, ma è un’armonia relegata all’interno dello steccato liberale. Nessuno la cui concezione del bene e del male sia fondata su un’autorità soprannaturale che presenti la tolleranza di una visione morale opposta come un male accetterà, per esempio, la supremazia della libertà. La presenza di simili persone illiberali deve essere data per scontata in ogni società veramente liberale.”

(3) Pionieristici, da questo punto di vista, sono stati gli studi di Quentin Skinner, volti a scalzare le tesi di John Pocock sulla derivazione aristotelica delle idee cardine della tradizione repubblicana, riprese poi dai communitarians e spese nella polemica contro i teorici liberali. Cfr. Q.Skinner, Le origini del pensiero politico moderno. Il Rinascimento (1978), trad. it. di G. Ceccarelli, Il Mulino, Bologna 1989; Id., Machiavelli (1981), trad. it. di A. Colombo, Il Mulino, Bologna 1999; Id., Machiavelli on the Maintenance of Liberty, in “Politics”, XVIII, 2, 1983, pp. 3-15; Id., The Idea of Negative Liberty: Philosophical and Historical Perspectives, in R. Rorty, J. B. Schneewind, Q. Skinner (eds.), Philosophy in History, Cambridge University Press, Cambridge 1994, pp. 193-221; Id., The Paradoxes of Political Liberty, in “The Tanner Lectures on Human Values”,VII, 1986, pp. 225-250; Id., The Republican Ideal of Political Liberty, in G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli (eds.), Machiavelli and Republicanism, Cambridge University Press, Cambridge 1990, pp. 293-309. Sulla stessa scia M. Viroli, Dalla politica alla ragion di stato. La scienza del governo tra XIII e XVII secolo, Donzelli, Roma 1994; Id., Per amore della patria. Patriottismo e nazionalismo nella storia, Laterza, Roma-Bari 1995; Id., Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999. Il contributo filosofico più importante, ai fini del rilancio del repubblicanesimo civile, è senz’altro quello di P. Pettit, Il Repubblicanesimo (1997), trad. it. di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2000. Il recupero della tradizione repubblicana è stato oggetto di vivo interesse anche tra gli studiosi di diritto costituzionale: tra il 1987 e il 1989 tre importanti riviste giuridiche hanno dedicato numeri monografici alla questione: cfr. “William and Mary Law Review”, XXIX, Fall 1987; “Yale Law Journal”, XCVII, July 1988; “Florida Law Review”, XLI, Summer 1989. Che il repubblicanesimo costituisca un indirizzo teorico organico al più vasto progetto liberale, non è solo opinione ribadita a più riprese dai pensatori di orientamento repubblicano, che con i teorici liberali condividono sia l’idea che sia possibile organizzare uno stato e una società civile a partire da una base che trascenda buona parte delle divisioni religiose e morali, sia il rifiuto di vincolare l’ideale di cittadinanza all’egualitarismo materiale. Anche John Rawls ha riconosciuto che non esiste un’opposizione fondamentale tra il repubblicanesimo classico e la giustizia come equità in quanto forma di liberalismo politico. Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico (1993), trad. it. di G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Torino 1999, pp. 177-178.

(4) Il quale invece insiste, mi pare persuasivamente, sull’unità di fondo tra i Discorsi e il Principe. Cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Il pensiero politico (1980), Il Mulino, Bologna 1993.

(5) Tra le prove a sostegno di questa distinzione interna al pensiero di Machiavelli, viene addotto il fatto che il termine “politica” non compare mai nelle pagine del Principe, essendo questo dedicato non all’elaborazione di una nuova concezione della politica, bensì all’interpretazione della tradizione fiorentina dell’arte dello Stato. Cfr. M. Viroli, Dalla politica alla ragion di stato, cit., p. 87. La possibilità di attribuire ad una simile circostanza un valore probante mi pare dubbia, così come opinabile è l’idea che Machiavelli concepisse il Principe come un’ interpretazione di quella politica opportunista e priva di nerbo che caratterizzava la Firenze rinascimentale. La coscienza dell’abisso tra ciò che Machiavelli aveva osservato nel corso della sua esperienza politico-diplomatica e la concezione che andava delineando, è messa in evidenza nella lettera al Vettori del 10 agosto 1513: “Io so che a questa mia opinione è contrario un naturale difetto degli uomini: prima di voler vivere dì per dì; l’altra di non credere che possa essere quel che non è stato; l’altra, far sempremai conto d’un modo ad un modo”. Cfr. N. Machiavelli, Opere, vol. II, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1999, pp. 274-279. Più convincente, e più illuminante per spiegare l’assenza del termine “politica” nel Principe, risulta essere la posizione di Wolin, per il quale l’implicita condanna machiavelliana delle grandi filosofie del passato è determinata dall’inservibilità presente delle categorie politiche messe a punto da tali filosofie; inservibilità a sua volta generata da un’oggettiva obsolescenza delle tradizionali forme di legittimazione, a partire dal sistema di trasmissione ereditaria del potere politico. Cfr. S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale (1960), trad. it. di R. Giannetti, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 281-344.

(6) Un documento esemplare di tale indifferenza, connessa alla preferenza assegnata alla libertà come non interferenza, è la celeberrima distinzione di Isaiah Berlin tra libertà positiva e libertà negativa, intese non come due facce della stessa medaglia, ma come atteggiamenti rivali e divergenti nei confronti dei fini ultimi della vita. Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà (1958), in Id., Quattro saggi sulla libertà (1969), trad. it. di M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 185-241.

(7) Il riferimento è, ovviamente, a G. Ritter, Il volto demoniaco del potere (1948), trad. it. di E. Melandri, Il Mulino, Bologna 1968.

(8) J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p.184.

(9) Ivi, p. 200. Sulla stessa linea si attesta Philip Pettit, per il quale la necessità di limitare l’accesso ad aree legislative particolarmente importanti da parte di chi occupa posizioni di potere, può essere assicurata solo da un organo legislativo che sia deliberativo e che proceda come una giuria, i cui membri sono premiati se argomentano tenendo presenti gli interessi comuni e, viceversa, puniti se argomentano in maniera interessata. Cfr. P. Pettit, Repubblicanesimo, cit., pp. 277-278.  

(10) Cfr. S. Hampshire, Innocenza ed esperienza, cit., p. 138: “L’iniquità di una procedura viene stabilita attraverso gli stessi canoni generali che utilizziamo per valutare l’ingiustizia di un particolare impiego della procedura: le tesi morali sono state esposte in tutti i loro aspetti? Le parti interessate hano una ragionevole facoltà di accesso? Vi è un’autentica argoentazione e controargomentazione? I precedenti, se ve ne sono, sono stati rispettati? Le regole procedurali sono ragionevolmente coerenti e conosciute? La procedura è esente da minacce di forza fisica? Ogni volta che pensiamo ai doveri che ovunque sostengono le virtù della giustizia, pensiamo al rischio della dominazione, espresso dalla soluzione delle questioni morali mediante la minaccia della forza o mediante la conquista.”

(11) S. Veca, La bellezza e gli oppressi, Feltrinelli, Milano 2002, p. 62.

(12) Cfr. G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, Donzelli, Roma 2003.

(13) Per una caratterizzazione articolata di ciò che si intende per riformismo migliorista si può vedere A. Besussi, La società migliore. Principi e politiche del New Deal, Il Saggiatore, Milano 1992.

(14) Su questo cfr. la dettagliata analisi di G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Il pensiero politico, cit., pp. 511 sgg.

(15) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, II, in Il Principe e altre opere politiche, a cura di D. Cantimori e S. Andretta, Garzanti, Milano 1999, p. 242: “E pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo essere sempre stato a uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo”, ragion per cui, come si dice nel capitolo XV del Principe, “colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni.”

(16) S. Hampshire, Innocenza ed esperienza, cit., p. 155. Su questo tema cfr. anche R. Grant, Hypocrisy and Integrity. Machiavelli, Rousseau and the Ethics of Politics, University of Chicago Press, Chicago-London 1997, in cui è discusso il paradosso delle democrazie liberali, legato al fatto che la rivendicazione liberale di poter garantire processi politici trasparenti e onesti è contraddetta dal fatto che tali processi sono strutturati in maniera tale da incrementare le dipendenze che determinano un comportamento politico ipocrita.

(17) Antonio Gramsci, nelle sue Noterelle sul Machiavelli, ha efficacemente delineato la fenomenologia della crisi di egemonia, in una maniera che, ad un livello di superficie, Hampshire approverebbe, pur rimanendo ideologicamente distante dal significato che il dirigente comunista annette all’esercizio della funzione egemonica: “Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l’impiego della forza troppi pericoli) cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti sia copertamente, sia in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste. [...] Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni frazione di partito crede di avere la ricetta infallibile per arrestare l’indebolimento dell’intero partito, e ricorre a ogni mezzo per avere la direzione o almeno per partecipare alla direzione, così come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese, o almeno pretende, per dare l’appoggio al governo, di doverci partecipare il più largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose, che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose, e che spesso sono infide e perfide.” A. Gramsci, Quaderno 13.1932-1934: Noterelle sulla politica del Machiavelli, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2001, pp. 1638-1639.

(18) Si tratta, invece, di una considerazione che non ha mai smesso di sconcertare i pensatori di orientamento liberale, i quali – Hampshire ne è un esempio – lungi dal negare la crisi delle istituzioni liberal-democratiche e degli ideali che le circondano, la utilizzano tuttavia come buona occasione per ribadirne l’apprezzabilità.

(19) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, I, 18, p. 158: “Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo: perché solo i potenti proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro, e contro a quelle non poteva parlare alcuno per paura di quelli; [...] Era necessario pertanto, a volere che Roma nella corruzione si mantenesse libera, che così come aveva nel proceso del vivere suo fatte nuove leggi, l’avesse fatte nuovi ordini; perché altri ordini e modi di vivere si debbe ordinare in uno suggetto cattivo che in uno buono, nè può essere la forma simile in una materia al tutto contraria.”

(20) Senza questa distinzione sarebbe del tutto incomprensibile il giudizio positivo che Machiavelli, il lucido analista della politica, nel capitolo VII del Principe, riserva a Cesare Borgia. Con tutta evidenza, la causa della disfatta del Valentino risiede nell’aver favorito l’elezione al soglio pontificio di Giuliano della Rovere, e non nella mala sorte; e tuttavia le gesta del Valentino restano esemplari nel contesto del compito storico delineato da Machiavelli, e l’alta intenzione compensa il risultato effimero: “Preso che ebbe el duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e’ loro sudditi che corretti e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica et obediente al braccio regio, darli buon governo.” N. Machiavelli, Il Principe, VII, cit., p. 35. 

(21) Elementi invece presenti negli scritti di Machiavelli, ai quali sono consegnati gli aspetti moralmente più inquietanti della sua concezione.

(22) Su questo cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 113 e P. Pettit, Repubblicanesimo, cit., pp. 225-226.

(23) Cfr. S. Hampshire, Innocenza ed esperienza, cit., p. 167: “Sia nella sua forma politica, sia in quella privata, questo scetticismo riguardo alla ragione pratica non è plausibile per molte ragioni [...]. Nel caso pubblico lo scettico, sedotto dal modello meccanico, trascura l’interesse cconcreto che uomini e donne hanno verso il processo e le procedure di negoziato.”

(24) Ivi, p. 172. Questo passo è un esempio tipico del modo di procedere di Hampshire, che segue le linee di un’antropologia comprendente. Quale che ne sia il giudizio, si tratta di spiegare ciò che è ignoto tramite ciò che è noto e familiare, anzichè costruire i concetti come parte di un lavoro teorico attraverso il quale si cerca di scoprire un modello di regolarità nel mondo reale. Con il che, l’enfasi che Hampshire pone sulle pratiche quale punto di avvio, in luogo delle credenze, della riflessione sulla giustizia procedurale, sembra aggiungere poco alla portata esplicativa della teoria, nel senso che non viene offerto nessun criterio per distinguere l’interpretazione delle credenze dall’interpretazione delle credenze relative alle pratiche. Non si vede, d’altra parte, come sia possibile guadagnare accesso teorico alle pratiche, prescindendo dalle credenze che le integrano e danno loro un senso.

(25) Ivi, pp. 156-164.

(26) I. Berlin, L’originalità di Machiavelli (1953), in Id.,Controcorrente (1979), a cura di H. Hardy, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Adelphi, Milano 2000, pp. 39-117. Su questo lavoro ha avuto modo di soffermarsi Gennaro Sasso che, pur non condividendone le tesi di fondo, ne ha apprezzato l’importanza e la novità, data dal fatto che dopo anni in cui gli studiosi si erano indaffarati a sezionare l’opera di Machiavelli in una storiografia, in una letteratura etc., Berlin riproponeva con forza la questione del suo pensiero politico. Cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Il pensiero politico, cit., pp. 473-477. Sul sodalizio tra Hampshire e Berlin cfr. M. Ignatieff, Isaiah Berlin. Ironia e libertà (1998), trad. it. di F. Olivieri, Carocci, Roma 2000.    

(27) I. Berlin, L’originalità di Machiavelli, cit., pp. 67-68. Cfr. S. Hampshire, Innocenza ed esperienza, cit., p. 156: “Machiavelli si sofferma con appassionata intensità sul conflitto tra gli impegni e gli obblighi di un capo politico responsabile e gli impegni e gli obblighi della morale cristiana prevalente nella sua epoca e sostiene giustamente che le due morali sono totalmente incompatibili.”

(28) Ivi, p. 158.

(29) Ivi, p. 157.

(30) Il primo campo che abbia conseguito un livello di autoreferenzialità radicale è quello dell’arte. Il paradoso dell’art pour l’art sta nel fatto che, simulando una fedeltà esclusiva ai propri criteri, l’arte ha conservato la propria fecondità sforzandosi in realtà di cercare fuori di sé la sua ragion d’essere. Al contrario, nel momento in cui l’arte ha seriamente cessato di misurarsi con l’altro da sé, non è rimasto che l’orinatoio di Duchamp a rappresentare se stesso. Non pare plausibile l’ipotesi che un discorso analogo possa valere per Machiavelli e che l’universo machiavelliano sia riducibile alla gloria per la gloria, alla grandezza per la grandezza, alla conquista per la conquista. Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, III, cit., p. 22: “È cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre, quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati, o non biasimati; ma, quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è l’errore et il biasimo.” Alla luce del fatto che lo Stato, per Machiavelli, è un modo di organizzazione razionale dell’esistenza, uno strumento di “securtà”, si direbbe che più che di un conflitto tra un’etica cristiana e un’etica civica, convenga parlare, con Sasso, di un “conflitto tra l’etica che può imporre, per la sua attuazione, il sacrificio della vita, e la vita che, per conservarsi, può imporre il sacrificio dell’etica.” Cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Il pensiero politico, cit., p. 464.

(31) S. Hampshire, Innocenza ed esperienza, cit., p. 162.

(32) Platone, Hegel e Marx sono, per Hampshire, gli esponenti tipici di questa concezione completa del bene. Marx, in particolare, si sarebbe reso colpevole, in virtù di una non meglio precisata tendenza escatologica, di profetizzare un’impossibile identità tra società civile e società politica. Cfr. S. Hampshire, Unity of Civil and Political Society: Reply to Leszek Kolakowski, in S. Hampshire, L. Kolakowski (eds.), The Socialist Idea: a Reappraisal, Quartet Books, London 1977, pp. 36-44.

(33) Cfr. S. Hampshire, Non c’è giustizia senza conflitto, cit., p. 38: “Questa filosofia del conflitto può assumere in modo ancora più marcato il carattere della metafisica. L’individualità di ogni cosa attiva dipende dalla sua capacità di resistere all’invasione e al dominio delle cose attive tutt’intorno.”

(34) Cfr. la lettera, datata 13 settembre 1506, di Machiavelli a Giovan Battista Soderini, in Id., Opere, cit., p. 137: “Ma perché e tempi e le cose universalmente e particularmente si mutano spesso, e li uomini non mutano le loro fantasie, nè e loro modi di procedere, accade che uno ha a un tempo buona fortuna et uno tempo trista. E veramente chi fussi tanto savio, che conoscessi e’ tempi e l’ordine delle cose et accomodassisi a quelle, arebbe sempre buona fortuna o e’ si guarderebbe sempre dalla trista e verrebbe ad essere vero che ‘l savio comandassi alle stelle et a’ fati.” La contraddizione tra l’immutabilità del corso della natura e degli affari umani, sostenuta nel proemio del II libro dei Discorsi, e l’idea che tutto sia in movimento perpetuo, che le cose “o le salhino o le scendino”, va compresa alla luce del fatto che la prima tesi fonda una possibilità di carattere cognitivo (se il mondo e la natura umana non fossero sempre i medesimi, non sarebbe possibile conoscerli), mentre la seconda tesi fonda la possibilità pratico-politica di un rovesciamento degli ordinamenti obsoleti.

(35) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, I, 3, cit., p. 115: “E però dopo molte confusioni, romori e pericoli di scandoli che nacquero intra la Plebe e la Nobiltà, si venne per sicurtà della Plebe alla creazione de’ Tribuni: e quelli ordinarono con tante preminenzie e tanta riputazione che poterono essere sempre dipoi mezzi intra la Plebe e il Senato, e ovviare alla insolenzia de’ Nobili.”

(36) Ivi, I, 4, p. 117: “E se i tumulti furono cagione della creazione de’ Tribuni meritano somma laude; perché oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furono constituiti per la guardia della libertà romana, come nel seguente capitolo si monsterrà.”

(37) Cfr. S. Hampshire, Non c’è giustizia senza conflitto, cit., p. 77: “I due elementi della giustizia procedurale – la necessità razionale e universale di aperura e rispetto nei confronti delle regole procedurali localmente stabilite e consuete – sono le due forze naturali che alimentano il ragionamento pratico e politico. Se la necessità razionale o il rispetto per le consuetudini venissero a mancare, rendendo impossibile questo tipo di ragionamento, ci attenderebbe il disastro [...].”

(38) S. Hampshire, Innocenza ed esperienza, cit., p. 156.

(39) S. Hampshire, Non c’è giustizia senza conflitto, cit., p. 44.

(40) D. Zolo, Usi contemporanei di “impero”, “Filosofia politica”, XVIII, 2, p. 191. Cfr. anche il saggio, ormai classico, di M. Hardt, T. Negri, Impero (2000), trad. it. a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2001. Si legga, per inciso, alle pp. 31-32: “Come Tucidide, Livio e Tacito ci hano insegnato (insieme a Machiavelli, commentatore delle loro opere), l’Impero non è fondato solo sulla forza, ma sulla capacità di rappresentare la forza come se fosse al servizio del diritto e della pace. Tutti gli interventi dell’esercito imperiale sono sollecitati da una o più parti coinvolte in conflitti già in atto. L’Impero non è nato da un proprio atto di volontà, ma bensì viene invocato e costituito in funzione della sua capacità di risolvere i conflitti. L’Impero viene istituito e i suoi interventi divengono giuridicamente legittimi solo quando esso è già inserito nella catena dei consensi internazionali al fine di risolvere conflitti già esistenti. Per tornare a Machiavelli, l’espressione Impero è radicata nella traiettoria interna dei conflitti che è chiamato a risolvere.”

(41) N. Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori, 10 agosto 1513, cit., p. 276.