Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003, 2

http://www.units.it/etica/2003_2/STAGNARO.htm

 

 

 

Una società armata è una società libera

 

Carlo Stagnaro

 

Istituto Bruno Leoni

 

 

Abstract

 

An armed society is a free society

 

Guns are mere objects. Preventing people from owning them, or limiting their availability, is an infringement of the natural right to property. Guns are also a peculiar good, since they are the key for the protection of liberty and property. In this perspective, gun control is not about guns: it is about control. In fact, government growth may be slowed by private gun ownership. A tyranny is unlikely to occur where people are armed. Historical evidence confirms this point: for example, Adolf Hitler disarmed the German Jews as a premise to their genocide. Moreover, statistics show that private gun ownership does not increase gun accidents or crime; indeed, when private citizens are armed, criminals tend to strike less, or to strike in less lethal ways. Criminals fear armed citizens much more than police forces. Gun control laws, however, are extremely effective in the disarmament of law-abiding citizens; much less in disarming outlaws. The right to keep and bear arms should be maintained where it is recognized, and restored elsewhere. Italy belongs to the latter category. Libertarians’ efforts to reduce the size of government require private gun ownership, because privately owned weapons are the only, sensible obstacle to the rise of Political power.

 

 

 

 

“L’errore più folle che possiamo commettere è forse quello di lasciare che le razze da noi soggiogate posseggano armi. La storia mostra che tutti i conquistatori che hanno consentito alle razze a loro soggette di portare armi hanno in tal modo approntato la propria caduta” – Adolf Hitler

 

 

1. Introduzione

 

Negli Stati Uniti, come in ogni altro Paese al mondo, accade di tanto in tanto che qualche pazzo si renda responsabile di una strage. Puntualmente, i commentatori accusano di ciò il diritto, riconosciuto e costituzionalmente tutelato negli USA, di detenere e portare armi. Il vero responsabile degli omicidi, insomma, non sarebbe l’individuo che li compie, ma, piuttosto, il mezzo con cui vengono perpetrati (la rivoltella, il fucile, la pistola,…) e, per estensione, la possibilità di averlo.

In generale, vi sarebbe una sorta di proporzionalità tra il numero di armi da fuoco presenti su un dato territorio e possedute da privati cittadini (cioè la facilità con cui le armi circolano) e il numero di crimini commessi. Sarebbe quindi necessaria una regolamentazione rigorosa, volta a colpire i secondi diminuendo le prime.

Nella nazione a stelle e strisce è accesissima la discussione sull’opportunità di rivedere in senso restrittivo le norme che consentono ai cittadini di armarsi quasi senza incontrare ostacoli. Per contro, in Italia quello sul porto d’armi è un dibattito inesistente. In pratica, è consolidata l’idea che sia necessario un controllo statale sugli armamenti. Questo significa accettare che lo Stato sia “un gradino più in alto” della società. Non si tratta di una superiorità dovuta all’ovvio squilibrio di poteri: piuttosto una superiorità ontologica, insita nella natura stessa dello Stato e dei cittadini.

La società non sarebbe responsabile, ovvero (passando dal sostantivo collettivo, privo di significato, alle individualità che lo compongono) i cittadini sarebbero in pratica dei minorenni incapaci di badare a se stessi e di convivere con gli altri – dunque bisognosi di tutela. Per contro, lo Stato e tutti gli uomini che ne fanno parte sarebbero dotati di una lungimiranza fuori del comune, e quindi sarebbero “giustamente” investiti del compito di vigilare sull’ordine e sulla giustizia.

Tenterò in questa sede di ribaltare tali posizioni. Partendo dalla constatazione che, in sé e per sé, il fatto di detenere e portare armi non è diverso dal detenere e portare qualunque altro tipo di oggetto, sosterrò il diritto naturale di ognuno ad avere con sé un qualunque strumento di difesa. Presenterò inoltre il problema dal punto di vista del diritto all’autodifesa e, in generale, alla resistenza di fronte all’aggressione. Cercherò quindi di mostrare come, anche da un punto di vista puramente utilitaristico, il libero porto d’armi sia condizione necessaria per l’evoluzione della società lungo binari civili. Lo farò portando a sostegno di questa tesi i risultati di alcuni studi statistici.

Argomenterò poi che chi predica il controllo degli armamenti parte da presupposti irrazionali. Esprimerò alcune considerazioni sul problema immediatamente susseguente a quello della legislazione sulle armi, ovvero l’oggettivo “monopolio della violenza” che si viene a creare nelle mani dello Stato. Concluderò tirando le somme di quanto detto e ripresentando le tesi che sostengo alla luce delle argomentazioni introdotte.

 

 

2. Il diritto di portare armi

 

Curiosamente, quando si parla di porto d’armi non si inquadra mai la questione nell’ottica più generale del diritto – o meno – alla proprietà privata (1). Qualcuno potrà ritenere che essa non sia un diritto di ogni individuo: e allora la lettura di questo articolo è inutile, in quanto l’esistenza del diritto alla proprietà privata verrà data per scontata. Se però si accetta l’affermazione che, ad esempio, “il mio orologio è mio”, le cose sono diverse. Non è qui il caso di indagare sulla natura profonda del diritto alla proprietà, sulla sua nascita e sulla sua evoluzione durante le diverse epoche storiche. Basti dire che esso esiste: nessuno di noi ha bisogno di spiegare agli altri che non possono entrare in casa sua senza il suo esplicito consenso.

Orbene, ammettere l’esistenza e la necessità del diritto alla proprietà privata significa ammettere che chiunque può fare ciò che crede delle proprie cose, purché le abbia ottenute con mezzi legittimi (scambi, donazioni, acquisti…) e non le utilizzi per fini aggressivi. Tornando all’esempio precedente, se io ho comprato un orologio con soldi non rubati posso farne quel che desidero, purché le mie azioni non interdicano l’analogo esercizio dei propri diritti da parte di altre persone. Vale a dire: non posso scagliare l’orologio dalla finestra in testa a un passante. Al di là di questo, però, ho piena libertà di determinarne l’utilizzo: posso portarlo al polso o lasciarlo in casa, regalarlo a un’amica o tenerlo chiuso in un cassetto, distruggerlo, metterlo nel forno o gettarlo nella vasca da bagno. Nessuno ha il diritto d’impedirmi di fare una qualsiasi di queste cose. Mi si potranno rivolgere delle obiezioni, delle critiche o delle osservazioni, ma nulla più.

Nessuno nega che lo stesso valga per un coltello. Infatti, le case di tutti sono piene di coltelli, di ogni forma e dimensione, alcuni dei quali molto affilati. Non vi è alcun motivo razionale per dire: tu puoi tenere nell’armadio un orologio ma non un coltello. Eppure un coltello è un oggetto pericoloso: può essere impiegato per ferire o uccidere una persona che si trovi in casa, o lanciato a individui lontani.

Da questo punto di vista, un fucile non è differente da un coltello o un orologio. Un fucile può essere più facilmente letale rispetto a questi due oggetti (ma non rispetto, per esempio, a un’automobile). Ma, anche nel caso di un comportamento folle, non è il possesso del fucile che va criminalizzato, ma l’utilizzo che se ne fa. In altri termini, non è il fucile, ma colui che preme il grilletto il responsabile del ferimento o della morte di altre persone.

Vietare il possesso di un’arma da fuoco in quanto “arma da fuoco” significa in realtà porre una limitazione arbitraria al diritto (universale) alla proprietà privata (2).

Il fatto è che – in sé e per sé – un’arma da fuoco non è diversa da una spada, da una forchetta, da un’automobile o da un orsacchiotto di peluche. Un’arma è semplicemente un oggetto, non gode di volontà propria, non è in grado di muoversi autonomamente o di decidere che farà domani pomeriggio. Né un’arma è un oggetto in grado di sprigionare un influsso misterioso, tale da trasformare in un brutale macellaio quella che, altrimenti, sarebbe una persona mansueta. Tutto dipende dalla volontà, dall’intelligenza e dalle intenzioni del proprietario. A priori, un’arma da fuoco non è più pericolosa di un piccone o di una sedia. Il fatto puro e semplice di avere un’arma in casa, insomma, non implica che il suo possessore sia un pazzo assassino e che, nel volgere di pochi giorni, si renderà protagonista di una strage fra civili innocenti e inermi.

Ancora una volta, a costo di essere ripetitivi, bisogna sottolineare che – tutte le volte che assistiamo a un delitto – va punito l’esecutore, non il mezzo.

V’è anche un altro aspetto della questione. Dire che noi tutti abbiamo diritto a essere proprietari di qualcosa implica, naturalmente, che nessuno può derubarci di ciò che è nostro. Delle due, quindi, l’una: o riteniamo che sulla faccia della terra esistano solo persone brave, buone, belle e simpatiche, e allora non esiste il problema e questo saggio è una mirabile sintesi di tempo perso e spazio sprecato. Oppure, più realisticamente, riconosciamo che i criminali, piaccia o no, esistono: bisogna quindi escogitare un metodo per garantire i diritti di cui godiamo.

Un modo potrebbe essere “delegare” l’onere di difenderci dai malviventi a qualcuno: lo Stato, ad esempio. Questa è una soluzione chiaramente ingiusta: perché mai noi dovremmo essere obbligati ad acquistare un servizio da qualcuno, indipendentemente dalla nostra volontà? Questo per non dire dell’inefficienza di una tale soluzione, su cui torneremo tra poco.

L’unica alternativa alla delega, però, è assumersi in proprio la responsabilità di difendere ciò che legittimamente ci spetta (3). La produzione privata della sicurezza non va confusa con un “regresso a un passato barbaro” fatto di faide e “giustizia privata” (4). Si tratta piuttosto dell’esplicita ammissione che il proprietario è la persona più indicata a difendere la proprietà. D’altro canto, già oggi il mercato fornisce innumerevoli mezzi per provvedere privatamente alla sicurezza: dai vigilantes alle porte blindate.

Naturalmente, ogni tipo di reazione (difesa) deve essere commisurata all’azione (offesa) secondo un criterio di proporzionalità: e la valutazione della proporzionalità è precisamente il compito dei tribunali. Basti qui osservare che il diritto alla proprietà privata implica, e non esclude, il corrispettivo diritto all’autodifesa. È cruciale, però, comprendere come, per usare le parole di Bruno Leoni, “normalmente ciascun individuo considera come legittima, perché perfettamente compatibile con quelle degli altri, la pretesa che gli altri non turbino certe situazioni in cui l’individuo si trova. La difesa personale, ad esempio, è basata sul concetto che nessuno debba offenderci ed è ammessa dalla legge; l’incolumità personale e l’integrità personale corrispondono alla pretesa che ciascuno ha di non essere assaltato e violentato. Tutte queste pretese sono normalmente considerate come compatibili, anzi lo sono perché se non lo fossero non sussisterebbero le convivenze pacifiche” (corsivo aggiunto) (5).

È banale, a questo punto, l’osservazione che l’autodifesa è più efficiente e sicura se può avvalersi di strumenti quali possono essere le armi da fuoco: ma, per essere utilizzate, occorre che siano anche possedute… Certo, sono giuste e legittime le preoccupazioni che taluno avanza sul rischio di ferimento, o addirittura di uccisione, dell’aggressore: ma tale rischio è anche soltanto paragonabile al ben più concreto rischio di ferimento, o di uccisione, dell’aggredito? Il primo, aspirando a trarre il proprio reddito dalla negazione dei diritti altrui, in qualche maniera rinuncia ai propri diritti. Vi sono situazioni in cui non è facile discernere le intenzioni dell’intruso; in queste situazioni, una pistola nelle mani dell’aggredito può fare la differenza.

Per giunta, negare il diritto di avere un’arma a un cittadino onesto per timore delle sue azioni future significa introdurre nell’ordinamento giuridico un principio contrario a ogni logica. Considerare criminale il mero possesso di un’arma implica una “presunzione di colpevolezza”; pretendere che il cittadino dimostri di avere la necessità di un’arma per ottenere un permesso, comporta trasferire l’onere della prova dall’accusante (chi paventa gesti di follia da parte del privato cittadino) all’accusato (il cittadino stesso). In altre parole, implicitamente, le leggi sul controllo delle armi proclamano colpevoli cittadini che non hanno commesso alcun crimine, e individuano un reato in assenza di vittime.

Alla luce di tutto questo, insomma, nasce spontanea l’osservazione: possedere armi è un diritto in sé ed è praticamente richiesto affinché ogni cittadino possa esercitare il diritto all’autodifesa, complemento e garanzia a favore della proprietà privata.

 

 

3. Pallettoni per un amico utilitarista

 

Qualunque riflessione sul diritto all’autodifesa, e la deduzione da esso del diritto a detenere e portare armi, non può convincere quanti non credono all’esistenza dei diritti naturali. È allora necessario assumere un’ottica diversa, e chiedersi: la libera circolazione delle armi è utile oppure no alla società nel suo complesso? Per rispondere, bisognerebbe prima comprendere cosa sia “utile” e cosa no. È una domanda senza risposta: l’idea di “utilità” è soggettiva, e non può essere estesa a un gruppo. Per giunta, è sottilmente cinico paragonare i benefici dell’uno coi costi dell’altro. Tuttavia, è ragionevole pensare che una società più pacifica, ordinata, e con meno crimini (o con crimini meno gravi) sia preferibile a una società violenta, disordinata, e con più crimini (o crimini più gravi).

Un primo argomento può essere quello del confronto tra i paesi in cui le armi hanno un’ampia circolazione e quelli in cui invece sono pesantemente regolamentate. L’Italia, naturalmente, appartiene alla seconda categoria. Sebbene la legislazione contro le armi venga generalmente “venduta” come una necessità per arginare il crimine, la sua efficacia sembra lasciare molto a desiderare. La percentuale di crimini – da quelli minimi, come scippi, furti o borseggi, a quelli più gravi, come rapimenti o omicidi – è assai elevata – e la larga maggioranza di questi crimini restano impuniti, o addirittura “senza colpevole”.

D’altra parte, la Svizzera è un paese in cui addirittura ogni famiglia possiede proprie armi: non solo perché la legislazione in merito è estremamente elastica, ma soprattutto perché – essendo l’organizzazione militare fondata sul sistema della milizia territoriale – tutti i cittadini hanno in dotazione un’arma potentissima come il fucile d’assalto.

Ciò nonostante, il tasso di omicidi con arma da fuoco è pressoché identico nei due Paesi (6).

Sebbene negli Stati Uniti il numero di pistole in circolazione sia più che raddoppiato negli ultimi trent’anni, sia i suicidi sia gli omicidi (commessi con pistole o senza) sono rimasti stabili (7). Non vi è alcun legame, dunque, tra questi fenomeni e non è corretto affermare che in una società armata suicidi ed omicidi tendano ad aumentare.

Anzi, secondo i dati del Dipartimento di Giustizia americano, il rischio di ferimento durante un’aggressione per una donna che non opponga alcuna resistenza è 2,5 volte più grande che nel caso di resistenza armata; la resistenza senza armi è 4 volte più pericolosa che la resistenza con le armi. Per un uomo, i due rapporti assumono rispettivamente i valori di 1,4 e 1,5. Inoltre, sembra che nel 98% dei casi sia sufficiente che la vittima di un’aggressione brandisca una pistola perché il criminale desista dalle proprie intenzioni. Questo significa che nel 98% delle aggressioni contro uomini armati, il delinquente fa un buco nell’acqua e, ciò che è più importante, non vi è alcuno spargimento di sangue. Inutile chiedersi quale sia tale percentuale nel caso in cui la vittima sia disarmata (8).

Invero, la semplice possibilità che in una casa siano presenti delle armi diminuisce notevolmente il rischio che i suoi abitanti corrono ogni giorno e notte. In Canada e Gran Bretagna, dove la regolamentazione sulle armi è severa, circa la metà dei furti nelle abitazioni avviene in presenza dei proprietari, che quindi corrono un serio pericolo. Per contro, negli Stati Uniti la percentuale di hot burglaries (come viene definito questo genere di reato) è appena del 13% (9). Un sondaggio condotto nelle carceri americane tra i detenuti ha rivelato che questi ultimi, nell’esercizio della loro “professione”, temono di gran lunga di più i cittadini armati che non la polizia. Coerentemente, i reati contro la proprietà sono crollati di pari passo col boom della disponibilità di pistole negli Stati Uniti (10).

Le morti accidentali per arma da fuoco, d’altro canto, avvengono di rado. Secondo un’indagine, il decesso è 2 volte più probabile per soffocamento dopo aver ingoiato un oggetto, 7 volte più probabile per avvelenamento, 10 volte più probabile per una caduta, e 31 volte più probabile per un incidente automobilistico (11).

Va anche aggiunto che, dal momento in cui la legge che limita il possesso di armi da fuoco entrerà in vigore, i cittadini onesti si affretteranno a rispettarla. Alcuni rinunceranno all’arma, altri seguiranno le procedure richieste per poterla mantenere: la denunceranno, compileranno moduli, verseranno le decime allo Stato, eccetera. Ma pare davvero ingenuo pensare anche solo per un attimo che i criminali si comportino nella stessa maniera. Essi, anzi, essendo – per definizione – fuorilegge, si troveranno in una situazione estremamente favorevole alla propria “attività” (nella quale dunque riceveranno un incentivo). Se infatti in una società “armata” bisogna sempre mettere in conto la possibilità di una reazione da parte dell’aggredito, in una società “disarmata” il bandito che si presenta alla vittima con una pistola in pugno avrà una vita assai più facile (12).

È del tutto evidente che la politica del disarmo forzato danneggerà soprattutto quelle categorie e quelle fasce sociali che da un lato sono più frequentemente esposte ad aggressioni, e dall’altro non possono permettersi di assumere guardie private. Un sondaggio eseguito nel 1975 negli USA dice a che i più numerosi possessori di un’arma da fuoco a scopo puramente difensivo sono soprattutto neri, persone appartenenti a ceti dal basso reddito e anziani (13).

 

 

4. I casi inglese e australiano

                                                                                                  

Un’indagine condotta attraverso trentaquattromila interviste telefoniche in diciassette diversi paesi, ha mostrato che, in generale, il crimine colpisce maggiormente laddove detenere, portare o usare un’arma per autodifesa è più difficile (14). Il caso della Gran Bretagna, in particolare, è emblematico: le leggi approvate nel 1996 sulla spinta emotiva del massacro di Dunblane (quando un giovane assassino uccise sedici bambini e un insegnante) hanno pressoché vietato il possesso di armi. Addirittura, i tiratori professionisti dovettero recarsi all’estero per esercitarsi in occasione delle Olimpiadi.

Ebbene, in Inghilterra il 26% degli intervistati, vale a dire oltre un quarto, ha dichiarato di essere stato vittima di un crimine nel corso del 1999. Il 2,6% è stato vittima di un furto d’auto. Il 3,6% ha subito un’aggressione, contro l’1,9% dei “violenti” Stati Uniti. Il rischio di rapina per i sudditi di Elisabetta II è dell’1,2% (poco meno della Polonia, che guida la triste classifica con l’1.8%). Dati simili – spesso peggiori – sono quelli dell’Australia, che nel 1996 ha introdotto leggi severissime contro il possesso di armi.

Le nazioni in cui è più facile cadere vittima di un crimine, oltre al Paese dei canguri e al Regno Unito, sono l’Olanda (25%), la Svezia (24%) e il Canada (24%). Negli USA la percentuale scende al 21%, mentre i cittadini più sicuri sono giapponesi, portoghesi e irlandesi del nord, ognuno dei quali ha “solo” quindici probabilità su cento di subire un crimine.

Non bisogna dunque credere che più armi significhino più violenza. I criminali non hanno difficoltà a procurarsi armi attraverso il mercato nero; quindi le leggi che vietano o limitano il possesso di armi per legittima difesa colpiscono esclusivamente i cittadini onesti – mettendo a repentaglio la loro incolumità e sottraendo loro la possibilità di difendersi e resistere all’aggressione.

Nel giro di un solo anno, tra il 1999 e il 2000, il crimine violento nel Regno Unito è aumentato del 16%, gli scippi del 26%, le aggressioni di quasi il 40%. Dall’introduzione della severissima legislazione sulle armi, il crimine violento è pressoché raddoppiato. Questo, secondo Joyce Lee Malcolm, costituisce una “chiara dimostrazione della futilità del controllo delle armi” (15).

John Lott sottolinea la spaventosa crescita che ogni tipo di crimine ha subito dopo il bando delle armi da fuoco in Australia: le rapine a mano armata sono aumentate del 51%, quelle senza armi del 37%, le aggressioni del 24% e i rapimenti del 43%. Se gli omicidi in generale sono scesi di un misero 3%, gli omicidi inintenzionali sono aumentati del 16%. Entrambi i paesi, poi, sono autentici paradisi del controllo delle armi: essendo circondati dall’oceano rendono difficile il contrabbando. Eppure questo non ha impedito ai delinquenti di ottenere ciò di cui avevano bisogno.

Per contro, secondo Lott, “l’America ha assistito a un cambiamento notevole a partire dal 1985, quando solo otto stati avevano le leggi più liberali sul porto d’armi, che garantivano automaticamente il permesso ai richiedenti privi di precedenti penali, dopo che avevano pagato il dovuto e, qualche volta, superato un corso d’addestramento. Oggi queste norme vigono in 33 stati. Morti e feriti nelle sparatorie pubbliche sono crollati del 78% in quegli stati. Al contrario, in Europa il crimine violento è in crescita. Sono molti i fattori responsabili di ciò, ma è chiaro che leggi severe sulle armi non aiutano” (16).

 

 

5. Sul “monopolio delle armi”

 

Generalmente, il problema del libero porto d’armi viene affrontato nell’ottica del confronto tra i comuni cittadini (gli onesti) e i criminali, scandagliando le convenienze e gl’interessi degli uni e degli altri. Da un certo punto di vista, però, l’influenza del crimine sulla vita quotidiana è estremamente ridotta, poiché il crimine è un evento eccezionale. Può capitare, nella vita, di essere derubati; ma certo ciò non accade, se non in casi assai rari, ogni giorno, ogni mese, ogni anno.

Invero, i primi fautori del diritto a detenere e portare armi non si concentrarono tanto su questo aspetto, quanto sulla necessità di lasciare ai cittadini una chance contro eventuali involuzioni tiranniche dello Stato. È lo Stato, il Potere, il nemico contro il quale occorre stare in guardia. D’altronde, per quanto sia banale, lo Stato, come tale, non esiste. “Stato” è un espediente linguistico per indicare persone in carne e ossa, che vivono grazie all’imposizione di tasse e debbono il proprio status di prestigio alla negazione dell’altrui libertà (17).

La diffusione del possesso privato di armi, insomma, costituisce non solo il baluardo contro la potenziale aggressività dello Stato (18), ma pure un forte deterrente nei suoi confronti (19). Nelle sue lettere, Thomas Jefferson tesse l’elogio delle ribellioni – e addirittura ne invoca la necessità – per preservare la società dalla tirannide: “Quale Paese può conservare la propria libertà se ai suoi governanti non viene periodicamente rammentato che la popolazione conserva il proprio spirito di resistenza? Che il popolo prenda pure le armi” (20).

Questa consapevolezza è alla base del secondo emendamento alla Costituzione americana. Esso recita: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, non si potrà violare il diritto dei cittadini di possedere e portare armi”. Naturalmente, sono molte le interpretazioni e le letture che vengono date di queste pur chiare parole: tuttavia è chiaro che tale disposizione mira a proteggere il diritto di ciascun individuo a difendersi contro le aggressioni, siano esse “private” (da parte di criminali comuni) o “pubbliche” (da parte dello Stato).

Non è esagerato, insomma, vedere proprio nel secondo emendamento l’origine, o almeno uno dei principali elementi, della libertà americana (21). In America non vi è mai stato un Hitler o uno Stalin semplicemente perché, una volta salito al potere, si sarebbe trovato di fronte una moltitudine di cittadini non disposti a sottomettersi. E, soprattutto, ognuno di questi cittadini sarebbe stato potenzialmente un detentore di armi: cioè la minaccia della guerra civile pende su ogni dittatore come una spada di Damocle. Per contro, una delle prime mosse del Führer, una volta conquista Berlino, fu proprio quella di disarmare i cittadini tedeschi di origine ebraica (non prima di aver compilato un elenco di tutti i possessori di armi) (22).

 

 

6. Etica, armi e cristianesimo

 

La libertà di essere armati prelude alla possibilità di resistere all’aggressione; d’altro canto, la pretesa di disarmare il prossimo per timore della sua condotta implica la negazione di tale opportunità.

Quanti, muovendo da una prospettiva cristiana, si fanno forti del Sermone della Montagna per negare questa prospettiva, danno una lettura parziale delle parole di Gesù. Il cristiano non è moralmente obbligato a subire ogni angheria; quando Cristo invita a porgere l’altra guancia, sta evidentemente condannando la vendetta, non la resistenza. D’altronde, l’effetto delle leggi non è la volontaria sottomissione del mansueto, ma l’obbligo per tutti quanti di accettare l’arbitrio dei criminali e del Potere politico.

Porgere l’altra guancia è una decisione personale, al più un sacrificio individuale. Ma le leggi sul controllo delle armi costringono l’intera società – tranne un ristretto gruppo di fortunati o privilegiati – a porgere l’altra guancia. In sostanza, chi le approva pretende di porgere l’altrui guancia! Del resto, San Paolo afferma a chiare lettere: “Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore” (Romani 12: 19).

Nondimeno, è il santo di Tarso ad affermare che “Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5: 8). Ma prendersi cura dei propri cari significa, in primo luogo, difenderli: infatti, l’intera tradizione cattolica, da S. Agostino a S. Tommaso, da Antonio Rosmini a Papa San Pio X ai più recenti pronunciamenti della Santa Sede, ha sempre affermato il diritto a resistere all’aggressione, anche nella forma estrema di omicidio per legittima difesa (23). Di più: la tradizione, la dottrina e il magistero della Chiesa sono concordi nel riconoscere nella difesa dei cari un dovere, più che un diritto. Impedire ai cittadini di armarsi equivale e sopprimere questo diritto e dovere.

Sovente viene impiegato, contro la libera circolazione delle armi da fuoco, l’argomento che spetta alle forze di polizia sbarazzarsi del crimine. Le forze di polizia costituiscono un grande ostacolo sulla via dei criminali; infatti, i criminali s’industriano per colpire quando e dove le forze di polizia sono assenti. Ma anche a prescindere dalla effettiva efficacia dei tutori dell’ordine, è alquanto immorale rifiutarsi d’impugnare un’arma per difendere se stessi e i propri cari, e pretendere che qualcun altro lo faccia per noi in cambio di un misero stipendio.

La domanda da porsi, allora, è duplice: la nostra vita, e la vita dei nostri cari, merita di essere protetta? E, in caso affermativo, a chi spetta tale responsabilità? Come scrive Jeff Snyder, “Una persona che attribuisca valore alla propria vita e prenda sul serio le proprie responsabilità verso la sua famiglia e la sua comunità deve possedere e saper usare i mezzi necessari a praticare l’autodifesa, e sa ripagare con la loro stessa moneta quanti hanno minacciato di morte o di violenza lui stesso o i suoi cari. Egli non si accontenterà di dover dipendere unicamente dagli altri per quanto riguarda le misure precauzionali. Evitiamo le ambiguità: sarà armato, sarà addestrato all’uso delle armi e saprà come reagire di fronte alla violenza” (24).

Per i libertari, il diritto a detenere e portare armi è cruciale in quanto rappresenta il baluardo ultimo dei diritti individuali, il mezzo attraverso cui un individuo può tutelare la propria incolumità quando non vi sono alternative (25).

 

 

7. L’irrazionalità delle critiche al libero porto d’armi

 

La liberalizzazione delle armi favorisce i comuni cittadini, soprattutto quelli che vivono in condizioni disagiate. Chi e perché, allora, ritiene sia preferibile una legislazione restrittiva? I politici, naturalmente, poiché ogni restrizione alle libertà individuali genera un aumento del loro “peso specifico” all’interno della società. Per riprendere la terminologia di Albert Jay Nock, grazie al monopolio della violenza e all’interdizione delle armi il “potere statale” si espande a scapito del “potere sociale” (26). Vanno poste in discussione, allora, le affermazioni di alcuni intellettuali, che forniscono con le proprie parole una legittimazione teorica ai fautori dell’espansionismo governativo.

Un forte attacco alla regolamentazione delle armi giunge da Don B. Kates, Jr., secondo cui gli uomini di sinistra (principali avversari della libera circolazione delle armi da fuoco) non applicano alle armi la stessa logica che adottano per difendere la liberalizzazione della marijuana. Gli antiproibizionisti sanno bene che il divieto non elimina la droga; a maggior ragione, dovrebbero comprendere che la regolamentazione non può far piazza pulita della violenza.

Alcuni anni fa Kates sottolineò che, secondo alcuni sondaggi, nel momento in cui fossero state adottate rigide misure contro la proliferazione degli armamenti, circa l’80% degli allora 50 milioni di possessori di armi americani (oggi 70), si sarebbero rifiutati di sottostarvi. L’impossibilità di un’applicazione rigorosa darebbe così luogo a discriminazioni sempre più evidenti, e in particolare le leggi sarebbero utilizzate “solo contro coloro che non riscuotono le simpatie della polizia. Non c’è bisogno di ricordare le ricerche odiose e le tattiche di cattura alle quali ricorrono poliziotti e agenti federali per poter intrappolare i trasgressori di queste leggi” (27).

Kates evidenzia pure la differente condizione sociale di chi desidera la regolamentazione delle armi e chi, invece, vi si oppone: “la proibizione delle armi da fuoco è il frutto dell’ingegno dei liberal bianchi appartenenti al ceto medio, i quali ignorano la situazione dei poveri e delle minoranze che vivono in zone in cui la polizia ha rinunciato a contrastare il crimine. Tali liberal non sono stati infastiditi neppure dalle leggi sulla marijuana, negli anni Cinquanta, quando le retate avvenivano solo nei ghetti. Al sicuro nei loro sobborghi sorvegliati dalla polizia o in appartamenti dotati di antifurto e protetti da guardie private (che nessuno propone di disarmare) i liberal ignari deridono il possesso di armi definendolo un anacronismo da vecchio West”.

Per inciso, proprio il selvaggio West rappresenta, nell’immaginario collettivo, l’archetipo di società armata e quindi violenta. La società dell’Ovest degli Stati Uniti nel secolo scorso, però, era tutt’altro che violenta. Anzi, il West è stato un esperimento davvero riuscito di ordine spontaneo senza Stato: una società pacifica e laboriosa, nella quale la grande maggioranza dei cittadini si faceva in santa pace “gli affari propri”. Di più: anche i rapporti coi Pellerossa si limitarono a scaramucce di poco conto, almeno fino all’adozione di un esercito stanziale, ovvero alle due fasi seguenti alla Guerra col Messico e, soprattutto, alla cosiddetta Guerra Civile (28).

Tornando all’attualità, sulla base dei dati relativi alla criminalità, Kates dimostra la validità dell’autodifesa con armi da fuoco. A Chicago, ad esempio, è emerso che i civili armati hanno ucciso per motivi giustificati il triplo dei criminali violenti uccisi dalla polizia. In generale, i civili armati hanno ucciso, catturato, ferito o almeno allontanato gli aggressori nel 75% dei casi di scontro violento, contro il 61% della polizia.

La tipica obiezione che viene rivolta a questi dati è del genere: “il possesso indiscriminato di armi da fuoco produce un aumento nei ferimenti, o addirittura nelle uccisioni, dei criminali”. Vero. Ma produce tutto ciò ai danni, appunto, dei criminali: quindi di chi implicitamente ha accettato tale rischio in cambio di una violazione altrettanto violenta dei diritti di cittadini onesti e pacifici. Senza contare che tale aumento di ferimenti e uccisioni funge esso stesso da deterrente nei confronti del crimine. Ma, argomenta ancora Kates, “evitare il ferimento è di enorme e vitale importanza per un accademico liberal bianco che ha un ricco conto in banca. Sarà per forza di cose meno importante per il normale lavoratore o per il beneficiario dell’assistenza sociale che viene derubato delle sostanze con cui deve mantenere la propria famiglia per un mese - o per il commerciante nero che non può stipulare una polizza contro i furti e che quindi dovrà chiudere la propria attività a causa dei successivi furti”.

È questo, forse, l’aspetto più odioso delle politiche di controllo delle armi. Esse infatti penalizzano realmente e fortemente chi già di per sé non vive nelle condizioni migliori. Secondo uno studio condotto nel 1975 dall’istituto Decision Making Information, i sottogruppi più consistenti di persone che possedevano una pistola per autodifesa erano composti da neri, da persone dal basso reddito e da anziani. “Questa sono le persone – conclude Kates – che si vuole mandare in galera perché insistono nel possedere l’unico mezzo di protezione disponibile per la difesa delle loro famiglie” (29).

 

 

8. Conclusione: Si vis pacem, para bellum

 

In primo luogo, si è visto come le armi in quanto tali siano semplici oggetti. Se esiste un diritto naturale alla proprietà, allora esso deve valere pure per le armi da fuoco. Il fatto che delle armi (come di altri oggetti) si possa fare un uso criminale, non dice nulla sulle armi: dice semmai qualcosa sul loro possessore.

Secondariamente, la possibilità di detenere e portare armi ha una valenza particolare: che va ben oltre il possesso puro e semplice dell’arma stessa. Riconoscere di diritti di proprietà su qualcosa (una casa, ad esempio) significa anche riconoscere il diritto di difendere questo “qualcosa” da eventuali aggressioni. Tale difesa, però, sarà necessariamente commisurata all’aggressione in atto: se questa è violenta, con ogni probabilità e diritto lo sarà anche quella. In questo senso, le armi sono una garanzia e una tutela della proprietà privata, perché rendono enormemente più facile l’impresa di difenderla.

Ancora: il fatto che la società sia armata impedisce, o almeno riduce enormemente, la probabilità che si venga a creare un pericoloso monopolio della forza in balia del Potere politico. In Paesi come la Svizzera o gli Stati Uniti un tiranno troverebbe assai difficile impadronirsi del potere, perché dovrebbe fronteggiare i cittadini armati – che dispongono di mezzi assai più convincenti delle schede elettorali per far sentire la propria voce. Infatti, un antico adagio attribuito a Benjamin Franklyn recita: la democrazia sono due lupi e una pecora che votano su cosa mangiare; la libertà è una pecora ben armata che contesta il risultato delle votazioni.

Per contro, più la regolamentazione sulle armi è severa, più si affievoliscono questi paletti a difesa delle libertà individuali. I cittadini disarmati non sono nella condizione di potersi difendere dai criminali, che così sono incentivati a proseguire nella “professione”. Non solo: se la società è disarmata, la presenza di un esercito in armi costituisce una costante e grave minaccia alla libertà, in quanto un tiranno potrebbe far leva proprio su di esso per accaparrare il trono.

Anche una legge relativamente tollerabile che preveda la semplice registrazione e immatricolazione delle armi sortisce risultati negativi: non solo, infatti, essa è una evidente violazione della privacy dei cittadini, ma permette anche alle “autorità” di avere una costante schedatura delle proprie “vacche da mungere”. E, naturalmente, i cittadini – sentendosi spiati e giudicandola, a ragione, una cosa spiacevole – saranno disincentivati nell’acquisto e nel possesso di armi da fuoco.

Inoltre, le argomentazioni a difesa della regolamentazione sono tutt’altro convincenti. È del tutto evidente, infatti, che una legislazione onerosa punisce per primi coloro che sono più indifesi, cioè le fasce sociali più deboli. E non è un caso che essa venga richiesta a gran voce da persone solitamente benestanti, che possono permettersi moderni sistemi antifurto o addirittura la sorveglianza di guardie giurate. Ma le cose non sono così semplici per chi ha difficoltà persino a stipulare delle polizze e, quindi, vede da ben altra angolazione certe tesi “solidaristiche”.

Portare armi, insomma, non è soltanto un diritto. È anche una necessità, una garanzia, un indice di quanto una società sia liberale. Il fatto che un cittadino sia armato rende arduo che un altro cittadino lo aggredisca e, quand’anche questo avvenisse, rende la vita ben più difficile all’aggressore. Il fatto che l’intera società sia armata fa sì che la politica abbia una grossa difficoltà a spingere nella direzione di un’involuzione tirannica. Non a caso nei Paesi che, nel mondo contemporaneo, godono di una maggiore libertà, il diritto di detenere e portare armi è (sebbene in modi e forme differenti) riconosciuto e tutelato.

Tutto questo fa della presa di posizione a favore del libero porto d’armi un punto centrale all’interno del pensiero libertario contemporaneo. La riappropriazione delle armi privatamente detenute – così come la formazione di milizie volontarie (30) – è cruciale per il mantenimento, o la conquista, della libertà in un universo anarco-capitalista. Ma è ancora più importante in una società largamente statalizzata come la nostra, in quanto costituisce la premessa indispensabile del contenimento e poi della riduzione del Potere. Analogamente, è fondamentale all’interno di un ipotetico Stato minimo, dacché solo la minaccia di una cittadinanza armata potrebbe arrestare la degenerazione, altrimenti inevitabile, dello Stato minimo in Stato massimo. A ragione, allora, Charlton Heston, presidente della National Rifle Association, che ha definito il diritto a detenere e portare armi come “la nostra prima libertà”.

D’altra parte, è questo il senso dell’antico motto latino: si vis pacem, para bellum. Se vuoi evitare di essere aggredito, fai capire ai potenziali aggressori che sei pronto a difenderti con le unghie, con i denti e, alla bisogna, con un’arma da fuoco. Pare, in definitiva, che mai uno slogan pubblicitario sia stato più azzeccato e realistico di quello adottato negli Stati Uniti verso la metà del XIX secolo dalla nota casa produttrice di pistole: “Dio avrà anche creato gli uomini, ma Samuel Colt li ha resi uguali”.

 

 

Note

 

(1) Si veda Murray N. Rothbard, Per una nuova libertà (Macerata: Liberilibri, 1996). In particolare: “Proprietà e scambio”, pagg. 47÷77. back

(2) “Dovrebbe essere chiaro che nessun oggetto fisico è di per sé aggressivo; qualsiasi oggetto, sia esso una pistola, un coltello, o un bastone, può essere usato per aggredire, per difendersi, o per molti altri scopi che nulla hanno a che fare col crimine. Non è più logico proibire o limitare il possesso di pistole di quanto lo è proibire il possesso di coltelli, mazze, spilloni o pietre”, Ivi, p.171. back

(3) “Dal fatto che chiunque ha un diritto assoluto alla proprietà che detiene a giusto titolo, discende che chiunque ha il diritto di conservare questa proprietà, di difenderla con la forza contro un’intrusione violenta”, Murray N. Rothbard, L’etica della libertà (Macerata: Liberilibri, 1996), a cura di Luigi Marco Bassani, p.127. Dello stesso segno le parole di monsignor Carlos Felipe Ximenes Belo, vescovo di Timor Est e Premio Nobel per la Pace nel 1996: “arriva un momento in cui si deve agire, se necessario anche con le armi”; e ancora: “se gli altri prendono le armi perché non ci si deve difendere con le armi? È la difesa personale, ammessa anche dalla morale”, su tutti i quotidiani del 12 settembre 1999. back

(4) Si vedano: Gustave de Molinari, “Sulla produzione della sicurezza”, in Frédéric Bastiat e Gustave de Molinari, Contro lo statalismo (Macerata: Liberilibri, 1994), a cura di Carlo Lottieri, con introduzione di Sergio Ricossa, pp.77-99; Bruce L. Benson, The Enterprise of Law (San Francisco, CA: Pacific Research Institute for Public Policy, 1990); David Friedman, “Polizia, tribunali e diritto in un libero mercato”, in L’ingranaggio della libertà (Macerata: Liberilibri, 1997), con introduzione di Armando Massarenti, pp.169-178; Murray N. Rothbard, “Il settore pubblico: polizia, legge e tribunali”, in Per una nuova libertà, pp.297-333. back

(5) Bruno Leoni, Lezioni di filosofia del diritto (Soveria Mannelli, CZ: Rubbettino, 2003), con prefazione di Carlo Lottieri, p.160. back

(6) Si veda Wendy Cukier e Antoine Chapdelaine, “Small Arms: A Major Public Health Hazard”, Medicine & Global Survival, Vol.7, N.1, aprile 2001, figura 3, p.28, disponibile online all’indirizzo http://www.ippnw.org/MGS/V7N1Cukier.pdf. back

(7) Guy Smith, “Gun Facts v. 3.3”, p.10, disponibile online all’indirizzo http://www.gunfacts.info. back

(8) John R. Lott, More Guns, Less Crime (Chicago: The University of Chicago Press, 1998), pp.3-4. back

(9) Mark Steyn, “To catch a thief, here and abroad”, National Post, 6 settembre 1999; Guy Smith, “Gun Facts”, p.33. back

(10) Ivi, p.32, back

(11) Ivi, p.23. back

(12) Si veda J. Neil Schulman, Self Control, Not Gun Control (Culver City, CA: Pulpless.com, 1996), disponibile online all’indirizzo http://www.pulpless.com/self/self000.html. back

(13) Citato in Murray N. Rothbard, Per una nuova libertà, p.173. back

(14) ICVS International Working Group, Anna Alvazzi del Frate, Jan J.M. van Dijk, John van Kesteren, Pat Mayhew e Ugi Svekic, International Crime Victim Survey, 1989-1997 (Ann Arbor, MI: Inter-university Consortium for Political and Social Research, 2001), disponibile online all’indirizzo http://www.icpsr.umich.edu:8080/NACJD-STUDY/02973.xml. back

(15) Joyce Lee Malcolm, Guns and Violence: The English Experience (Cambridge e Londra: Harvard University Press, 2002), p.212. back

(16) John R. Lott, “Gun Control Misfires in Europe”, The Wall Street Journal, 30 aprile 2002, disponibile online all’indirizzo http://www.tsra.com/Lott54.htm. back

(17) “Per tutto il corso della storia umana, gruppi di uomini che si facevano chiamare ‘il governo’ o ‘lo Stato’ hanno cercato – solitamente riuscendovi – di ottenere un monopolio forzoso sulle ‘alture dominanti’ dell’economia e della società. In particolare, lo Stato si è arrogato un monopolio coercitivo sui servizi di polizia e sulle forze armate, sulla produzione normativa, sull’attività giudiziaria, sulla creazione di moneta, sulle terre inutilizzate (il ‘demanio pubblico’), sulle strade, sui fiumi e sulle acque costiere e sulla consegna della posta”, Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, p.264. In questa analisi, Rothbard si rifà a Calhoun: “La conseguenza dell’iniquo operato fiscale del governo, quindi, è quella di dividere la comunità in due grandi classi: una di esse è composta da coloro che, in realtà, pagano le imposte e, naturalmente, sopportano il peso di sostenere il governo; l’altra, da coloro che beneficiano dei loro proventi nella forma di erogazioni e che, di fatto, vengono mantenuti dal governo; in poche parole, la conseguenza è quella di dividere la comunità in contribuenti e consumatori di tasse”, citato Ivi, pp.284-285. Si veda anche Guglielmo Piombini, “Verso una teoria liberale della lotta di classe”, in La proprietà è sacra (Bologna: Edizioni Il Fenicottero, 2001), pp.9-50. back

(18) “Nel momento in cui la violenza risiede solo nelle mani del potere (...) la lotta contro l’autorità è persa ancora prima di essere iniziata (...) L’ordine della repressione è inattaccabile. Ogni potere si basa in fondo sull’arbitrio e sulla paura della morte. Regimi assoluti e totalitari non sono forme degenerate: mettono in pratica, in forma estrema, solo ciò che è comune all’esercizio del potere”; “Tuttavia, come il contratto sociale non proteggeva dagli abusi, così il contratto statale non circoscrive la violenza. Al contrario: essa viene diretta altrove, centralizzata, ulteriormente potenziata, esercitata con inaudita forza d’urto. Solo i tutori dispongono ora delle armi (...) Chi difende i sudditi dalla ferocia, dalla follia, dalla voglia di uccidere dei rappresentanti? Chi modera i guerrieri (...) quando sono i signori delle armi a determinare i principi della costituzione? È sufficiente un tratto di penna, per invalidarla”; “Il potere non conduce alla pace, serve solo la cupidigia degli aguzzini, dei conquistatori, degli assimilatori, di chi vuol incorporare. Nessuno Stato è mai nato da una convenzione o da un contratto. La loro fondazione è stata per lo più accompagnata da atti di violenza e assoggettamento di massa. Il monopolio della violenza si è affermato attraverso lacrime e sangue”, Wolfgang Sofsky, Saggio sulla violenza (Torino: Einaudi, 1998), pp.8 sgg. A questo proposito è rilevante pure ciò che scrive Gianfranco Miglio, “Guerra, pace, diritto”, in Le regolarità della politica – Tomo secondo (Milano: Giuffré, 1988), p.768: “Il potere di decidere chi sia il ‘nemico’ (e quindi chi siano gli alleati e gli ‘amici’) costituisce, secondo l’esperienza storica, la prima e suprema delle quattro funzioni fondamentali di ogni autorità sovrana: le altre essendo il potere di decidere circa la spartizione della preda in caso di vittoria (e quindi circa la distribuzione delle ‘rendite politiche’, anche nelle forme più moderne), il potere di decidere circa i ‘valori’ a cui ispirare l’azione (e quindi di custodire l’ortodossia ideologica), il potere di decidere tutte le controversie fra gli amici-governati (per cui la giurisdizione non può mai essere veramente separata dal principe). Tutte e quattro queste funzioni (ma sopra tutto la prima) in quanto espressione della ‘sovranità’, presuppongono e specificano il ‘monopolio della forza legittima’”. back

(19) “La filosofia implicita negli attacchi al secondo emendamento è evidente pure nella creazione di crimini senza vittime da parte del controllo delle armi, cioè la punizione del mero possesso, senza un uso criminale, delle armi da fuoco”, Stephen P. Halbrook, That Every Man Be Armed (Oakland, CA: The Independent Institute, 1994), p.196. Si veda anche Idem, La Svizzera nel mirino (Locarno e Verbania: Pedrazzini e Alberti, 2002). In particolare p.25: “La Svizzera è stato l’unico paese europeo nel quale non esistesse un singolo leader politico che avesse il potere di consegnare il suo popolo ai nazisti (…) Ogni uomo in Svizzera aveva in casa un fucile. La Svizzera è stato il solo paese europeo a proclamare che, nell’eventualità di un’invasione, ogni annuncio di resa doveva essere considerato come propaganda del nemico, e che ogni soldato doveva battersi fino all’ultima cartuccia e, dopo, alla baionetta”. back

(20) Citato in Luigi Marco Bassani, Il pensiero politico di Thomas Jefferson (Milano: Giuffré, 2002), p.244.

(21) Per contro, possono risultare interessanti i seguenti dati. L’Unione Sovietica ha approvato il controllo delle armi nel 1929. Dal 1929 al 1953 circa venti milioni di dissidenti politici, incapaci di difendersi, sono stati sterminati. La Turchia lo ha fatto nel 1911 e dal 1915 al 1917 un milione e mezzo di Armeni, incapaci di difendersi, sono stati sterminati. La Cina ha promulgato leggi contro la libera circolazione delle armi da fuoco nel 1935, e dal 1948 al 1976 venti milioni di anti-comunisti, cristiani, dissidenti politici e gruppi riformisti, incapaci di difendersi, sono stati sterminati. La Germania lo ha fatto nel 1938, e dal 1939 al 1945 tredici milioni di Ebrei, Zingari malati mentali e altri “popoli imbastarditi” sono stati sterminati. Il Guatemala ha fatto la stessa cosa nel 1964, e dal 1964 al 1981 un milione di Indiani Maya, incapaci di difendersi, sono stati sterminati. L’Uganda ha stabilito il gun control nel 1970, e dal 1971 al 1979 trecentomila cristiani, incapaci di difendersi, sono stati sterminati. La Cambogia lo ha fatto nel 1956, e dal 1975 al 1977 un milione di “borghesi” e intellettuali sono stati sterminati. Si vedano: Don B. Kates, Jr. e Daniel D. Polsby, “Of Genocide and Disarmament”, Journal of Criminal Law and Criminology, Vol.86, No.1, 1995, disponibile online all’indirizzo http://www.saf.org/LawReviews/KatesAndPolsby.htm; Rudolph J. Rummel, Lo Stato, il democidio, la guerra, con introduzione di Alessandro Vitale (Treviglio, BG: Leonardo Facco Editore, 2002). Sul nesso tra il diritto di portare armi e l’antistatalismo americano, si veda Alberto Mingardi, Estremisti della libertà (Treviglio, BG: Leonardo Facco Editore, 1999). back

(22) Si veda Stephen P. Halbrook, “Nazi firearms law and the disarming of the German Jews”, Arizona Journal of International and Comparative Law, Vol.17, No.3, 2000, pp.483-535, disponibile online all’indirizzo http://www.stephenhalbrook.com/article-nazilaw.pdf. back

(23) Su questo tema, mi permetto di rimandare a Carlo Stagnaro, “Christians and Guns”, Journal on Firearms & Public Policy, Vol.15, autunno 2003, pp.137-164. Si vedano anche: Paolo Tagini, Politicamente scorretto, con introduzione di Carlo Stagnaro (Milano: CAFF Editrice, 2003); John Michael Snyder, Gun Saint (Arlington, VA: Telum Associates, 2003); Rev. Anthony L. Winfield, Self Defense and the Bible (Arlington, VA: St. Gabriel Possenti Society, 1994). back

(24) Jeff Snyder, Nation of Cowards (Lonedell, MO: Accurate Press, 2001), p.19. back

(25) Si vedano Raimondo Cubeddu, Atlante del liberalismo (Roma: Ideazione, 1997); Enrico Colombatto e Alberto Mingardi (a cura di), Il coraggio della libertà (Soveria Mannelli, CZ: Rubbettino, 2002); Carlo Lottieri, Il pensiero libertario contemporaneo (Macerata: Liberilibri, 2001); Piero Vernaglione, Il libertarismo (Soveria Mannelli, CZ: Rubbettino, 2003). back

(26) Albert Jay Nock, Il nostro nemico, lo Stato (Macerata: Liberilibri, 1994). back

(27) Citato in Murray N. Rothbard, Per una nuova libertà, p.172. Sulla natura razzista del controllo delle armi, si veda Kenneth V.F. Blanchard, Black Man with a Gun (Arlington, VA: Blanchard Impresario Group, 2000). back

(28) Su questo tema si vedano: Terry L. Anderson e Peter J. Hill, “An American Experiment in Anarcho-Capitalism: The Not So Wild, Wild West”, Journal of Libertarian Studies, Vol.3, No.1, 1980, pp.9-29, disponibile online all’indirizzo http://www.mises.org/journals/jls/3_1/3_1_2.pdf; Guglielmo Piombini, “Far West: l’epoca libertaria della storia americana”, in La proprietà è sacra, pp.131-170. back

(29) Si vedano anche: Gary Kleck, Targeting Guns (Hawthorne, NY: Aldine de Gruyter Publishers, 1997); David B. Kopel, Guns: Who Should Have Them? (Amherst, NY: Prometheus Books, 1995). back

(30) Si veda Larry Pratt (a cura di), Safeguarding Liberty (Springfield, VA: Legacy Communications, 1995). back