Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003, 2 http://www.units.it/etica/2003_2/PIOMBINI.htm
Murray N. Rothbard e il
movimento paleolibertario
Guglielmo
Piombini
1. La nascita di un movimento
In Italia il termine non
è usato e suona poco orecchiabile, ma nel variegato mondo della Destra
americana oggi la sfida più vivace e interessante proviene dalla cultura che
si definisce ricorrendo puntualmente al prefisso “paleo”, la quale taglia
trasversalmente i due principali raggruppamenti politici (il Grand Old Party Repubblicano e il
piccolo Partito Libertario) e ideologici (il tradizionalismo conservatore e
l’antistatalismo libertario) che si contrappongono al Partito Democratico e
alla sinistra liberal.
La data di nascita del
paleolibertarismo, così come del paleoconservatorismo, coincide con la fine
della guerra fredda, evento che per una parte del mondo conservatore impose
un ripensamento sul ruolo imperiale che l’America aveva finito per assumere
sulla scena mondiale. All’insegna del motto “America First!” alcuni
intellettuali conservatori, come Patrick Buchanan, Tom Fleming, Samuel
Francis, Paul Gottfried, Allan Carlson, Clyde Wilson, rispolverano la
bandiera dell’isolazionismo, e affermano che è arrivato il momento di
“riportare le truppe a casa”. Per distinguersi dall’egemonia
neoconservatrice, rivendicano orgogliosamente l’etichetta di paleoconservatori,
cioè conservatori all’antica.
Il vecchio
conservatorismo della Old Right,
fortemente avverso al New Deal e
all’interventismo militare di Franklin Delano Roosevelt, si era infatti
eclissato nel secondo dopoguerra, quando la minaccia sovietica aveva condotto
quasi tutta la Destra americana sulle posizioni della New Right di William F. Buckley, James Burnham, Henry Jaffa o
Frank S. Mayer, favorevoli al massimo impegno nella lotta anticomunista su
scala globale. Su questa linea, diffusa principalmente dalla rivista National Review, approdarono verso la
metà degli anni Sessanta i neoconservatori, quasi tutti provenienti dalla
sinistra liberal o addirittura
dalla militanza trotzkysta. Grazie a questo loro passato politico, i
neoconservatori resero accettabile la critica delle idee progressiste anche
all’interno delle élite
intellettuali, artistiche e giornalistiche, dove i vecchi conservatori erano
sempre stati guardati con snobistico sospetto. Scaltri nella gestione del
potere politico e culturale, sotto la guida di personaggi come Irving Kristol
e suo figlio William, Daniel Moynihan, Nathan Glazer, Daniel Bell, Jeane Kirkpatrick
o Norman Podhoretz, i neoconservatori divennero col tempo la forza egemone
nel panorama conservatore americano, spostandolo su posizioni sempre più
favorevoli al big government in
politica interna e militariste in politica estera.
Durante gli anni della
guerra fredda gli unici all’interno della Destra americana a sfidare questo
predominio furono i libertari, i quali accusarono esplicitamente i neoconservatori
di statalismo per aver accettato come un fatto compiuto sia le istituzioni
del Welfare State edificate dai
Democratici da Roosevelt a Johnson, sia l’idea wilsoniana di esportare con le
armi la democrazia in tutto il mondo. Grazie soprattutto all’elaborazione
teorica di Murray N. Rothbard, la dottrina libertaria si sviluppò in maniera
sistematica, fondandosi sulla rigorosa difesa dei diritti naturali alla vita,
alla libertà, e alla proprietà degli individui; sulla celebrazione del libero
mercato; e sulla radicale condanna dello Stato moderno. Ne scaturiva un
modello ideale di società, definito talora anarco-capitalista, che rifiuta
ogni monopolio legale anche nei campi della sicurezza e della giustizia, e
prevede al suo posto la libera concorrenza tra agenzie di protezione,
arbitrali o assicurative. Realizzando una sofisticata sintesi di realismo
filosofico tomista, giusnaturalismo liberale alla Locke e soggettivismo della
Scuola Austriaca dell’economia, Rothbard rinnovò in una veste più coerente e
radicale la lezione dei liberali classici dell’Ottocento (1).
Un punto sul quale il
libertarismo insisteva con vigore era il ruolo cruciale della guerra nel
potenziamento dell’espansione statale a danno della libertà individuale (2). Soprattutto
su questo scoglio si arenò negli anni Sessanta il tentativo di Frank S.
Meyer, teorico di punta della National
Review, di unificare all’interno del movimento conservatore, all’insegna
del “fusionismo”, l’anima tradizionalista e l’anima libertaria. Opponendosi
alla volontà del direttore della rivista Buckley di “purgare” gli elementi
estremisti (libertari, randiani, birchers), Meyer, amico di vecchia data e
mentore di Rothbard, era fondamentalmente un paleolibertario ante litteram, che credeva nella
ragione e nella tradizione, nella libertà individuale e nel libero mercato,
nel cristianesimo, nell’oggettività dell’etica, nella decentralizzazione, nei
diritti degli Stati (anche del Vecchio Sud) contro la tirannia del governo
federale, e detestava il sistema scolastico pubblico e l’irrazionalismo
hippy.
Il dibattito inaugurato
da Meyer tuttavia fallì perché i libertari rothbardiani non condividevano il
suo acceso anticomunismo, che lo portava a perorare le più estreme posizioni
interventiste e imperialiste in politica estera, fino alla richiesta di
totale annichilimento dell’Unione Sovietica mediante il bombardamento
nucleare. Già membro di rilievo del Partito Comunista americano, Meyer
portava nella sua crociata anticomunista tutto lo zelo del neoconvertito,
apparendo come il più falco tra tutti i falchi che affollavano la National Review. Non solo Meyer non
condivideva l’isolazionismo della Old
Right, ma cercava di capovolgerlo, a costo di accettare all’interno del
movimento conservatore tutti coloro che professassero convinzioni antisovietiche,
fossero anche socialdemocratici, menscevichi o trotzkysti. Contro i fusionisti
alla Meyer, Rothbard rimase invece sempre dell’idea che i veri nemici non
fossero il comunismo o l’Unione Sovietica, ma lo statalismo e il socialismo
in tutte le loro forme; e che probabilmente la minaccia maggiore per le
libertà e le tradizioni americane non risiedesse a Mosca o all’Avana, ma a
Washington D.C. (3).
Per questo motivo Rothbard, pur essendo stato da giovane vicino alle
posizioni politiche della Old Right,
non esitò negli anni Settanta a proporre un’alleanza tattica con la New Left, la sinistra sorta dalla
contestazione, in nome della comune opposizione alla guerra del Vietnam.
All’inizio degli anni
Ottanta il Libertarian Party arrivò
a proporsi saldamente come terzo partito organizzato americano, ma molto più
dei risultati elettorali furono le idee libertarie contrarie all’eccessiva
tassazione e all’invadenza governativa che iniziarono ad acquisire peso nel
dibattito politico, come testimonierà il vittorioso programma elettorale di
Ronald Reagan, espressione di una maggioranza d’opinione che per la prima
volta dal dopoguerra ricuciva i legami fra le diverse anime della Destra americana
(anche se le realizzazioni pratiche saranno dal punto di vista dei libertari
più discutibili).
La caduta del Muro di
Berlino tornò però a scompaginare tutte le carte. La rottura tra
paleoconservatori e neoconservatori sul ruolo militare dell’America nel mondo
venne vista da una parte dei libertari, capeggiati dallo stesso Rothbard e da
Llewellyn Rockwell (il suo più stretto collaboratore negli ultimi anni di
vita, cofondatore del Mises Institute), come l’occasione propizia per far
rinascere, attraverso un’alleanza con i primi, qualcosa di simile alla rimpianta
Old Right: un movimento populista
di destra che fosse liberale in economia, isolazionista in politica estera e
attaccato ai valori tradizionali.
Una delle ragioni di
questa scelta politica fu quella di sfidare l’influenza sul movimento
libertario di riviste come la californiana Reason o di think tank
come il Cato Institute, troppo
facili ai compromessi col potere di Washington, oppure favorevoli a mezzi
statalisti e globalisti (come il Nafta o il WTO) per raggiungere obiettivi
libertari. Una seconda ragione profonda della decisione di Rothbard e
Rockwell di rompere definitivamente con il Partito Libertario nacque dalla
forte insofferenza per l’atteggiamento troppo “alternativo” e
“controculturale” esibito da molti attivisti libertari. In un articolo intitolato
“The Case for Paleolibertarianism”, pubblicato nel 1990, Lew Rockwell adottò
per la prima volta la definizione di “paleolibertario” (in analogia con
quanto fatto dai paleoconservatori) per differenziare le proprie posizioni da
quelle, giudicate decadenti, edoniste, relativiste e libertine dei left-libertarians, in uno sforzo di
combinare un radicale liberalismo nel campo politico ed economico con un
altrettanto deciso tradizionalismo nel campo culturale (4).
L’evoluzione paleo non
aveva quindi il significato di un nuovo credo, ma testimoniava il recupero di
radici perdute, e aveva lo scopo di riaffermare la continuità politica e
culturale con la Old Right, che nei
primi decenni del Novecento annoverava personalità di rilievo come Robert
Taft, Henry Mencken, Albert Jay Nock, Garet Garrett, Frank Chodorov,
rappresentando la tradizione americana più autentica, custode dei principi
costituzionali del governo limitato dai pericoli provenienti dalle politiche
progressiste.
Il paleolibertarismo,
infatti, sostiene che vi è uno stretto collegamento tra la libertà e
l’eredità culturale giudaico-cristiana, dato che la distruzione degli
ordinamenti tradizionali apre la strada all’edificazione dello Stato
onnipotente. Se si attacca la famiglia limitandone l’autonomia, questa non
potrà più servire come bastione contro il potere statale. Lo stesso effetto
viene prodotto dalla retorica progressista, quando ridicolizza la religione,
i costumi, le istituzioni, le usanze, e i pregiudizi delle classi medie, con
l’obiettivo di estendere il raggio d’azione dei funzionari e degli “esperti”
governativi nella società.
In realtà Rothbard e Rockwell sono sempre stati fautori
dei valori e degli stili di vita borghesi, e hanno sempre criticato
l’anticristianesimo militante e le provocazioni controculturali diffuse negli
ambienti libertari. L’unica vera novità nel pensiero di Rothbard durante
l’ultima fase della sua vita è stata quella di incorporare esplicitamente il
sostegno per la società tradizionale all’interno di una più ampia teoria
della libertà. Egli si rese conto che il libertarismo, affermando la
supremazia della legge naturale eterna sulla legge positiva creata dall’uomo,
è quanto di più antico e tradizionale vi possa essere, e per tale motivo è anche
internamente coerente con i precetti della religione. È significativo infatti
che Rothbard, ebreo e agnostico, pur senza convertirsi sia arrivato al
termine della sua vita intellettuale a considerarsi “un ardente sostenitore
del Cristianesimo” e ad aderire ad una visione culturale in senso lato
cattolica. Hans-Hermann Hoppe, l’allievo di Rothbard che gli
succederà nella cattedra universitaria, svilupperà queste idee in un libro, Democracy: The God That Failed, che rappresenta
a tutt’oggi la più compiuta esposizione delle posizioni paleolibertarie. Con
un taglio revisionista, Hoppe arriva a rivalutare alcuni aspetti di
moderazione delle monarchie tradizionali rispetto alle democrazie moderne, e
indica nello statalismo welfarista il vero distruttore dei legami comunitari
e dei valori tradizionali (5). Sul piano politico
l’alleanza con i paleoconservatori si realizzò attraverso l’attivo sostegno
di Murray N. Rothbard, Lew Rockwell e Justin Raimondo (più tardi biografo di
Rothbard (6))
alla campagna presidenziale di Pat Buchanan con i repubblicani del 1992,
nello sconcerto di molti left-libertarians
(l’ala sinistra del movimento libertario) che consideravano questo candidato
come un esponente della Destra religiosa. In realtà i punti d’accordo tra
paleolibertari e paleoconservatori erano numerosi: in politica estera
contestavano il Nuovo Ordine Mondiale e chiedevano il disimpegno dai
conflitti lontani; in politica interna erano anticentralisti e favorevoli
alla valorizzazione delle comunità locali; in economia criticavano gli
eccessi di tassazione e assistenzialismo; sul piano sociale chiedevano
limitazioni all’immigrazione indesiderata e la fine dei privilegi legali alle
“minoranze”; sul piano culturale difendevano l’eredità cristiana e la
tradizione morale della civiltà occidentale, minacciata dall’ideologia
politicamente corretta, multiculturalista e progressista dei left-liberal, diventata dominante tra
le élite intellettuali, nelle scuole, nelle università, a Hollywood e nei
media. Per le elezioni del 1992 Rothbard elaborò un progetto
“populista di destra” in grado di mettere d’accordo libertari e conservatori
alla Buchanan, all’insegna del ritorno alla Old Republic americana delle origini, non ancora stravolta
dall’avanzata del Leviatano statale. Secondo Rothbard lo scontro decisivo era
tra populismo ed elitismo: da una parte c’era la vasta classe media
americana, produttiva e legata ai valori tradizionali, ma necessariamente
impossibilitata a dedicarsi in maniera approfondita alle questione politiche;
dall’altra la classe elitaria dei politici, dei funzionari e degli intellettuali,
che la opprime, la tassa, la comanda e cerca di distruggerne le tradizioni
culturali e religiose. Rothbard prevedeva quindi un programma politico le cui
priorità erano: 1) abbassare il più possibile le tasse, abolendo soprattutto
l’imposta sul reddito; 2) ridurre al minimo tutte le misure del welfare, mettendo fine una volta per
tutte ai privilegi dell’underclass
parassitaria; 3) abolire i privilegi razziali o di gruppo, denunciando tutta
la legislazione dei diritti civili come violatrice dei diritti di proprietà
individuali; 4) riprendere il controllo delle aree urbane statalizzate,
combattendo con durezza i criminali violenti (rapinatori, assassini,
stupratori), e scacciando i molestatori indesiderati (punk, tossicomani,
vagabondi); 5) abolire la Banca Centrale, e denunciare le manipolazioni del
denaro operate dai banchieri; 6) America
First: interrompere tutti gli aiuti e gli impegni politici e militari
all’estero; 7) difendere i valori familiari, espellendo lo Stato dalla
famiglia per ridare l’autorità ai genitori; 8) favorire la radicale
decentralizzazione o la privatizzazione del sistema scolastico (7). L’unica differenza tra paleolibertari e paleoconservatori
riguardava la questione del libero scambio, a causa delle posizioni
protezioniste di Pat Buchanan. Rothbard tuttavia preferì passarci sopra,
dichiarando che “ad ogni uomo bisogna concedere un errore”. In pratica il
dissidio aveva scarse conseguenze, dato che entrambi si opponevano alla
creazione di mega-burocrazie sovranazionali dotate di poteri di regolamentazione
come il Nafta e il Gatt, che poco avevano a che fare con il libero commercio.
Rothbard riteneva inoltre che in un sistema ampiamente decentralizzato come
quello auspicato dai paleoconservatori
l’imposizione di tariffe protezionistiche sarebbe stata quanto mai
difficoltosa, mancando una forte autorità centrale capace di sottoporre a
controllo gli spostamenti di merci e capitali. Il punto più alto di questa intesa tra libertari e
conservatori all’insegna del ritorno alla Old
Right si ebbe nel 1994, in occasione di una grande conferenza congiunta
sui benefici dell’isolazionismo, i cui lavori furono pubblicati in un libro (The Costs of War) ricco di contributi
di alto livello (8).
L’improvvisa morte di Rothbard l’anno seguente incrinò tuttavia questo
stretto rapporto di collaborazione. Già nelle successive elezioni del 1996
Rockwell e Hoppe denunciarono la china statalista che aveva preso la campagna
elettorale di Buchanan, troppo incentrata sul sostegno ai privilegi sindacali
e sulla protezione dell’industria americana. Pur
essendosi spezzata l’alleanza formale, oggi paleolibertari e
paleoconservatori continuano a parlarsi e confrontarsi con reciproco
interesse. Lo spirito del paleoism
continua infatti a fiorire rigoglioso nel Ludwig von Mises Institute di
Auburn in Alabama, il più importante centro mondiale di diffusione delle idee
della Scuola Austriaca, intitolato al più grande economista del XX secolo;
nei siti di Lew Rockwell (www.lewrockwell.com,
uno dei siti politici più visitati del web), Justin Raimondo (www.antiwar.com) e di Joe Sobran (www.sobran.com); nel Rockford Institute diretto
da Samuel Francis; nella rivista Chronicles
di Tom Fleming; nella neonata rivista The
American Conservative di Pat Buchanan e Taki Theodoracopulos;
nell’attività pubblicistica di due dei maggiori ideatori delle riforme
economiche reaganiane, Jude Wanniski e Paul Craig Roberts; negli studi
revisionisti dello storico Ralph Raico, stretto amico di Rothbard in
gioventù; nelle iniziative politiche di Ron Paul, membro repubblicano del
congresso, che per la sua adesione senza compromessi alle libertà economiche,
al gold-standard, all’isolazionismo, ai valori famigliari e alle posizioni pro-life contrarie all’aborto, può
essere considerato a buon diritto un paleolibertario. 2. Contro
i modal e left-libertarians All’inizio
degli anni Novanta la rottura di Murray N. Rothbard con il Libertarian Party,
di cui era stato uno dei principali animatori fin dalla sua fondazione nei
primi anni Settanta, ebbe tra i suoi motivi scatenanti anche l’immagine
troppo influenzata dalla Controcultura degli anni Sessanta che, a suo dire,
il partito aveva assunto. Egli si era convinto che, terminata la Guerra
Fredda, non ci fossero più ragioni per tenere separati gli antistatalisti
libertari e quelli conservatori, nel comune obiettivo di difendere i valori
borghesi, l’eredità cristiana e la tradizione morale su cui si fonda la civiltà
occidentale, a suo avviso minacciata dalla dominante cultura dei left-liberal: “Io, come altri
paleolibertari – scrisse Rothbard – mi sono convinto che la Vecchia Cultura,
la cultura che pervadeva l’America dagli anni Venti agli anni Cinquanta, era
in sintonia non solo con lo spirito americano, ma anche con la legge
naturale. E che la cultura nichilista, edonista, ultrafemminista, egualitaria
e “alternativa” che ci è stata imposta dai liberal di sinistra non solo non è in sintonia, ma viola
profondamente la concezione della natura umana che si è sviluppata in America
e in tutta la civiltà occidentale prima degli anni Sessanta del XX secolo” (9) La
sensibilità più conservatrice del paleolibertarismo, che Rothbard e Rockwell
propugnarono sulle pagine di combattive riviste come la Rothbard-Rockwell-Report, non costituì affatto una deviazione
dalla dottrina libertaria fondata sull’inviolabilità dei diritti naturali,
sulla difesa ad oltranza della proprietà privata e del libero mercato e sulla
radicale condanna dello Stato, così come esposta in For a New Liberty e The
Ethics of Liberty. È pertanto da ritenersi scorretta l’affermazione
polemica dei left-libertarians,
secondo cui negli ultimi anni della sua vita Rothbard avrebbe abbandonato il
libertarismo convertendosi al paleoconservatorismo. La stessa periodizzazione
della vita intellettuale di Rothbard in quattro fasi successive (il Rothbard
dell’Old Right, il Rothbard della NewLeft, il Rothbard libertarian, il Rothbard paleo) rischia di essere del tutto
sviante, perché questi diversi momenti non significarono mai cambiamento di
idee e di principi, ma solo di strategia, di interessi, di approfondimento
organico del proprio pensiero. Indipendentemente dalle alleanze tattiche o
dagli interessi culturali, Rothbard dal primo all’ultimo giorno della sua
vita rimase sempre lo stesso libertario radicalmente antistatalista, nel
senso più puro del termine: in economia, un anarchico di Scuola Austriaca
favorevole alla proprietà privata e al libero mercato; in politica, un
decentralista radicale; in filosofia, un tomista giusnaturalista; nella
cultura, un uomo della Old Republic
e del Vecchio Mondo (10). Rothbard,
conferma Joseph Stromberg, ha sempre difeso la “Vecchia Cultura” ed i veri
film, quelli che contenevano un messaggio, avevano una trama ed erano realizzati
con maestria, tanto da non rappresentare esclusivamente il mezzo scelto dal
regista per esprimere il proprio nichilismo e la propria angoscia
esistenziale. Avrebbe forse dovuto adottare un “stile di vita alternativo” ed
adoperarsi per fare del libertarismo un rifugio per tutte le lamentazioni
multiculturali? (11). Sicuramente
no, spiega Joseph Salerno, dato che per Rothbard la libertà non era un’arida
astrazione, nè un valore esistenziale da “vivere” ingerendo droghe, indulgendo
in promiscuità sessuale e rompendo i legami con la famiglia, la chiesa e la comunità.
Egli amava la libertà in quanto causa necessaria (ma non sufficiente) della
cultura e della società americana che egli celebrò e fece propria. Rothbard
fu pertanto un ammiratore della cultura americana così come esisteva, integra
e non adulterata, dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, perché la vedeva
come lo specifico prodotto storico del sistema politico-economico
fondamentalmente libertario dell’America, il cui declino iniziò con l’avvento
del New Deal negli anni Trenta. La progressiva trasformazione di questo
sistema ad opera della moderna ideologia liberal
nel mostruoso welfare-warfare americano, sviluppatosi in maniera sempre più
rapace e distruttiva a partire dagli anni Sessanta, non aveva solo prodotto
instabilità e declino all’economia americana, ma anche una degenerazione
precedentemente inimmaginabile in tutte le istituzioni della società e della
cultura americana. Rothbard combatté con tutte le sue forze, fino al giorno
della sua morte, le aggressioni del potere statale alla libertà, proprio
perché attribuiva un alto valore ai prodotti culturali, oltre a quelli economici,
della libertà – i film di John Wayne, la musica jazz dell’età d’oro, la New
York della sua giovinezza, e gli intatti, uniti, e religiosi nuclei familiari
che formavano l’America. Egli non poteva accettare di rimanere inattivo
mentre la sua amata cultura veniva lentamente, deliberatamente, e felicemente
avvelenata dagli intellettuali traditori che occupavano Hollywood, riempivano
le pagine del New York Times, e
affollavano le stanze delle università (12). La
polemica di Rothbard colpiva quindi non solo la cultura dominante dei
progressisti liberal, ma anche un
certo atteggiamento diffuso nel partito e nei movimenti libertari americani,
dove trionfava l’esaltazione degli stili di vita alternativi, l’ateismo
militante e l’antitradizionalismo dei left-libertarians.
Egli coniò la spregiativa definizione di modal
libertarian (forse traducibile letteralmente come “libertario di
maniera”) per descrivere questa tipica figura di militante libertario
americano, eterno adolescente che si ribella a tutti coloro che stanno
intorno a lui: prima ai suoi genitori, poi alla sua famiglia, poi ai vicini e
infine all’intera società. Il modal
libertarian contesta tutte le autorità sociali e culturali,
particolarmente quelle entro le quali è cresciuto, come le istituzioni
borghesi e le Chiese; non legge quasi nulla, a parte i pochi libri
“approvati” dal circolo libertario cui appartiene (riguardanti in genere
argomenti come l’uso delle droghe o dei materiali pornografici); e occupa
quasi tutto il suo tempo a discutere con i suoi compagni, mediante
interminabili sillogismi, su quale sia la posizione libertaria più “pura” (13). La
critica ai modal e left-libertarians non riguardava solo
questioni culturali, ma finiva per toccare aspetti politici sostanziali in
tutti i casi in cui, essendo al momento ineliminabile la presenza dello Stato
e della proprietà pubblica, la dottrina libertaria non ha una soluzione
univoca, ma può prestarsi a diverse interpretazioni. Posto infatti che per
ogni libertario il modello puro anarco-capitalista rappresenta l’obiettivo
ideale da perseguire, rimane il problema di individuare il second best nei casi in cui la
privatizzazione integrale della società non sia prevedibile in tempi
ragionevoli. Come vanno gestite, ad esempio, le strade, le scuole, le poste o
gli ospedali pubblici? I left-libertarian
ritengono che, ovunque sia coinvolto lo Stato, occorra applicare una regola
di “parità di trattamento” per tutti. Il problema di questa posizione è
quello di tradursi di fatto in una opzione egualitarista e “comunista”, dato
che nelle odierne società ad economia mista non esiste settore in cui il
governo non sia presente, direttamente o indirettamente. Per Rothbard,
invece, occorre respingere una volta per tutte la visione left-libertarian secondo cui tutte le
aree gestite dal governo debbano essere considerate come una discarica, dove
tutti hanno diritto di eguale accesso. In attesa della privatizzazione
finale, bisogna invece far sì che le operazioni del governo siano gestite
nella maniera più simile a quella di un’impresa, o di una comunità locale (14). Prendiamo
ad esempio in considerazione le strade pubbliche: tutti i libertari ne auspicano
la privatizzazione, ma fino a quando restano pubbliche, per i left-libertarians nessuno può
scacciare i disturbatori, né vietare manifestazioni rumorose e fastidiose.
Rothbard fa notare che non esiste alcun principio nella dottrina libertaria
dal quale si può dedurre una regola del genere. Piuttosto, dovendo trovare
una soluzione che si avvicini maggiormente a quelli che sarebbero stati gli
esiti del mercato, occorre chiedersi: come si comporterebbero gli abitanti
della strada, in una società libertaria? Ben difficilmente lascerebbero
scorrazzare indisturbati i disturbatori, come testimonia l’esperienza dei
centri commerciali, dei condomini e delle aree private in genere. La
soluzione paleolibertaria è dunque quella di decentrare nella maniera più
localizzata possibile la decisione riguardante l’uso delle risorse pubbliche.
Si ritiene infatti che vi siano delle persone che, a diverso titolo (in
quanto tax-payers, residenti ecc.),
possano vantare dei diritti “quasi-proprietari” sulle risorse pubbliche più
rilevanti di quelli che potrebbero vantare altre categorie di persone (tax consumers, ultimi arrivati, passanti
occasionali, ecc.) (15). Lo
stesso ragionamento può essere applicato a quella istituzione statale che
Rothbard ha definito “mostruosa” in più di un’occasione, la scuola pubblica:
un gigantesco moloch ultrasindacalizzato e nelle mani dei progressisti, che
lo utilizzano per indottrinare le nuove generazioni al culto dello Stato,
all’ideologia politically correct e
all’anticristianesimo militante. Con il pretesto della “separazione tra Stato
e Chiesa”, i progressisti si sono infatti proposti l’obiettivo di rimuovere
tutti i valori e i simboli del Cristianesimo dalle scuole e dalle aree
pubbliche, come le piazze e le strade. Il crocifisso, l’insegnamento del
creazionismo o le preghiere in aula rappresenterebbero secondo questo punto
di vista, molto diffuso anche in Europa, delle gravi lesioni alla “laicità
dello Stato”, o comunque alla neutralità verso ogni credo religioso. È
spiacevole, secondo Rothbard, che molti left-libertarians
sostengano questa posizione, pur non trovando alcun fondamento nella dottrina
libertaria. Se le preghiere, il crocifisso o l’insegnamento biblico non
possono essere obbligatori, non per questo devono essere vietati! La
soluzione paleolibertaria è ancora una volta quella di “simulare” i risultati
del mercato, attraverso la massima decentralizzazione delle decisioni. In
tutti questi casi, quindi, dovrebbero essere solo le singole classi
(insegnanti, allievi e genitori) a decidere di volta in volta, non il governo
federale, il Congresso o la Corte Suprema. Al contrario, secondo
l’interpretazione del principio di separazione tra Stato e Chiesa data dai
laicisti, se lo Stato nazionalizzasse tutte le scuole, la religione cristiana
potrebbe essere bandita dal paese anche nel caso in cui la stragrande
maggioranza dei genitori desiderasse un’educazione religiosa per i propri
figli! Però allo stesso tempo nelle scuole statali sarebbe perfettamente
legittimo (come di fatto avviene) diffondere la propaganda New Age, il
paganesimo ecologista, il marxismo, il femminismo, il terzomondismo e qualche
altra ideologia politically correct,
perché formalmente non classificabili sotto la voce “religione” (pur avendone
invece tutte le caratteristiche, come le analisi di Rothbard non hanno mai
mancato di evidenziare). In questo modo, osserva Rothbard, i sostenitori dei
valori cristiani tradizionali saranno sempre costretti a lottare con una mano
legata dietro la schiena (16). Per
estirpare questa “aggressiva istituzione degenerata, oppressiva, socialistica
e multiculturale” (17), Rothbard e
Rockwell ritengono che il sistema dei buoni-scuola proposto da alcuni
economisti favorevoli al libero mercato come Milton Friedman rappresenti una
soluzione peggiore del male. Con l’introduzione dei voucher si rischierebbe
infatti di estendere il finanziamento statale, e quindi anche il controllo
sui programmi didattici, a tutte le scuole autenticamente private e libere
rimaste (18). Se non è politicamente possibile
privatizzare l’intero sistema scolastico, è molto meglio affidare la gestione
delle scuole alle comunità locali, e valorizzare il più possibile il sistema
dell’homeschooling, che Rothbard
giudica come il più promettente, ispirato e libertario movimento dell’America
attuale (19).
3. La
guerra culturale Alla
convention repubblicana del 1992 Patrick Buchanan pronunciò un discorso che
fece scalpore, con il quale denunciò l’esistenza di una guerra culturale e
religiosa per la conquista dell’anima degli americani. Per il candidato
cattolico-conservatore del GOP, due americhe si fronteggiavano senza
esclusione di colpi: quella legata alla vecchia cultura tradizionale
giudaico-cristiana e quella proveniente dall’esperienza della contestazione
degli anni Sessanta. Rothbard fu colpito molto favorevolmente dal coraggio
dimostrato da Buchanan: «Sì, sì, ipocriti liberal,
questa è una guerra culturale! Ed è iniziata da parecchio tempo! Il vostro
atteggiamento è tipico dei nostri intellettuali e media liberal: dopo aver realizzato praticamente indisturbati, da
vent’anni a questa parte (come minimo!), la conquista culturale dell’America;
e dopo aver completato con successo la lunga marcia gramsciana attraverso le
istituzioni, i liberal volevano
sedersi e trattarci come province conquistate. Ma improvvisamente tra di noi
alcuni provinciali assediati riprendono le armi, incitati dal discorso di Pat
Buchanan alla convenzione nazionale repubblicana!…Questi ipocriti di liberal ci rispondono: “Come potete
voi conservatori, che siete contro l’intervento statale, trattare la cultura
come una questione politica? Semplice. Il motivo è che voi liberal avete usato massicciamente il
potere dello Stato per distruggere la nostra cultura. Noi dobbiamo
intervenire nello Stato affinché tutto questo finisca» (20). Per Rothbard è giunta dunque l’ora di reagire, per
salvare la libertà americana inestricabilmente legata alla cultura che l’ha
generata. A questo riguardo ricordò che la Rivoluzione Culturale legata alla
Contestazione era riuscita ad imporsi, rovesciando le vecchie norme sociali
giudicate “repressive”, grazie ad una strategia in due fasi: in un primo
momento è stato distrutto l’amore e l’ammirazione per la vecchia cultura,
predicando il relativismo culturale e l’irrazionalità dell’etica: tutte le
culture sono uguali, non si può considerare la propria cultura superiore alle
altre e così via. Questa è la fase uno. Dopo aver insistito su questi
concetti e convinto tutti, si passa alla fase due: ci sono, dopotutto, dei
principi morali superiori ad altri, ma il male sta proprio nella tradizione
culturale occidentale, che è razzista, sessista, eterosessista e tutto il
resto, fino alla nausea. Si compie così una trasvalutazione di valori nella
quale la prima fase rappresenta il necessario processo d’addolcimento della
seconda fase, che è attualmente in atto (21). Rothbard
procede quindi ad indicare gli innumerevoli esempi di cultura progressista
imposta mediante la coercizione pubblica, che a suo avviso contraddicono
palesemente il mito propagandistico della Sinistra che difende le libertà
civili degli individui dall’autoritarismo della Destra. Innanzitutto i
progressisti hanno usato il potere statale per creare una serie di falsi
“diritti” a favore di ogni gruppo designato come vittima, allo scopo di
sfruttare e ottenere vantaggi indebiti nei confronti del resto della popolazione.
Sono sorti pertanto i “diritti” dei neri, dei gay, delle donne, delle
lesbiche, degli handicappati, degli ispanici, degli anziani, dei bambini e
ogni giorno ne nascono di nuovi. In tutti questi casi la Nuova Classe dei
funzionari, dei tecnocrati e dei terapisti “ufficiali” garantisce a sé e a
questi gruppi accreditati come “vittime” un potere sempre crescente di
dominare, sfruttare e derubare il gruppo sempre più assottigliato dei
bianchi, cristiani, di mezza età e di lingua inglese, particolarmente i
genitori eterosessuali. L’aspetto più criticabile di questa nuova religione liberal della “vittimologia”, alla
quale chi non rende omaggio è virtualmente tagliato fuori dalla vita pubblica,
è quello di attribuire colpe di ogni tipo (per i secoli di schiavitù, per
l’oppressione e lo stupro delle donne, per l’Olocausto, per l’esistenza degli
handicappati, per aver ucciso e mangiato animali, per essere grassi, per non
riciclare i rifiuti, per aver “profanato la Terra”) non confinate agli
specifici individui che hanno commesso determinati fatti (anche perché,
osserva ironicamente Rothbard, è difficile trovare ancora in vita qualche
schiavista centocinquantenario del Vecchio Sud!) ma collettive, senza limiti
geografici o temporali. Tutti i membri dei gruppi che non sono stati
accreditati nel ruolo ufficiale di vittime sono considerati automaticamente
criminali: come tali devono sentirsi in colpa e riparare le proprie “vittime”
con denaro e concessioni di privilegi (22). Un
altro clamoroso esempio indicato da Rothbard della penetrante offensiva
statalista della Sinistra nella cultura è rappresentato dal corpo “gonfiato e
mostruoso” dei funzionari e degli insegnanti che spadroneggia nella scuola
pubblica, inculcando nei giovani indifesi le “virtù” dello statalismo e
dell’obbedienza alla élite burocratica, e infettandoli con la cultura del
nichilismo, dell’anticristianesimo e dell’edonismo, anche mediante la
distribuzione gratuita dei preservativi contro la volontà dei genitori. Il
tutto completato con continue lezioni sul pensiero-d’odio (hate-thought), sessioni di terapia e
lavaggio del cervello minacciate ai bambini e agli insegnanti sospettati di
violare le norme del politically
correct. «Cultura separata dal governo? – commenta Rothbard – Ma non
fatemi ridere!» (23). L’attacco
statalista della sinistra ai valori famigliari non finisce qui. Secondo le
teorie sui “diritti dei bambini” propagandate particolarmente da Hillary
Clinton (uno dei personaggi politici più detestati dall’ultimo Rothbard) i
piccoli vanno considerati già perfettamente competenti e liberi di condurre
le proprie vite in questioni importanti come la maternità, l’aborto, la
scuola, la chirurgia cosmetica, il trattamento delle malattie veneree, il
lavoro – fuori dal controllo o dal consenso dei genitori. Nella disputa sui
valori famigliari vi sono perciò due sole alternative: o i bambini vengono
educati dai genitori, o dallo Stato mediante la Nuova Classe di avvocati,
terapisti “autorizzati”, assistenti sociali, pedagogisti di Stato
(naturalmente in nome dei “diritti dei bambini” e del loro “sviluppo”). È
chiaro infatti che se un dodicenne può citare in giudizio i suoi genitori
quando non si trovi d’accordo con l’educazione impartita, di fatto il ruolo
di educatore verrà assunto dagli “specialisti” appartenenti alla Nuova
Classe. Le posizioni sono dunque chiare: da una parte vi sono i conservatori
e i paleolibertari, che vogliono preservare o restaurare la tradizionale
famiglia con due genitori, così come è fiorita in Occidente; dall’altra vi
sono i progressisti e la vasta schiera di insegnanti, funzionari e membri
dell’élite mediatica e intellettuale, che perseguono l’antico sogno
socialistico e utopistico della distruzione della famiglia e della vita famigliare
privata, a vantaggio di un universale Stato-famiglia. Che fare allora?
«Poiché sono profondamente convinto che la cultura left-liberal oggi dominante sia profondamente contraria alla
natura umana – spiega Rothbard – ritengo che rimuovendo il veleno, cioè
espellendo lo Stato dalle questioni culturali in cui oggi è impegnato, il risultato
sarebbe un veloce ritorno alla Legge Naturale e alla Vecchia Cultura di un
tempo» (24). Questo
convincimento di Rothbard e dei paleolibertari si fonda sull’idea che una società
libertaria fondata sul puro laissez-faire
capitalistico svilupperà con probabilità dei costumi sociali ispirati a
regole di tipo tradizionale, sul genere di quelle che tramandate dall’eredità
giudaico-cristiana, e non invece stili di vita permissivi, edonistici e
libertini, da controcultura anni Sessanta o Settanta. Di per sé, infatti, il
capitalismo non è un sistema gaudente o materialistico, ma è anzi un sistema
che impone a tutti elevati livelli morali di etica del lavoro, impegno,
affidabilità, responsabilità personale, risparmio, previdenza, prudenza. Chi
non si attiene a questi standard viene colpito da dure sanzioni di mercato
(se non produci non guadagni) e sociali (legittime discriminazioni). È solo
con l’avvento dello Stato sociale e della redistribuzione statale, che spezza
il legame tra comportamento responsabile e disponibilità di risorse, che a partire
dagli anni Sessanta del XX secolo in Occidente si sono diffusi a
livello di massa stili di vita decadenti ed edonistici. Per
dare un’idea dell’arretramento della cultura conservatrice in concomitanza
con l’avanzata dello statalismo è possibile prendere in considerazione le
società più “liberiste” dell’Ottocento, come gli Stati Uniti e l’Inghilterra
vittoriana. Qui lo Stato era quasi invisibile, ma nella società civile
trionfavano indiscussi i valori borghesi legati alla famiglia, all’etica del
lavoro, all’indipendenza personale e all’idea di rispettabilità, anche tra le
classi lavoratrici. Non è quindi un paradosso che i paesi politicamente ed
economicamente più individualisti del mondo fossero anche quello dove la
mentalità filantropica era più diffusa. Prima dell’avvento
dell’assistenzialismo di Stato almeno l’ottanta percento delle famiglie di
ceto medio-alto contribuivano alle società caritatevoli, e molti dei suoi
membri dedicavano quotidianamente parte del loro tempo e delle loro energie
in attività assistenziali, oppure in una delle tantissime associazioni volontarie
finalizzate a risolvere i problemi più disparati. Grazie all’energica azione
degli individui e delle associazioni private, gli indicatori relativi alla
povertà, alla violenza, all’alcolismo, alle nascite illegittime, e alla
stabilità famigliare avevano mostrato forti miglioramenti. In Inghilterra, ad
esempio, i crimini violenti dal 1857 al 1901 avevano conosciuto uno
spettacolare calo del 50 percento: in termini assoluti, mentre la popolazione
aumentava da 19 milioni a 33 milioni, i crimini gravi calarono da 92000 a
81000 (25).
Durante
il Novecento questo processo si è invertito, dando ragione a coloro, come
Hans-Hermann Hoppe, secondo cui i segni segni della decivilizzazione sono il
risultato inevitabile del Welfare State
e delle sue principali istituzioni, perché il gigantesco apparato di
sicurezza sociale messo in piedi in Occidente ha finito inevitabilmente per
colpire l’istituzione famigliare e l’idea della responsabilità personale,
sussidiando tutto ciò che è negativo (e perciò moltiplicandolo) a spese di
ciò che è positivo (e perciò disincentivandolo): «Sollevando gli individui
dall’obbligo di provvedere al proprio reddito, benessere, salute, vecchiaia,
ed educazione dei figli – spiega Hoppe – si è ridotto l’arco dell’orizzonte
temporale degli individui, e il valore del matrimonio, della famiglia, dei
figli, e dell’autorità sociale si è abbassato. Irresponsabilità, vivere alla
giornata, negligenza, insanità fisica, e distruttivismo (i mali) vengono
promossi, mentre la responsabilità, la previdenza, la diligenza, il
mantenersi in salute e il conservatorismo (i beni) vengono puniti (26). In
particolare i sistemi pensionistici pubblici obbligatori, secondo
l’economista Premio Nobel Gary Becker, incoraggiano la riduzione dei tassi di
natalità, poiché i genitori diventano meno dipendenti dai propri figli per il
sostegno negli anni della vecchiaia: e infatti le nascite sono crollate della
metà da quando sono stati istituiti i moderni sistemi di sicurezza sociale.
Mentre infatti un tempo tutte le risorse risparmiate rimanevano entro il
gruppo famigliare, con i sistemi a ripartizione coloro che non fanno figli
possono risparmiare consistenti spese per il loro allevamento, per poi
incassare in vecchiaia i contributi versati dai (sempre più pochi) figli
delle altre coppie, o dagli immigrati (27). L’interventismo
governativo e l’economia mista, secondo i paleolibertari, hanno anche cambiato in negativo il modo in
cui noi pensiamo al tempo. Tutti noi vorremmo che i nostri desideri fossero
soddisfatti presto anzichè tardi, ma guadagnare denaro richiede tempo, e per
questo l’etica del lavoro ottocentesca insegnava che gli uomini di successo
erano soprattutto quelli capaci di rinviare la gratificazione immediata in
cambio di una ricompensa futura. Come ci si poteva aspettare, l’Inghilterra e
l’America del XIX secolo erano società disciplinate da persone che sapevano
attendere e risparmiare, perché la cultura e i valori forgiati dalla
borghesia di una volta all’interno del proprio ordine sociale erano
particolarmente favorevoli a lunghi orizzonti temporali: come notò Joseph
Schumpeter, “l’ordine capitalista si affida agli interessi di lungo periodo
dello strato alto della borghesia”. L’interventismo
però ha accorciato gli orizzonti temporali della società, in primo luogo
mediante l’inflazione monetaria e il credito facile, adeguando i costumi, i
valori, e le opinioni alla mutata crescita dell’offerta di denaro. Nel XIX
secolo, ad esempio, i debiti personali e gli acquisti a rate erano
estremamente rari. In secondo luogo lo stato assistenziale, sussidiando
l’immediata soddisfazione e scoraggiando gli investimenti, abbassa
ulteriormente il tasso di preferenza temporale della società. I sussidi per i
disoccupati scoraggiano il risparmio per eventuali perdite del posto di
lavoro, riducono la paura della disoccupazione e con questa l’incentivo a
lavorare duro, e mantengono nell’indolenza per lunghi periodi, facendo
aumentare il tasso di disoccupazione. Il sistema pensionistico pubblico
scoraggia le persone a risparmiare per la vecchiaia. Le imposte di
successione scoraggiano il risparmio a favore delle future generazioni. Le
tasse sul reddito e sui patrimoni penalizzano l’accumulazione di ricchezze.
Le tasse sulle imprese riducono il loro capitale e perciò anche la loro
capacità di sostenere progetti di lungo periodo. Il vecchio ordine del libero
mercato, dunque, non era licenzioso e libertino. Non produceva permissivismo,
ma un rigido ambiente di lavoro e risparmio, come testimonia la disciplina
nelle città industriali durante l’era del laissez-faire
(28). Naturalmente
per i paleolibertari tutti hanno il diritto di intossicarsi, di praticare
stili di vita alternativi o New Age, di ribellarsi alla tradizione e alle
regole religiose, di rifiutare le regole della buona educazione e del decente
comportamento, di contestare i genitori e gli insegnanti, e così via. Ma
quanti lo farebbero in una società libertaria interamente fondata sul
mercato? Forse pochi, e probabilmente meno di quanti lo facciano oggi. La
vita del figlio dei fiori o del contestatore eterno adolescente non è una
vita molto produttiva, e non ci sarebbe nessun ente pubblico a sussidiarla, a
differenza di quanto avviene oggi con gli oziosi frequentatori dei centri
sociali, che non a caso lottano per il “salario sociale garantito” e per il
“diritto di non lavorare” – ovviamente a spese altrui. Non ci sarebbe alcuno
Stato Sociale a mantenere, sfamare, curare tutti coloro che vivono in maniera
degradata a causa dei loro comportamenti irresponsabili (drogati,
alcolizzati, sperperatori, vagabondi, oziosi). Ci sarebbe solo la carità
privata, ma sappiamo che questa è sempre attentissima a distinguere i poveri
meritevoli dai poveri immeritevoli, come testimonia la storia delle
confraternite caritatevoli e delle società di mutuo soccorso ottocentesche. Alla
luce di questa realtà storica i paleolibertari giudicano completamente errata
la posizione dei Communitarians,
che sostengono a spada tratta le istituzioni del moderno Stato Sociale
accusando il libero mercato di provocare la distruzione dei legami comunitari
e dei valori tradizionali (29): «Mantenere le istituzioni centrali
dell’attuale Stato Assistenziale e pretendere il ritorno alle famiglie,
norme, condotte, e culture tradizionali sono obiettivi incompatibili – spiega
Hoppe – Tu puoi avere l’uno (il socialismo del welfare) o l’altro (i valori
tradizionali), ma non puoi avere entrambi, perché i pilastri del corrente
Stato Sociale sono essi stessi la causa delle anomalie sociali e culturali” (30).
Non è un caso che in Occidente la contestazione dei valori conservatori sia
iniziata, a partire dalla Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta, proprio
mentre si iniziavano a porre le basi di un vasto sistema di welfare pubblico.
Quest’ultimo fornisce le basi materiali indispensabili per vivere una vita “libera”
(dalla “repressione” capitalistica, famigliare, scolastica, sociale,
religiosa), senza doverne pagare i prezzi. Lo
statalismo ha prodotto quindi in tutto l’Occidente la proliferazione di un
tipo umano, che Hoppe ha definito come “il prodotto mentale ed emozionale del
Welfare State: la nuova classe
degli adolescenti a vita”. Ma alla lunga statalismo socialista da un lato e
Rivoluzione Culturale dall’altro rischiano seriamente di determinare il declino
e l’estinzione demografica delle società di origine europea, stando agli
allarmanti dati contenuti nel recente best-seller di Patrick Buchanan, The Death of the West (31). Se è corretta la
tesi di Rothbard secondo cui le norme della tradizione giudaico-cristiana
sono quelle più compatibili con il diritto naturale, si spiega perché la
civiltà occidentale, potente ed espansiva finché si è attenuta a quegli
standard, sia rapidamente decaduta una volta abbracciato lo statalismo e il
relativismo. Forse questa è una ragione in più per seguire il programma
indicato da Rothbard negli ultimi anni della sua vita: abrogare anche
culturalmente il Novecento (32). 4. Elogio del Cattolicesimo
Tra le ragioni della svolta paleolibertaria di Rothbard e
Rockwell vi fu anche la sentita esigenza di recuperare gli aspetti della
tradizione cristiana che permeavano la Vecchia Cultura. In pratica questo
significava contrastare l’anticristianesimo laicista delle élite politiche e
intellettuali, la scristianizzazione degli spazi “pubblici”, la secolarizzazione
dilagante nella società, il neopaganesimo di ritorno sotto vesti
ambientaliste e un certo ateismo e anticlericalismo militante diffuso negli
ambienti libertari. Rockwell trovò conferma, in un sondaggio che mostrava che
il 74% dei libertari negava l’esistenza di Dio, della comune percezione che i
libertari fossero quasi tutti atei. Nel suo “Manifesto del Paleolibertarismo”
rilevò con disappunto il fatto che la maggior parte di costoro fossero non
solo sono irreligiosi, ma antireligiosi militanti. La sua opinione era
diversa: «Io naturalmente non sostengo che la fede religiosa sia indispensabile
per il libertarismo – scrive Rockwell – Alcune delle nostre più grandi
personalità sono non credenti. I paleolibertari preferiscono però le visione
di due altri non credenti: Rothbard, secondo cui “tutto quello che c’è di
buono nella civiltà occidentale, dalla libertà individuale alle arti, è
dovuto al Cristianesimo”, e von Hayek, il quale aggiunse che dalla religione
provengono “gli insegnamenti morali e le tradizioni che ci hanno dato non
solo la nostra civiltà, ma anche le nostre stesse vite”». La famiglia, il libero mercato, la dignità
dell’individuo, i diritti di proprietà privata e lo stesso concetto di
libertà, continua Rockwell, sono tutti prodotti della nostra cultura
religiosa. Il Cristianesimo diede infatti origine all’individualismo enfatizzando
l’importanza di ogni singola anima, perché la Chiesa insegna che Dio avrebbe
mandato Suo Figlio a morire sulla croce anche se un solo essere umano avesse
avuto bisogno della sua intercessione. Con la sua enfasi sulla ragione, la
legge morale oggettiva, e la proprietà privata, il Cristianesimo rese
possibile lo sviluppo del capitalismo. Esso affermò che tutti gli uomini sono
egualmente figli di Dio (benché non uguali in ogni altro senso), e che perciò
dovrebbero essere uguali davanti alla legge. Fu la Chiesa transnazionale che
combattè il nazionalismo, il militarismo, la tassazione elevata e
l’oppressione politica. Furono i suoi teologi a proclamare la legittimità del
tirannicidio. Rockwell
attaccò poi la deriva paganeggiante dell’ecologismo moderno: «Il paleolibertarismo
è per l’Uomo senza remore. Sostiene – e come potrebbe essere controverso?! –
che solo l’uomo ha diritti, e che le politiche pubbliche basate su mitici
diritti degli animali o delle piante producono necessariamente risultati
perversi. Gli ambientalisti, d’altra parte, sostengono che gli uccelli, le
piante, e perfino le acque abbiano il diritto di essere protette dalla
produzione d’energia e da altre attività umane. Dalla chiocciola al pidocchio
alla natura selvaggia nel suo insieme, tutto merita di essere protetto dalla
produzione di beni e servizi per l’umanità. Gli ambientalisti sostengono che
la natura si trovava in perfetto equilibrio prima dell’era moderna, e che
occorre porre rimedio al deleterio sviluppo economico umano ritornando ad un
livello di vita più primitivo…La decristianizzazione della politica ha quindi
prodotto un movimento ambientalista che non è solo anticapitalista, ma anche
neo-pagano. Per il paganesimo l’uomo è solo una parte della natura – non più
importante delle balene o dei lupi (e, in pratica, molto meno importante). Il
Cristianesimo e il Giudaismo, invece, insegnano che Dio ha creato l’uomo a
sua immagine e somiglianza e gli ha dato il dominio su tutta la Terra, che è
stata creata per l’uso dell’uomo e non come un’entità con un autonomo valore
morale. L’ordine naturale esiste per l’uomo e non viceversa; nessuna diversa
concezione è compatibile con un libero mercato fondato sulla proprietà
privata, e perciò con il libertarismo» (33). Lo stesso Rothbard, benché agnostico, negli ultimi anni
della sua esistenza sembrò essersi convinto che l’ateismo militante
rappresentasse un elemento estraneo alla dottrina libertaria, che rischiava
di intaccare la solidità dei suoi principi. Pur senza convertirsi, Rothbard
dichiarò verso la fine della sua vita di essere diventato un ardente
sostenitore del Cristianesimo, aderendo di fatto ad una visione culturale in
senso lato cattolica, come appare particolarmente evidente nella sua
monumentale storia del pensiero economico. In quest’opera Rothbard dimostra
di aver maturato una visione storica della Cristianità medievale ben diversa
da quella laico-illuminista, che descrive il Medioevo come un’epoca di
barbarie, superstizione, oscurantismo e oppressione. Per Rothbard invece il
Medioevo cattolico fu un periodo ricco e creativo della storia europea,
soprattutto grazie al fatto che quell’ingombrante istituzione che è lo Stato
moderno non aveva ancora avuto modo di crescere e svilupparsi (34). Come
ricorda Joseph Salerno, lo studio della storia aveva progressivamente
convinto Rothbard che la religione aveva giocato un ruolo enorme sia nella
politica americana sia nel pensiero economico. In particolare Rothbard, pur
essendo di origini ebree, riconobbe il ruolo positivo a sostegno della
libertà svolto in America dal Cristianesimo liturgico. Questo tipo di
Cristianesimo, impersonato dalla Chiesa Cattolica Romana – che a suo avviso
costituiva l’originale e permanente Chiesa Cristiana – enfatizza la salvezza
personale per mezzo della partecipazione alle liturgie ecclesiastiche, negando
che il Regno di Dio possa essere stabilito sulla Terra con i soli sforzi
dell’uomo. A differenza delle sette pietistiche del protestantesimo
americano, che tendono a essere millenariste, il cattolicesimo nega che la
seconda venuta del Messia dipenda dall’avvenuta fondazione di un Regno di Dio
sulla Terra, e perciò non impone ai suoi membri di purificare e salvare
l’intera umanità attraverso “l’azione sociale” (leggi: costrizione statale) (35). Le
vaste ricerche storiche di Rothbard lo avevano portato a concludere che tutte
le società sono inevitabilmente religiose e che l’irreligiosità su scala
sociale è impossibile e indesiderabile, perché una religione formale,
specificamente quella cristiana, è necessaria come naturale custode delle
regole morali tradizionali: norme che sono necessarie per rinforzare e
completare un codice legale liberale o libertario, al fine di permettere ad
una reale società di mercato di sopravvivere e prosperare. Perfino la
Germania nazista e l’URSS comunista, regimi il cui deliberato scopo era di
abolire la religione, riuscirono a sostituire il Cristianesimo solo con altre
forme di religione: rispettivamente, il paganesimo e il millenarismo
marxista. «A rischio di alienarmi i miei amici libertari atei – affermò al
riguardo Rothbard – mi sono progressivamente convinto che i conservatori
hanno ragione su un punto: che in ogni società vi è sempre una qualche sorta di
religione dominante. E se ad esempio il Cristianesimo viene denigrato e
rigettato, qualche altra orrenda forma di religione prenderà subito il suo posto:
sia essa il comunismo, l’occultismo New Age, il femminismo o il puritanesimo
di sinistra. Non c’è modo di aggirare questa verità fondamentale della natura
umana» (36).
I left-libertarians rimasero
prevedibilmente sbalorditi da Rothbard che difendeva il Cattolicesimo romano
per la sua importante e benefica influenza nelle vicende umane, e iniziarono
a inventare e spargere voci sulla sua (passata o imminente) furtiva
conversione al Cattolicesimo. A questi militanti anticristiani, incapaci a
suo dire di superare l’inevitabile incontro adolescenziale con la filosofia
“oggettivista” radicalmente atea di Ayn Rand, Murray replicò divertito:
«Sembra che per costoro aderire alla Chiesa Cattolica rappresenti il peggior
insulto che si può rivolgere a un nemico. Perché? Per quale motivo diventare
cattolici dovrebbe essere la peggiore disgrazia? Per quanto mi riguarda, non
penso che diventare cattolico equivalga a diventare un molestatore di
bambini; al contrario, la considero una decisione onorevole. Sembra che
costoro siano incapaci di credere che qualcuno possa apprezzare la Chiesa Cattolica
anche senza essersi convertito – o, ai loro occhi, plagiato: qualcosa di
simile a quanto accadeva nel film L’invasione
degli ultracorpi» (37). L’interesse
di Rothbard per la tradizione intellettuale cattolica si spiega invece con la
sua adesione alla tradizione filosofica aristotelico-tomistica, secondo la
quale esiste un ordine ontologico, una natura delle cose, che comprende anche
la natura umana. Del resto, come osservò egli stesso, i cattolici sono in
circolazione da molto più tempo dei randiani, e nel frattempo potrebbero
essere riusciti a risolvere uno o due problemini (38). Alla
luce di queste considerazioni si può comprendere più facilmente il sostegno
politico alla Destra Religiosa dato da Rothbard nei primi anni Novanta, che
tanto sconcertò i left-libertarians.
Lungi dal volere instaurare uno Stato teocratico abolendo la separazione tra
Stato e Chiesa, secondo Rothbard la Destra Cristiana si limitava a fare delle
battaglie difensive: «La maggior parte dei libertari pensa ai conservatori cristiani
negli stessi termini infami usati dai media di sinistra, se non peggio: crede
che il loro obiettivo sia quello di imporre una teocrazia cristiana, di
mettere fuori legge i liquori e altri mezzi di godimento edonistico, di far
entrare la polizia nelle camere da letto. Nulla potrebbe essere più lontano
dalla verità: i conservatori cristiani stanno solo cercando di difendersi da
un’élite progressista che usa gli apparati statali per attaccare e
virtualmente distruggere i valori, i principi e la cultura cristiani. Se
alcuni conservatori cristiani sono favorevoli a mantenere sulla carta delle
leggi sulla moralità sessuale per ragioni simboliche, non conosco nessun
gruppo cristiano che voglia imbarcarsi in una crociata per far applicare
queste leggi, o che voglia che gli agenti vadano a guardare sotto le
lenzuola. In queste materie vi sono ben pochi gruppi conservatori
proibizionisti; se il proibizionismo si affermerà in America, sarà dovuto sicuramente
a una misura voluta dai left-liberal,
allo scopo di migliorare la nostra “salute” e ridurre gli incidenti sulle
strade. Non c’è alcun gruppo cristiano che voglia perseguitare
l’omosessualità o l’adulterio» (39). Non è un caso che gli unici gruppi religiosi che nella
storia degli Stati Uniti abbiano cercato di mettere fuorilegge il vizio sono
stati i pietisti evangelici postmillenaristi nei primi decenni del XX secolo.
Dimostrando una straordinaria conoscenza delle più sottili sfumature delle
teologie cristiane, Rothbard non faceva mistero della sua avversione
culturale per il protestantesimo e del suo apprezzamento per il cattolicesimo.
Egli osservò che un cristiano coscienzioso cerca di conformarsi ad un’etica
personale e politica, ed è difficile comprendere come possa essere
utilitarista, nichilista o sostenitore dell’idea che la forza fa il diritto.
A Rothbard sembrava allora che ci fossero solo due possibili sistemi etici
genuini per un cristiano: il primo corrispondeva alla posizione della
Scolastica (cattolica o anglicana), nella quale la ragione umana ha le
capacità di scoprire le leggi naturali, mentre l’etica puramente teologica o
divinamente rivelata ha una parte molto piccola e separata, benché
importante, nel sistema. Il secondo sistema derivava dalla concezione
calvinista secondo cui la ragione umana è così corrotta che l’unica etica
praticabile, l’unica verità riguardo qualsiasi cosa, deve provenire esclusivamente
dalla rivelazione divina così come presentata nella Bibbia (40). Da
questo atteggiamento religioso dei calvinisti deriva quella perniciosa eresia
postmillenarista, ancora tanto influente nella vita politica americana soprattutto
tra le fila progressiste, che Rothbard chiamava Left Neo-Puritanism o Religious
Left. L’eresia postmillenarista considera dovere morale del buon
cristiano stabilire il millenario Regno di Dio sulla terra come precondizione
indispensabile alla seconda venuta del Messia sulla Terra (a differenza dei
premillenaristi, convinti che il Regno di Dio sorgerà solo dopo la seconda
venuta di Gesù Cristo). E poiché il Regno di Dio si caratterizza per
definizione come una società perfetta in cui non esiste più il vizio, si
capisce la foga con la quale la Sinistra Religiosa Puritana si impegni
politicamente nella lotta contro i liquori, il fumo o il cibo che fa
ingrassare. Rothbard ricorda ad esempio l’ostilità puritana cui dovettero
subire i “gaudenti” cattolici bavaresi immigrati in America per le loro
abitudini di andare a Messa vestiti di tutto punto, e di recarsi la domenica
pomeriggio nelle birrerie ad ascoltare le loro musiche folcloristiche. Gli yankees protestanti crearono una
scuola pubblica obbligatoria anche allo scopo di impedire ai cattolici
tedeschi di mandare i figli nelle proprie scuole parrocchiali. Hillary
Clinton e Woodrow Wilson, il presidente che sosteneva il proibizionismo e che
lanciò una crociata per stabilire il Regno di Dio su scala globale,
rappresentano per Rothbard due perfetti esempi di questo Neopuritanesimo di
sinistra, desideroso di modellare non solo gli Stati Uniti ma il mondo intero
secondo i propri sogni millenaristici (41). 5. Immigrazione, localismo e secessione
Un
altro tema dove le distanze tra paleolibertari e left-libertarians si sono notevolmente divaricate è quello
critico dell’immigrazione. La posizione classica del movimento libertario è
sostanzialmente favorevole alla libertà d’immigrazione, ma senza mai
sviscerare a fondo le implicazioni legate a questa scelta ideologica.
Genericamente, l’idea libertaria è che non deve essere la polizia statale ma
solo il mercato a regolare l’immigrazione. David Friedman e Walter Block, per
citare due tra i maggiori esponenti intellettuali del movimento libertario,
interpretano questa asserzione di principio chiedendo la completa apertura
delle frontiere nazionali agli immigrati che provengono dall’estero (42). I
paleolibertari fanno però notare che una società libertaria fondata sulla
proprietà privata non funzionerebbe affatto così: anzi, in un modello puro
anarco-capitalista dove tutta la terra è in proprietà privata di qualcuno
l’immigrazione sarebbe strettamente regolata dalle decisioni (di apertura o
di chiusura) dei rispettivi proprietari. Nell’importante saggio “Nazioni per
consenso: decomporre lo Stato nazionale”, Rothbard dichiara di aver
rimeditato l’intera questione, e di essersi convinto che, essendosi
oltretutto grandemente intensificati i problemi immigratori legati alla
presenza del Welfare State (che grava pesantemente sugli autoctoni) e
dell’invasione culturale (dato che l’immigrazione indiscriminata può portare
alla cancellazione della cultura indigena, come sta avvenendo negli Stati
meridionali degli USA, sempre più ispanizzati), il regime delle frontiere
aperte che esiste de facto negli
Stati Uniti si riduce ad un’apertura coercitiva operata dallo Stato centrale,
che non riflette genuinamente i desideri dei proprietari (43). Si
ritorna dunque al problema di come lo Stato debba gestire, in mancanza della
privatizzazione, le aree pubbliche e demaniali del territorio nazionale. I
libertari dovrebbero, come second best,
considerare le aree statali alla stregua di una proprietà di tutti e di
nessuno, secondo la regola comunistico-egualitaria propugnata dai left-libertarians, o come una sorta di
proprietà privata dei tax-payers residenti,
di fatto espropriata dalla classe politico-burocratica? Hans-Hermann Hoppe è
lo studioso paleolibertario che ha argomentato nella maniera più approfondita
e convincente la validità della seconda ipotesi. Mentre infatti la libera
circolazione di merci e capitali non può mai violare i diritti di
chicchessia, essendovi sempre il consenso di chi dà e di chi riceve, lo
stesso non può dirsi per la libera circolazione di persone. Gli uomini
infatti, a differenza delle merci e del denaro, dispongono di una propria
volontà e possono muoversi da soli. La libera circolazione delle persone può
dunque configurarsi come invasione in tutti i quei casi in cui è assente un
rapporto volontario tra le due parti: quando manca cioè il consenso di chi
riceve l’immigrato a casa propria. In tema di immigrazione, sostiene Hoppe,
la regola libertaria più corretta è “libertà d’accogliere, diritto di
escludere” (44). Questo
non significa che i libertari debbano sostenere le politiche restrittive degli
Stati in tema di immigrazione. In ogni nazione vi sono infatti categorie di
individui che desiderano più immigrazione (datori di lavoro, venditori di
case, solidaristi) e altre categorie che invece non ne desiderano affatto; vi
sono aree, come quelle residenziali o quelle già affollate, dove gli
immigrati non sono graditi, e altre aree disabitate, commerciali o
industriali nelle quali si cerca al contrario di attirare gente da fuori. È
chiaro quindi che una decisione presa centralmente non riesce a soddisfare in
maniera adeguata le diverse preferenze presenti tra la popolazione. Ancora
una volta le regola paleolibertaria di previsione dei probabili risultati del
mercato mediante la massima decentralizzazione possibile delle decisioni
sembra la migliore. L’immigrazione, secondo questo punto di vista, andrebbe
allora regolata al livello più locale possibile (di contea, di città, di
quartiere, di rione, di strada) proprio come avviene in quelle autentiche
realtà di “libertarismo applicato” che sono le gated communities americane, vere e prove privatopie (città
private) organizzate su basi condominiali (45). Questo
favore dei paleolibertari per le piccole dimensioni politiche li porta a
guardare con favore ai movimenti localisti e secessionisti, e a contrastare
con la massima decisione ogni tentativo di costruzione di Leviatani
sovranazionali, anche quando questi sono propagandati come necessari per
l’affermazione della “democrazia” o addirittura del “libero mercato”. Pur se per motivi diversi, Rothbard si trovò quindi
d’accordo ancora una volta con Pat Buchanan nel criticare gli accordi
multilaterali di “libero scambio” come il Nafta, che prevedeva la creazione
di un mercato unico americano, dal Canada alla Patagonia. Mettendo in difficoltà
non pochi ambienti intellettuali libertari che avevano spinto per la
conclusione dell’accordo, Rothbard faceva notare che il vero libero commercio
non richiede anni di negoziazioni tra governi, né codicilli, accordi e compromessi.
Se il governo americano voleva davvero il libero scambio, poteva semplicemente
tagliare le quote e le tariffe, abolire la Commissione Internazionale per il
Commercio, le leggi antidumping e tutte le altre leggi protezionistiche che
danneggiano i consumatori americani sostenendo produttori inefficienti.
Quello che in verità i governi miravano mediante questi negoziati governativi
sul commercio non era affatto il libero mercato, ma il mercantilismo. Il
risultato del Nafta, così come del Gatt o del WTO, è quello di trasferire il potere
decisionale dal governo americano ad un nuovo governo sovranazionale
dell’economia, completamente irresponsabile e incontrollabile. Se anche
qualche tariffa venisse più o meno ridotta, i suoi vantaggi sono poca cosa
rispetto alla marcia verso un supergoverno regionale o mondiale. Il trattato
Nafta prevedeva ad esempio che alle tre nuove commissioni intergovernative
istituite fossero attribuiti poteri di comminare sanzioni alle imprese che
non rispettassero determinate regolamentazioni ambientali o del lavoro. Rothbard
aveva probabilmente ben chiaro quanto era avvenuto con la Comunità Europea,
che in un primo tempo era stata presentata come una semplice zona di libero
scambio, ma col tempo si è trasformata in un vero e proprio Superstato con
poteri di governo. Non si era tenuto conto che l’autorità che ha il potere di
aprire un mercato ha anche il potere di regolamentarlo, e che prima o poi
userà questo potere nella maniera più estesa possibile. Gli euroburocrati di
Bruxelles, in quella che doveva essere un’area di libero scambio, sono
infatti già da tempo al lavoro per “armonizzare” a livello continentale le
tasse, la legislazione e i “diritti” sociali. Non c’è alcun dubbio che gli
stessi poteri verranno pretesi ed esercitati anche dalle Commissioni sovranazionali
istituite dal Nafta, dall’OCSE o dal WTO (46).
Alcuni left-libertarians, osserva Rothbard,
replicano agli attacchi paleolibertari contro il governo internazionale
dell’economia dicendo che solo degli xenofobi o degli statalisti possono
preoccuparsi della “sovranità nazionale”, dato che nella teoria libertaria
solo l’individuo è sovrano, e non la nazione. La pochezza di questa argomentazione
per Rothbard era evidente, dato che per ogni libertario dovrebbe essere quasi
autoevidente che aumentare l’estensione e il livello del governo può solo
aumentare lo scopo e l’intensità del dispotismo, e che più alto e lontano un
governo diventa, minori sono le possibilità di essere controllato, limitato o
rimosso dalla popolazione assoggettata (47). 6. Conclusioni
Si
possono così sintetizzare gli obiettivi che Murray N. Rothbard, Lew Rockwell,
Hans-Hermann Hoppe, Ralph Raico e altri studiosi di spicco si sono proposti
di realizzare all’inizio degli anni Novanta imprimendo al movimento
libertario una svolta in senso “paleo”: ricollegarsi idealmente alle radici
della Old Right, la Destra
americana antirooseveltiana; ridare forza all’isolazionismo nell’epoca
post-guerra fredda; tutelare le comunità locali dalle pretese
centralizzatrici del governo federale o delle istituzioni sovranazionali;
affermare l’importanza della battaglia culturale in difesa dei valori
tradizionali che permeavano la Vecchia Cultura americana prima della Rivoluzione
Culturale degli anni Sessanta; difendere l’eredità culturale della civiltà
occidentale (“l’unica che abbiamo”, secondo Rothbard) dall’aggressione
multiculturalista e politically correct;
contestare la proliferazioni di privilegi statali concessi ad ogni gruppo che
venga ufficialmente designato come “minoranza oppressa”; riconoscere
l’importante ruolo giocato dalla religione cristiana, e particolarmente della
filosofia cattolica, nella fondazione delle basi morali della nostra civiltà;
sottolineare lo stretto collegamento che esiste tra le istituzioni di una
società libertaria (mercati, diritti di proprietà, contratti, libertà
individuali, libertà d’impresa) e i valori culturali tradizionali, famigliari
e borghesi sottostanti; mettere in luce, correlativamente, il nesso che lega
i valori controculturali, nichilisti, edonisti e libertini che celebrano
l’irresponsabilità individuale con l’espansione dello statalismo e
l’edificazione dell’assistenzialismo “dalla culla alla bara”. Sul
piano strategico l’opzione paleolibertaria si traduce nella difesa
“populista” dei modi di vita della middle-class
dagli attacchi che subisce quotidianamente dalle élite politiche e
intellettuali dominanti nel ceto politico e giudiziario, nelle burocrazie
legate al Welfare State
(funzionari, assistenti sociali), nei media, nel cinema, nel mondo artistico,
nelle università, nella scuola pubblica. Nella società i paleolibertari
trovano invece alleati in gruppi disparati come i sostenitori dell’home-schooling, i cattolici tradizionalisti,
i sostenitori dei diritti di portare armi, le milizie locali, i secessionisti
del Sud, i giovani Repubblicani, i difensori dei Land’s Right (i diritti di proprietà terrieri minacciati dalle
regolamentazioni e dagli espropri statali), i fautori del ritorno ad una
moneta aurea che criticano le alchimie monetarie operate dalla Fed e delle
élite bancarie e finanziarie, gli isolazionisti di destra e di sinistra, i
paladini dei diritti degli Stati contro il governo federale, i
“cospirazionisti” che denunciano le trame nascoste tendenti ad edificare un
Nuovo Ordine diretto da un governo mondiale e così via. L’improvvisa
morte di Rothbard nel 1995 ha rappresentato un duro colpo per i paleolibertari,
ma non ne ha indebolito lo spirito combattivo. Oggi infatti i paleolibertari,
anche per aver sfruttato al meglio le potenzialità di internet, sono un
movimento intellettuale in rapida crescita. Oggi tocca ai paleo (libertari e
conservatori) il principale ruolo di critica al big government e alla politica “imperiale” del governo di Washington
ispirata dai neoconservatori e dai democratici, in nome dello spirito
originario della Old Republic
americana. Note (1) Murray
N. Rothbard, Per una nuova libertà (Macerata:
Liberilibri, 1996) e Murray N. Rothbard, L’etica
della libertà (Macerata: Liberilibri, 1996). Sul pensiero politico e
filosofico di Murray N. Rothbard si veda Luigi Marco Bassani,
“L’anarco-capitalismo di Murray N. Rothbard”, introduzione a Murray N.
Rothbard, L’etica della libertà,
cit.; Raimondo Cubeddu, Atlante del
liberalismo (Roma: Ideazione, 1997) pp. 101-112; Roberta A. Modugno, Murray N. Rothbard e la teoria
anarco-capitalista (Soveria Mannelli: Rubbettino, 1997); Carlo Lottieri, Il pensiero libertario contemporaneo
(Macerata: Liberilibri, 2001) pp. 51-75; Paolo Zanotto, Il movimento libertario americano agli anni sessanta ad oggi: radici
storico-dottrinali e discriminanti ideologico-politiche (Siena:
Dipartimento di scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, 2001);
Enrico Diciotti-Carlo Lottieri, Il
libertarismo di Murray N. Rothbard. Un confronto (Siena: Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali, 2003); Nicola Iannello,
“Un’immacolata concezione della libertà” in Ideazione, n. 1/2003, pp. 182-196; Piero Vernaglione, Il Libertarismo. La teoria, gli autori, la
politica (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2003) pp. 197-297. (2)
Sull’isolazionismo libertario: Carlo Lottieri, “No Welfare, No Warfare” in Ideazione, n. 3/2001, pp. 197-211;
Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro, “Gli Stati Uniti sono contro la guerra” in Il Domenicale, sabato 8 marzo 2003,
p. 6; Justin Raimondo, “La terra della libertà. L’anti-interventismo nella
tradizione della rivoluzione americana” in élite (Soveria Mannelli: Rubbettino, n. 4/2003) pp. 38-84; Paolo
Zanotto, “I costi della guerra. Realismo ed etica nel pensiero libertario
americano” in élite, cit., pp.
85-111. (3) Murray N. Rothbard, “Frank Meyer and
Sidney Hook”, Rothbard-Rockwell-Report,
January 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard (Burlingame, The Center for
Libertarian Studies, 2000) pp. 20-21. Sul fusionismo si veda anche il
documento “Storia esemplare di un conservatorismo progressista”, a cura di
Marco Respinti in Il Domenicale,
sabato 22 novembre 2003, pp. 6-7. (4) Llewellyn H. Rockwell, “The Case for
Paleolibertarianism” in Liberty,
Port Townsend, Liberty Publishing, n. 3, 1990, trad. it. “Il manifesto
del paleolibertarismo” in Enclave.
Rivista Libertaria (Treviglio: Leonardo Facco Editore, n. 17, 2002). (5) Hans-Hermann Hoppe, Democracy: The God That Failed. The
Economics and Politics of Monarchy, Democracy, and Natural Order (New
Brunswick-London, Transaction, 2001), di prossima pubblicazione in Italia per
Liberilibri. (6) Justin Raimondo, An Enemy of The State: The Life of Murray N. Rothbard (Amherst:
N.Y., Prometheus, 2000). (7) Murray N. Rothbard, “Right-Wing
Populism”, Rothbard-Rockwell-Report,
January 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., pp. 40-41. (8) John V. Denson (ed.), The Costs of War. America’s Pyrrhic
Victories (New Brunswick-London: Transaction, 1994). (9) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October
1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., pp. 289 ss. (10) Llewellyn H. Rockwell, Introduction
to Llewellyn H. Rockwell (ed.), The Irrepressible
Rothbard, cit., p. XV. (11) Joseph E. Salerno, in Murray N. Rothbard: In Memoriam (Auburn: Ludwig von Mises Institute,
1995) pp. 79-81. (12)
Joseph Stromberg, “Rothbard contro Rothbard: un falso dilemma” in Ideazione, n. 1/2003, pp. 212-217. (13) Murray N. Rothbard, “Tolerance, or
Manners?”, Rothbard-Rockwell-Report,
September 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., pp. 260 ss. (14) Murray N. Rothbard, “Right-Wing
Populism”, Rothbard-Rockwell-Report,
January 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 41. (15) Murray N. Rothbard, “Big-Government
Libertarians”, Rothbard-Rockwell-Report,
November 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 102. (16) Murray N. Rothbard, “Hunting the
Christian Right”, Rothbard-Rockwell-Report,
August 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 272. (17) Murray N. Rothbard, “Hunting the Christian
Right”, Rothbard-Rockwell-Report,
August 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 277. (18)
Murray N. Rothbard, “Education: Rethinking Choice”, Rothbard-Rockwell-Report, May 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell
jr (ed.), The Irrepressible Rothbard,
cit., pp. 72-74. (19) Murray N. Rothbard, “Hunting the
Christian Right”, Rothbard-Rockwell-Report,
August 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 277. (20) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October
1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 290. (21)
Murray N. Rothbard, “PC Cinema: Psychobabble Gets Nasty!”, Rothbard-Rockwell-Report, September,
1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 419. (22) Murray N. Rothbard, “Guilt
Sanctified”, Rothbard-Rockwell-Report,
July 1991, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 259. (23) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October
1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 290. (24) Murray N. Rothbard, “Kulturkampf!”, Rothbard-Rockwell-Report, October
1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 293. (25)
Gertrude Himmelfarb, The Demoralization
of Society. From Victorian Virtues to Modern Values, New York, Vintage,
1994, pp. 224-225. (26) Hans-Hermann Hoppe, Democracy. The God that Failed, cit.,
pp. 195 ss. (27)
Gary Becker, “Gli effetti perversi dei sistemi a ripartizione” in Biblioteca della Libertà, n. 128,
gennaio-marzo 1995, p. 11. (28) Llewellyn H. Rockwell, “To Repair the
Culture, Free the Market” in The
Freeman, March 1994, p. 114, trad. it. “Rigenerare i valori
culturali, liberare il mercato” in élite
(Soveria Mannelli: Rubbettino n. 3/2003). (29) Per
un confutazione di questa tesi si veda Carlo Lottieri, Denaro e Comunità (Napoli: Guida, 2001). (30) Hans-Hermann Hoppe, Democracy. The God that Failed, cit.,
p. 194 s. (31) Patrick J. Buchanan, The Death of the
West” (New York: St. Martin Press, 2002). Sui pregi (la diagnosi) e i
difetti (la prognosi) del libro di Buchanan, si veda la recensione di
Hans-Hermann Hoppe “Ridare vita all’Occidente” in Enclave (Treviglio: Leonardo Facco Editore, n. 15/2002). (32) Murray N. Rothbard, “A Strategy for
the Right”, Rothbard-Rockwell-Report,
January 1992, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 19. (33)
Llewellyn H. Rockwell, “Il manifesto del paleolibertarismo”, cit., p. 7. (34) Per
un approfondimento degli aspetti libertari del Medioevo mi permetto di rinviare
a: Guglielmo Piombini, Prima dello
Stato. Il Medioevo delle libertà
(Treviglio: Leonardo Facco Editore, 2004, di prossima uscita). Il libro
contiene anche una serie di interventi pro e contro di Pietro Adamo, Raimondo
Cubeddu, Carlo Lottieri, Marco Respinti. (35) Joseph E. Salerno, in Murray N. Rothbard: In Memoriam, cit.,
p. 79. (36) Murray N. Rothbard, “The Great Thomas
& Hill Show: Stopping the Monstruos Regiment”, Rothbard-Rockwell-Report, December 1993, ora in Llewellyn H.
Rockwell, jr. (ed.), The Irrepressible
Rothbard, cit., p. 365. (37)
Citato da Joseph E. Salerno, in Murray
N. Rothbard: In Memoriam, cit., p. 79. (38)
Joseph Stromberg, “Rothbard contro Rothbard: un falso dilemma”, cit., pp.
216-217. (39) Murray N. Rothbard, “The Religious
Right: Toward a Coalition”, Rothbard-Rockwell-Report,
February 1993, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 26. (40) Murray N. Rothbard, “Kingdom Come”,
in Liberty (Port Townsend: Liberty
Publishing, n. 3, January 1990) p. 45. (41) Murray N. Rothbard, “America’s Most
Persecuted Minority”, Rothbard-Rockwell-Report,
February 1993, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 269, trad. it. “La
minoranza più perseguitata d’America”, in Lord Harris of High Cross &
Judith Hatton, La libertà in fumo.
Quando il proibizionismo nuoce gravemente alla salute (Treviglio:
Leonardo Facco Editore, 2003) pp. 103-107. (42)
David D. Friedman, “Senza assistenzialismo niente immigrazione”, in Enclave. Rivista Libertaria (Treviglio:
Leonardo Facco Editore, n. 5, 1999) pp. 26-27,; Walter Block, “A Libertarian
Case for Free Immigration” in Journal
of Libertarian Studies (Burlingame: The Center of Libertarian Studies n.
13/2, 1998) pp. 167-186. (43)
Murray N. Rothbard, “Nazioni per consenso. Decomporre lo Stato nazionale”, in
Ernst Renan – Murray N. Rothbard, Nazione
cos’è (Treviglio: Leonardo Facco Editore, 1996) pp. 44-53. (44)
Hans-Hermann Hoppe, Abbasso la
democrazia! L’etica libertaria e la crisi dello Stato (Treviglio:
Leonardo Facco Editore, 2000) pp. 58-72. (45)
Sull’argomento mi sia concesso di rinviare a Guglielmo Piombini, La proprietà è sacra (Bologna: Il
Fenicottero, 2001) pp. 51-82. (46) Murray N. Rothbard, “Stop Nafta!”, Rothbard-Rockwell-Report, October
1993, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 142 ss. (47) Murray N. Rothbard, “Big-Government
Libertarians”, Rothbard-Rockwell-Report,
November 1994, ora in Llewellyn H. Rockwell jr (ed.), The Irrepressible Rothbard, cit., p. 110. |