Etica & Politica / Ethics & Politics, 2003, http://www.units.it/~dipfilo/etica_e_politica/2003_1/2_varia.htm Valore, piacere, utilità: un’indagine di A. Lambertino Dipartimento di Filosofia, Università di Trieste Quali sono le ragioni che dovrebbero condurti ad agire? La conoscenza di determinati stati del mondo? Ma ti è sufficiente sapere come le cose stanno – ammesso sia mai possibile, ammesso cioè che tu sia in grado di avere un’informazione rilevante su come le cose stanno – per avere delle buone motivazioni per agire, per seguire cioè un determinato corso di azione anziché un altro? La nostra tradizione di pensiero a lungo ha coltivato l’idea che vi fosse una priorità del sapere sul volere. Le forme di questo intellettualismo etico sono state molteplici, e questo è in certo senso inevitabile, poiché l’idea di «come le cose stanno» a molti è sembrata nient’affatto univoca. La cosa apparentemente strana è che nel momento in cui i paradigmi conoscitivi sono divenuti più sicuri – a partire dalle rivoluzioni scientifiche –, almeno nella percezione comune, la scissione fra ontologia ed etica non ha fatto che ampliarsi. In ambito teorico abbiamo infatti assistito, almeno dal XVIII secolo in avanti, alla progressiva erosione dell’intellettualismo etico, inteso come nodo di intersezione fra le nostre informazioni sul mondo e le nostre conoscenze sul bene. Questa erosione è stata anche il risultato dell’estensione di un altro paradigma, quello dell’utilità attesa. Se le ragioni che possono condurti a compiere un’azione, si dice, possono essere, naturalmente, le più varie, tuttavia, in un qualche senso (ad esempio sulla base della moralità di sfondo che tu accogli), quello che tu dovresti attenderti è che i risultati dell’azione che farai massimizzeranno l’utilità che tu ti aspetti come premio per aver scelto proprio quel particolare corso d’azione anziché un altro. Quale altra ragione, del resto, dovrebbe condurti a compierla? L’enorme successo della teoria dell’utilità attesa come spiegazione razionale dell’azione si motiva in ragione della semplicità di questa posizione. Anzi, il suo successo è parso ad alcuni così completo da proporla senz’altro come teoria adeguata della razionalità pratica via l’identificazione fra razionalità e razionalità strumentale: poiché sei tu ad essere, in primo luogo, il giudice dei tuoi fini, il ruolo che la razionalità gioca nelle tue scelte non può essere altro che la scelta del mezzo più adeguato per realizzarli. «Razionalità» e «razionalità strumentale» divengono quindi dei sinonimi che possono essere sostituiti, salva veritate, in tutti i contesti rilevanti – descrittivi e predittivi – della teoria dell’azione. Questa teoria era stata inizialmente elaborata all’interno delle scienze economiche come teoria predittiva per situazioni ideali altamente caratterizzate. Abbracciarla come teoria dell’azione razionale significa già ammettere che il comportamento risponde sempre – forse non nei dettagli, ma almeno nelle sue linee essenziali – all’ambito primitivo nel quale la teoria è stata elaborata. Una linea influente di pensiero, che fa capo sostanzialmente a Hume, sembrerebbe negare la stessa possibilità teorica di questo progetto. «La ragione è e deve essere la schiava delle passioni» è uno dei mantra più frequentemente ripetuti dalla critica humeana. Si noti che questa è precisamente una delle possibili premesse di una teoria strumentale della razionalità, che non giunge però affatto a una teoria unificata della ragione nell’azione, ma ne afferma, dietro un nome unico, l’irriducibile pluralità. Un’altra linea di pensiero, per la quale si può individuare in Spinoza uno dei mentori più influenti, identifica semplicemente ragione e conoscenza. Per questa linea di pensiero agire razionalmente significa agire in accordo con la migliore conoscenza disponibile della realtà per noi rilevante. Secondo questa tradizione, dunque, una teoria unificata della ragione nell’azione sembra possibile sin da ora, anche se, almeno nella formulazione di Spinoza, sembra essere così esigente da poter essere patrimonio di pochi (sebbene Spinoza abbia indicato anche dei correttivi di ordine socio-politico a questa situazione). Anche per Spinoza, tuttavia, agire secondo ragione, poiché significa per l’agente perseguire nel proprio essere, può essere considerato come una forma di massimizzazione dell’utile. L’utile, tuttavia, non è che un altro nome, divenuto nel tempo più rassicurante, del piacere. Questa identificazione era stata alla base della teorizzazione utilitaristica classica, che della teoria dell’agire strumentale è la fonte più autorevole all’interno della modernità. Per altre tradizioni di pensiero, che dalla modernità si dipanano, pare, invece, esserci qualcosa di sconveniente ad accostare valore e piacere – mentre l’aplomb teorico sembrerebbe mantenersi più facilmente quando si parla di valore e utilità -. C’è sempre il sospetto che il piacere sia l’inclinazione, il meramente soggettivo, importante forse per un’antropologia dal punto di vista pragmatico, ma irrilevante dal punto di vista etico. Ritengo che fosse necessario l’interesse di uno studioso che ha attraversato sia i territori del formalismo etico (Kant) sia territori di confine con l’etica (Freud) per interessarsi nuovamente, in maniera spregiudicatamente esplicita, del tema del piacere e delle sue relazioni con il valore. A. Lambertino (Valore e piacere, Milano, Vita & Pensiero, 2001, pp. 231, d’ora in poi indicato come VP, seguito dall’indicazione delle pagine) si muove in maniera apparentemente minimalista all’interno di questo territorio. L’impianto della sua ricerca è storico e Lambertino aggiunge che si tratta di un’indagine che non pretende esaustività. Tuttavia, in indagini di questo genere non credo che la cosa significativa sia la completezza – anche se l’ampio excursus storico-teorico di Lambertino è di prima qualità, così come di prima qualità è la chiarezza della scrittura –, quanto, piuttosto, le tesi di sfondo che guidano l’indagine e che suggeriscono nuove linee tematiche. Che queste siano raggiunte a partire da discussioni testuali e da interpretazioni di pensatori accreditati poco importa. In fondo, è parte della tradizione del pensiero occidentale che il confronto con i colleghi sia uno dei modi di praticare ciò che ci siamo abituati a chiamare filosofia. In questa nota cercherò di trattare sinteticamente soltanto quattro dei molti temi affrontati da Lambertino, temi che a me paiono centrali: a) la posizione di Kant; b) quella di Nietzsche; c) quella di Freud; d) la posizione finale di Lambertino stesso. Preliminarmente, è da notare che non sfugge a Lambertino che i problemi delle relazioni fra valore e piacere vanno inquadrati anche dal lato più generale della problematizzazione cognitiva delle emozioni. Come si diceva, la parte della nostra tradizione di pensiero che è accomunata da un generale intellettualismo etico ha avuto un atteggiamento cognitivamente svalutativo nei confronti delle emozioni – e a fortiori del piacere -, ma tale atteggiamento non è stato proprio solo di quella tradizione. Ciò è accaduto anche quando l’enfasi è stata posta sul valore in quanto realizzantesi nella legge della moralità, e la legge è stata concepita come possibilità di universalizzazione, con un recupero, in definitiva, anche di determinate istanze cognitive, individuate non sul versante dell’adeguazione al reale, ma su quello della coerenza argomentativa (sarà questa insistenza sulla coerenza argomentativa a consentire il non cognitivismo oggettivistico di Hare, ad esempio). Questo atteggiamento è ben esemplificato dalla filosofia morale di Kant e dalla scissione fra moralità e vita emotiva che la filosofia trascendentale statuisce. Lambertino, che di Kant è sicuro e fine esegeta, non manca di notare che ci possono essere delle sfumature interpretative che è importante sottolineare, ad integrazione di questa descrizione generale del trascendentalismo kantiano. Ad esempio, è certo che nei motivi determinanti l’agire morale non deve entrare nulla che abbia a che fare con le inclinazioni soggettive e con il piacere; d’altra parte, agendo moralmente ci si rende degni di felicità, per cui la presenza di una consapevolezza gioiosa accanto all’agire morale può essere un indice secondario dell’adempimento della moralità (VP, pp. 98-101). Resta inteso che si tratta per noi, esseri razionali imperfetti, di un indice del tutto presuntivo, né necessario né sufficiente, dell’adempimento del dovere – mentre in Dio la coincidenza di virtù e felicità non è che un altro nome della santità. In altre parole, «la presenza del piacere è del tutto indifferente, non solo per la costitutività del fenomeno morale, ma anche per la sua completezza. Se talora viene inculcata, in Kant, la presenza del piacere, sempre in una funzione statica (mit) e non dinamica (aus), questo avviene per un’esigenza negativa, solo perché la sua assenza (cioè la tristezza) potrebbe indurre alla trasgressione della legge, per cui anche la gioia concomitante dovrà essere ‘negativa’ e non ‘positiva’. Come il timore servile tradisce l’odio per la legge, così l’agire con piacere traduce il rispetto per essa. Agire con piacere quindi non significa altro che agire efficacemente per il puro rispetto della legge» (VP, p. 100). Tutto questo però non si traduce in una certezza positiva del soggetto che sente di aver agito conformemente alla legge; anzi: è piuttosto un sentimento di ripugnanza verso le proprie pulsioni, in quanto opposte al sentimento del dovere, che mi avvia a una sorta di conferma di aver agito moralmente. Ma si tratta ancora soltanto di una conferma analogica: nella moralità non c’è una facoltà di intuizione intellettiva che mi informi sulla esistenza effettiva dell’oggetto morale. Al massimo, posso interpretare il dissidio psicologico fra pulsioni e dovere, dove questo dissidio si manifesti a favore del dovere, come possibilità della moralità, mentre, al contrario, dovrei nutrire dei dubbi sulla presenza del sentimento di adempimento del dovere unito a una sensazione di gioia. L’umanità rimane per Kant un legno storto che non potrà mai essere raddrizzato e, quindi, un atteggiamento di scetticismo sulla possibilità di comportarsi moralmente, se indulge al pessimismo antropologico, è, dal suo punto di vista, sin troppo giustificato. Sono note le critiche che sono state mosse a questa interpretazione della vita morale. Volta a volta, la si è accusata di essere formalistica, pietistica – e quindi non universale –, troppo esigente, distante dalla nostra effettiva esperienza morale, e troppo lontana dalla comprensione della fragilità umana. Non è affatto chiaro, ad esempio, perché l’esclusione delle passioni, delle emozioni, del piacere dall’ambito della vita morale dovrebbe avere quella portata necessitante rispetto al problema della fondazione della prospettiva morale. Non fa parte di questa prospettiva anche il fatto che noi non siamo in grado di fare astrazione da ciò che ci costituisce, innanzi tutto e per lo più? E le nostre capacità cooperative, che spesso si traducono in atti eticamente rilevanti, hanno davvero bisogno di mettere tra parentesi la nostra capacità di benevolenza, ossia quella che rimane un sentimento (un’emozione) sociale? In questa prospettiva, il piacere, in quanto parte della motivazione ad agire socialmente bene, potrebbe rivestire un significato evolutivo, come in effetti pensava Hume, ed eliminarlo dalla teoria dell’azione ci lascerebbe unicamente con spiegazioni monche. Si possono, tuttavia, ottenere spiegazioni monche o cattive spiegazioni non soltanto negando, ma anche enfatizzando il ruolo del piacere nella motivazione. È questo il caso di Nietzsche, al quale Lambertino dedica pagine assai illuminanti. A Lambertino non sfugge la dimensione prettamente antropologica del pensiero nietzscheano – e questa caratterizzazione potrebbe essere vista come una garbata polemica nei confronti di talune interpretazioni più marcatamente metafisiche –, come non manca di sottolineare aspetti contraddittori del procedere di Nietzsche; ad esempio, il fatto che il progetto di svelamento antropologico della motivazione morale come volontà di potenza non si accorda con il suo relativismo conoscitivo, o, ancora, che il suo marcato biologismo, che gli derivava dalla cultura dell’epoca, non è molto in sintonia con il paradigma dell’artista come creatore di significati. Quello che forse Lambertino non sottolinea, a mio modo di vedere, in maniera adeguata è che il pensiero di Nietzsche non è tanto importante per la novità concettuale delle sue soluzioni, quanto per la penetrazione culturale – avvenuta del resto a più riprese, con alti e bassi – nella cultura europea. Questa è accaduta, io credo, non per meriti intrinseci, ma piuttosto perché il vitalismo di Nietzsche si coniugava a uno stile letterario, che lo rendeva capace di successo, dapprima presso le élites piccolo-borghesi della prima metà del secolo trascorso, prive di modelli di riferimento, e poi perché si è accoppiato bene con la crisi dell’intellighentzia di sinistra, che ha creduto di vedere nel mantra nietzscheano che tutto è interpretazione chissà quale prospettiva di liberazione, al di là di quella personale di autori che giocano con le parole in insondabili saggi molto venduti, benché forse non troppo letti. Il contributo in termini di conoscenza della filosofia di Nietzsche a me pare molto discutibile, se non inesistente. Narrerò un breve aneddoto, interessante per comprendere gli esiti di quel mantra: a un seminario universitario, alcuni anni fa, dove il relatore era un emergente nietzscheologo e derridologo, mi è capitato di chiedere se l’asserita onnipervasività dell’interpretazione doveva condurci ad affermare che, poiché qualcosa esiste solo quando entra nel gioco dei nostri giudizi, ad esempio, i neuroni sono reali solo da quando ne parliamo. Per nulla imbarazzato, il relatore rispondeva che le cose stavano effettivamente in quel modo. Ma come glossa Lambertino «il relativismo gnoseologico assoluto non è che una paradossale, tragica modalità di assolutismo gnoseologico. Come lo scetticismo assoluto, anch’esso si autonega per il fatto stesso che si autopone: chi afferma che non è possibile conoscere o che ogni conoscenza è soltanto relativa al soggetto conoscente afferma infatti una proposizione che ha l’ambizione di essere vera, di indicare alcunché e non il suo contrario» (VP, p 113). Il fatto è che questa idea, effettivamente presente in Nietzsche, non si declinava in un panalezeismo universalistico conseguente e coerente, perché coloro che, nietzscheanamente, interpretano non sono indiscriminatamente tutti gli uomini, ma soltanto alcuni fortunati che hanno accesso alle risorse gnoseologiche e materiali per operare quella trasmutazione dei valori tanto cara a Nietzsche, quanto sempre imprecisamente e auroralmente vagheggiata. Certo, l’interpretazione è al servizio del piacere, ma questo piacere non è quello delle masse, volgari e debilitate, bensì quello di élites aristocratiche, le quali possono anche usare dei valori attualmente accettati nel perseguire gli scopi della propria volontà di potenza. Questo aristocraticismo è stato in Nietzsche sia vaga elevatezza intellettuale sia biologismo. Questa ultima confusione non è, a mio modo di vedere, che un corollario in qualche modo necessario di un pensiero olistico che rimane vittima di se stesso. Anche la teoria – ma sarebbe meglio chiamarla visione – dell’eterno ritorno dell’identico è vittima di uno stesso errore olistico. Mentre assolutizza il tempo presente, ignora una cosa così ovvia da essere fondamentale: che il presente possiede per noi significato perché è sempre illuminato da un progetto. Il presente a sé stante, concepito in maniera irrelata, semplicemente non esiste. Del resto, anche la decisione di considerare ogni istante del presente come se avesse in sé un valore tale da poter desiderare di riviverlo in eterno, non è che un altro modo di indicare un diverso progetto di vita. Che il piacere inteso come dignità dell’eguale valore di ogni istante di tutto il tempo umano debba divenire il sostrato normativo di un antropologia finalmente umana, è una idea del tutto ingenua, se non estremamente pericolosa, e giustificativa dell’esistente – come si diceva una volta. Ingenua, perché non c’è motivo di pensare che, una volta che tutti avessero adottato la visione dell’eterno ritorno dell’eguale, l’umanità starebbe meglio; giustificativa dell’esistente, perché potrebbero continuare a stare meglio solo alcuni. Perché dovrei essere indotto a non sfruttare popolazioni più povere, a bombardare i miei nemici, a favorire i miei amici? Perché tutto ritorna? Mi sembra una giustificazione un po’ povera. Ritengo che nulla di ciò che ci è trasmesso da Nietzsche si strutturi in una teoria normativa coerente o originale – le sue affermazioni apparentemente più scandalose si possono trovare sinteticamente espresse da ciò che ci è tramandato del pensiero di Trasimaco –; l’importanza del suo pensiero risiede tutta nella sociologia dei fenomeni culturali (il che, per altro, ne giustifica anche la trattazione critica). Altre indagini sono di portata ben più decisiva per darci un quadro descrittivamente e normativamente più adeguato alla nostra realtà. Esemplare è, in questo senso, la ricognizione che Lambertino dedica al pensiero di Freud. Le istanze descrittive della psicoanalisi freudiana sono così ovvie perché sono la base della pratica clinica, ma questa stessa pratica, nella misura in cui ha per obiettivo il benessere del paziente, la sua ritrovata capacità di stare in un mondo che non dipende, se non in piccola parte, da lui e dai suoi desideri, ha anche una evidente dimensione normativa. Questa dimensione è un compito, ossia la costruzione di un armonia nell’io fra pulsioni libidiche, indirizzate alla ricerca del piacere, e motivazioni ad agire che derivano sia dal principio di realtà sia dal nostro mondo morale. Infatti, «dal punto di vista clinico-psicoanalitico […], come si dà una nevrosi per una eccessiva preponderanza delle istanze morali, così si dà una nevrosi dovuta a una indiscriminata condiscendenza alle pulsioni della libido. Questa seconda modalità di nevrosi non è meno carica di conflittualità della prima. La ragione di ciò sarebbe da riporre in un principio di carattere psicoanalitico, secondo cui, se la libido non incontra ostacoli, l’amore diviene ‘privo di valore’ e la vita ‘vuota’, fino al punto che una libertà sessuale ‘illimitata’ è da ritenere nociva non meno di una sua continua repressione e frustrazione» (VP, p. 137). Si sbaglierebbe a ritenere questa istanza di armonia qualcosa di così scontato da non doverla richiamare – cosa che Lambertino, nel suo stile asciutto e sobrio, del resto, fa con molta parsimonia –. Se, infatti, riflettiamo brevemente su quali sono alcune fonti di valore nelle nostre società, credo che l’assoluta centralità di questa ultima notazione di Lambertino non possa che essere accresciuta. Le fonti normative per noi sono molte e di molti generi: la famiglia, la scuola, i propri maestri – per chi ha avuto la fortuna di averli –, la religione. Queste fonti normative plasmano non solo le nostre motivazioni, ma anche insiemi specifici di desideri. La coerenza fra motivazioni e desideri è tradizionalmente considerata dai filosofi morali una delle cifre dell’etica. Se è questa una delle principali caratteristiche della normatività, allora dobbiamo concludere che noi, figli della modernità, viviamo in un perenne squilibrio motivazionale. Questo squilibrio è sancito nella nostra esperienza di cittadini delle società affluenti dalla presenza onnipervasiva della pubblicità. Nessuno di noi pensa che dal momento che indossa quel particolare tipo di scarpe riuscirà ad andare a canestro come Michael Jordan, o che bevendo quel particolare aperitivo riuscirà ad essere più seduttivo dopo una giornata di lavoro – passata magari in una corsia di ospedale, o a rifare un manto stradale, oppure in un interminabile consiglio di Facoltà –; eppure queste sono tecniche che vengono continuamente usate, evidentemente in virtù della loro efficacia nell’interagire con il nostro fondo libidico infantile. Il principio di piacere ci seduce continuamente, perché la pretesa di ottenere tutto ciò che vogliamo ci rimanda al tempo senza tempo dell’infanzia – che è la secolarizzazione dell’ideale edenico –; il risultato effettivo è però la patologia del desiderio e non la sua realizzazione. In questo senso, il principio di realtà è un’esigenza di maturazione – dovrebbe essere ciò che distingue l’individuo adulto dal bambino, o da colui che rimane perennemente bambino –, la quale ha, pur tuttavia, sempre di mira il soddisfacimento di desideri, per quanto all’interno di un principio generale che ci avverte di non farli configgere con un nostro possibile danno. Il principio di realtà – l’esigenza della razionalità e dell’intelletto di vedere le cose «così come stanno» – non ha affatto una priorità assiologia sul nostro sostrato pulsionale. Deve limitare la portata di questo sostrato per evitare risultati spiacevoli, ma rimane, in definitiva, al servizio di queste pulsioni anche nelle finalità. È pur vero, come ricorda Lambertino (VI, p. 145), che Freud in certe pagine prospetta un primato dell’intelligenza e lo presenta come «ideale» della psicologia, ma questo primato è più affermato che fondato, più asserito che indagato. Anche questo ideale asintotico era destinato ad essere rivisto da Freud a partire dagli anni Trenta del secolo ventesimo, sostituito da un fondato pessimismo sulle sorti dell’umanità, più prona a seguire l’infelicità, anche a prezzo della propria distruzione, che a perseguire ideali conoscitivi. In questa inclinazione verso toni e analisi pessimistici giocarono un ruolo determinante non solo le note vicende storiche e le vicende personali di Freud, ma anche la scoperta di una tensione positiva della psiche verso il dispiacere. Si tratta della celebre «pulsione di morte», concepita non solo come reattiva, bensì come originaria tendenza all’autodistruzione, che addirittura fa sì che il principio di piacere si ponga al servizio della pulsione di morte, al punto che «l’aspirazione alla morte diventa, non soltanto principio più universale e più originario della tendenza a vivere, ma principio onnicomprensivo, come se si desse un’unica tendenza, quella regressiva, in una interpretazione monistica della psiche di chiara intonazione necrofila» (VI, p. 147). A un determinato punto della sua produzione scientifica, questa tendenza monistica si fece così accentuata da indurre Freud ad interpretare la stessa vita morale come originata dalla pulsione di morte. «Non diversamente da Kant, che aveva concepito la coscienza morale come ‘tribunale’, cioè riduttivamente come facoltà di giudicare e colpevolizzare, Freud considera la coscienza morale come ‘facoltà di sentirsi in colpa’» (VI, p. 148). Questa caratterizzazione della coscienza morale è però unilaterale, perché perde completamente di vista i vantaggi che, per lo stesso individuo, derivano dalla stabilità delle norme. Questi vantaggi sono spesso del tutto chiari alle singole persone – del resto, è questo uno dei significati del test di universalizzabilità –, non solo nel senso che il vincolo reciproco è una privazione necessaria per limitare un primitivo jus ad omnia, per usare il lessico hobbesiano, bensì anche nel senso che è spesso chiara una valenza positiva, per così dire, delle norme, quando ad esempio sono la precondizione necessaria, anche se non sufficiente, per raggiungere determinati standard di maturazione e di realizzazione autopersonale. Sembrerebbe essere questo il caso dei diritti umani o delle capabilities, come è divenuto di moda dire oggi. La libertà di espressione, ad esempio, limita ovviamente i comportamenti di determinate agenzie – ad esempio, dei governi e del potere esecutivo – e dei loro funzionari, ma da questa limitazione discendono grandi potenzialità espressive per la persona. Esistono, inoltre, casi in cui anche dei comportamenti violenti sono tutt’altro che distruttivi. Mi riferisco alla disobbedienza civile. Quando dei cittadini occupano un tratto stradale pericoloso, indubbiamente limitano il diritto alla libera circolazione degli automobilisti. In questo senso esercitano una coercizione e una violenza. Tuttavia, l’atto di disobbedienza è di solito annunciato, limitato nel tempo, palesato nel suo infrangere delle norme vigenti. Il suo obiettivo è di segnalare che esistono delle norme più importanti di quelle attualmente in vigore. Né i diritti né la maggior parte dei casi di disobbedienza civile sono interpretabili come espressioni, neppure alla lontana, di pulsioni autodistruttive derivate dalla pulsione di morte. Senza enfatizzare queste notazioni critiche, ritengo che bisogna convenire con Lambertino che esiste un senso più persistente e profondo in cui si può dire che effettivamente la psicoanalisi è anche un’etica, ossia che la dimensione etica è consustanziale all’analisi della psiche compiuta da Freud. Questa etica non può non essere, ancora una volta, che una teoria della conoscenza. «Nel maturare il processo di libertà, la psicoanalisi aiuta l’uomo a trovare il giusto equilibrio tra le diverse istanze della personalità, tra Es e superio, tra inconscio e conscio, tra egoità e alterità. Aiuta l’io a sentire ed essere se stesso, così come egli sente e vuole, senza paure né inibizioni e senza dipendere infantilmente dal sentimento e dalle valutazioni degli archetipi sociali» (VI, p. 151). In questo senso, la liberazione – che può essere solo un processo asintotico che mal tollera scorciatoie – è il prodotto di un percorso di conoscenza. Questo è tutt’altro da un supposto primato della conoscenza su altre dimensioni – affettivo-emotive – della nostra personalità; piuttosto segnala che parte del risultato non può che essere il processo stesso attraverso il quale si perviene a conoscere il valore dell’armonia personale, ossia della limitazione necessaria del principio di piacere, ma non il suo abbandono. Mi pare che considerazioni di questo genere siano lo sfondo indispensabile anche delle pagine finali del contributo di Lambertino. Quando Lambertino insiste sulla relazione dialogica come orizzonte intenzionale autentico, non si limita a ripetere in un gergo nuovo la sostanza della seconda formula dell’imperativo categorico kantiano, ma fa propria la lezione freudiana. Relazione dialogica autentica non si dà di certo quando l’altro viene da me intenzionato – ossia, in questo caso, interpretato – come res. Esiste una ampia fenomenologia della reificazione, come è noto, che proviene da campi molto diversi. Senza entrare nel merito di questa fenomenologia, tuttavia, mi preme dire che Lambertino centra il punto quando afferma che l’entrare in relazione significa ricercare l’alterità non tanto perché noi ne abbiamo bisogno – il che sarebbe una manifestazione di narcisismo essa stessa –, come accade in molte manifestazioni amorose, ma piuttosto perché pensiamo di essere capaci di contribuire a conservarla come alterità. Questo significa non solo che ci asteniamo dal trattarla come res, ma anche che riconosciamo il valore specifico della ricerca della soddisfazione dell’altro. Nell’amor concupiscentiae, l’altro soggetto viene ridotto a ideale proiettato, ma il rimedio non è l’«amor benevolentiae così sacrificale ed esclusivo da disattendere e mortificare la promozione del sé. La relazione d’amore è quella particolare esperienza vissuta in cui l’io mira a promuovere il Tu perché Tu, in modo tale che la promozione dell’alterità sottenda anche l’autopromozione» (VI, p. 208). Questo programma etico sembra avere un valore ben più generale di quanto la citazione esplicita lasci intendere, che va al di là del dinamismo del piacere e forse anche al di là dell’etica del desiderio. Nel momento in cui riconosco il valore dell’opzione dialogica, mi pronuncio per una mancanza, la riconosco come tale, ma ciò di cui manco non è una cosa – posso tentare di ridurla a cosa per catturarla, ma la catturerei come cosa, appunto, e non come ciò di cui manco –, ma parte di un contenuto d’esperienza futura, che non può essere riempito se non in quanto l’altra parte del dialogo continua a dialogare, cioè in quanto è investita da una volontà di dialogo e se ne fa, da parte sua, carico. Poiché il contenuto del futuro della relazione dialogica mi è ignoto in gran parte, o, il che è lo stesso, poiché non ho ridotto l’altro a cosa, la relazione dialogica è una relazione di conoscenza investita di una sua carica affettivo-emotiva. Sono interessato a che la relazione continui dialogicamente, sono cioè interessato a non ridurre l’altro a cosa – e a non essere ridotto a cosa – perché sono interessato a comprendere – e a vivere – quel futuro che non conosco. Questo interesse è una esplorazione delle mie possibilità e delle possibilità della relazione dialogica. In questo senso, ciò che motiva la relazione dialogica è anche un progetto di piacere. Questo progetto può però sussistere solo con un certo distacco, che non è frigidità morale, ma rinuncia a reificare l’altro – magari deificandolo. Presuppone cioè un certo grado di disinteresse, proprio di molte relazioni epistemologiche. Ma disinteresse verso che cosa? Disinteresse, direi, verso le pulsioni narcisistiche. In questo senso, l’etica del piacere può essere un’etica dell’equilibrio, della conoscenza, della maturazione. È qualcosa di più di un’etica dell’amore, tradizionalmente intesa, perché non solo può applicarsi a tutte le relazioni umane – anche a quelle più superficiali e quotidiane –, ma può, ad esempio, riguardare anche il nostro rapporto con determinati individui animali non umani. L’ideale conoscitivo-affettivo, se così lo si può chiamare, della psicoanalisi, più che le sue singole soluzioni clinico-teoriche, è il filtro costante che Lambertino utilizza nel corso della sua ricognizione. Se si dovesse usare un’etichetta, con tutte le imprecisioni che questo comporta, si dovrebbe dire che quello che Lambertino propone è un intellettualismo etico moderato. Si tratta di un intellettualismo etico, perché la relazione etica è anche una relazione di conoscenza. È, tuttavia, moderato, perché questo aspetto conoscitivo non è all’inizio della relazione, ma ne è una fase successiva. Questo è anche in accordo intuitivo con la nostra esperienza. Nel mondo siamo dapprima come soggetti che sentono e poi come soggetti che conoscono. L’etica cioè precede l’ontologia, ma è l’ontologia che fornisce una parte del tutto rilevante al significato dell’etica. |