Etica & Politica / Ethics & Politics, 2002, 2
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Etica e politica nel pensiero di Dante
Italo Sciuto
Università di Verona
Introduzione:
la tonalità etico-politica del pensiero dantesco
Il pensiero etico-politico di
Dante si trova sparso in tutte le sue opere, ma specialmente nel Convivio,
nella Monarchia, in alcune lettere e nella Commedia; in
modo sistematico, però, soprattutto nelle prime due. Prenderemo dunque in
considerazione soprattutto le due opere filosoficamente più importanti, Convivio
e Monarchia, con gli opportuni riferimenti alle lettere e ai passi più
significativi della Commedia. Oltre che per i loro contenuti, le prime
due opere sono rilevanti anche perché mostrano la duplice disposizione filosofica
dantesca, quella divulgativa e quella creativa, la feconda ripetizione di
pensieri già detti e la produzione originale di riflessioni che intendono
comunicare nuove e scomode verità. Nella prima opera Dante è divulgatore come
filosofo in generale, nella seconda è creativo come filosofo politico. Il che
non impedisce, naturalmente, che il pensiero del Convivio contenga note
originali e personalissime, tali da rendere il suo autore storicamente «un
inclassificabile» (1). In entrambe,
certamente, l’impegno è militante, intende cioè corrispondere al dovere morale
di giovare alla vita sociale degli uomini, ma viene svolto in modi assai
diversi. Le solenni frasi iniziali delle due opere enunciano molto
efficacemente questa doppia disposizione.
Il Convivio inizia con la
citazione delle prime parole, a tutti note e spesso ripetute dagli autori
medievali, della Metafisica di Aristotele: «tutti gli uomini
naturalmente desiderano di sapere». Ma ben pochi possono, per vari motivi,
coltivare il sapere e quindi sedere «a quella mensa dove lo pane de li angeli
si manuca» (Cv I i 7), (2) cioè pochi sono in grado di accedere alla
difficile verità filosofica e teologica, (3) intesa qui boezianamente in modo
indistinto. D’altra parte, chi sa "deve" dispensare il proprio sapere
a chi non sa, in virtù del principio aristotelico della naturale socievolezza
dell’uomo, che Dante però esprime qui ricorrendo al concetto ciceroniano (e
dunque aristotelico) di amicizia: chi possiede la ricchezza del sapere la
dispensa «a li veri poveri» perché «ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente
è amico» (Cv I i 8). In termini
leggermente diversi, nell’ultimo trattato del Convivio Dante afferma di
ricavare da Aristotele l’idea secondo cui l’uomo è per natura «compagnevole
animale» (Cv IV iv 1) (4). Durante la crisi che ha seguito la morte di
Beatrice, infatti, Dante ha cercato rimedio alla sua «tristizia» leggendo la Consolatio
di Boezio e il Laelius di Cicerone (Cv II xii 2-3), dai quali ha principalmente appreso ad amare quella
filosofia che poi ha potuto approfondire nei trenta mesi passati «ne le scuole
de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti» (Cv II xii 7). Nel Convivio, Dante
onora dunque il nome dell’amicizia non in qualità di maestro, perché non siede
«a la beata mensa» dove si mangia il pane degli angeli, ma come un mediatore
tra i sapienti e il volgo, cioè come colui che è «fuggito de la pastura del
vulgo» e raccoglie le briciole cadute ai sapienti (Cv I i 10), apparecchiando un convito in cui la vivanda è
costituita dalle canzoni e il pane dal commento alle canzoni stesse. Lo scopo del commento è
specificamente morale, conseguente appunto ai doveri dell’amicizia; senza il «pane»,
infatti, le canzoni sarebbero ai più oscure e piacerebbero a molti soltanto per
la loro bellezza e non per la loro «bontade» (Cv I i 14).
Peraltro, Dante è entrato in questa dimensione filosofica nella giusta età
della maturità «temperata e virile», dopo quella «fervida e passionata» della Vita
Nuova (Cv I i 16), di cui è
proprio un agire virtuoso e fecondo guidato da due virtù cardinali: per essere
moralmente ben riuscita, infatti, dev’essere un’età temperata e forte, oltre
che amorosa, cortese e leale (Cv IV xxvi).
La disposizione morale è presente anche nello scrupolo di togliere la
prima delle tre «macule» che possono danneggiare il «pane», cioè il parlare di
sé. Questo è ammissibile soltanto per due motivi: o per evitare infamia e
pericolo per ingiuste accuse, come fece Boezio con la sua Consolatio, o
per essere di utile esempio agli altri, come fece Agostino con le sue Confessiones.
Dante è appunto mosso da entrambi: dal «timore d’infamia» e dal «desiderio di
dottrina dare» (Cv I ii 12-15). Due
passioni, dunque, rendono moralmente lecito parlare di sé: il timore e il
desiderio.
Anche l’inizio della Monarchia,
opera che a buon diritto si può ritenere «il massimo sforzo della filosofia di
Dante», (5) contiene un analogo appello
morale, espresso forse con ancor maggiore immediatezza e vigore: la natura
superior ha impresso in tutti gli uomini un amore per la verità che impone
loro il dovere di giovare ai posteri, così come a loro volta hanno tratto
vantaggio dalla fatica di coloro che li hanno preceduti. Dante quindi pone
subito in evidenza il principio etico fondamentale che muove la sua opera, come
appello alla solidarietà e alla responsabilità universale degli uomini. Chi poi
sia stato, come lo stesso Dante, istruito nelle dottrine concernenti la vita
pubblica (Mn I i 2: publicis
documentis imbutus) (6), per non essere
accusato di sotterrare il talento deve far fruttificare le sue conoscenze e,
per essere di pubblica utilità, non deve ripetere cose già note ma deve cercare
di scoprire verità nuove, mai prima tentate: et intemptatas ab aliis
ostendere veritates (Mn I i 3). Sarebbe
inutile, infatti, ripetere la
dimostrazione di un teorema di Euclide o esporre ancora una volta quale sia il
fine ultimo dell’uomo, già perfettamente indicato da Aristotele. Come si dirà
meglio in seguito, queste intemptate veritates, con le quali Dante si
augura di ricavare gloria per se stesso e di giovare all’intera umanità,
consistono soprattutto nel "metodo" usato per dimostrare le tre
principali tesi della Monarchia, cioè nell’uso esclusivo e rigoroso
dell’argomentazione filosofica. Le differenze tra l’indagine filosofico-morale
condotta nel Convivio e quella filosofico-politica svolta nella Monarchia
sono dunque notevoli, anche soltanto dal punto di vista metodologico. Nella
seconda opera non si tratta infatti di provvedere al desiderio conoscitivo dei
«poveri» distribuendo loro le briciole cadute dalla mensa ove si elabora il più
alto sapere, ma di partecipare alla mensa stessa da protagonista e anzi con
alcune rilevanti cose nuove da dire, per le quali è necessario l’uso della più
elevata lingua latina.
Che nella Commedia il tema
etico-politico sia fondamentale non ha bisogno, naturalmente, di essere
dimostrato: la visione profetica narrata nel viaggio dantesco rinnova e
sottopone a revisione aspetti rilevanti del precedente pensiero, ma ne rimane
in continuità per il suo scopo essenziale, quello di far conoscere quali siano
i provvidenziali disegni divini perché si possa realizzare il necessario
rinnovamento non solo religioso, ma anche morale e politico dell’intera
umanità. Per il nostro tema, sono rilevanti soprattutto due notevoli e
problematici cambiamenti, uno etico e l’altro politico, intimamente intrecciati
e relativi al tema centrale dei due fini ultimi dell’uomo che dànno luogo ai
due poteri, spirituale e temporale. Mentre, infatti, nel Convivio e
nella Monarchia viene strenuamente difesa la netta
distinzione, se non separazione, dei due fini e dei due poteri, nella Commedia
Dante sembra decisamente ripiegare sul tradizionale modello della
subordinazione: la felicità naturale è finalizzata alla beatitudine
soprannaturale e il potere imperiale viene subordinato al potere spirituale.
Comunque, a indicare il valore essenzialmente
"pratico" e non speculativo della Commedia valgono le parole
stesse che Dante usa nella Epistola a Cangrande (ammessa la sua ancor discussa
autenticità): «Genus vero philosophie sub quo hic in toto et parte proceditur,
est morale negotium, sive ethica; quia non ad speculandum, sed ad opus inventum
est totum et pars. Nam si in aliquo loco vel passu pertractatur ad modum
speculativi negotii, hoc non est gratia speculativi negotii, sed gratia operis»
(Ep. xiii 40-41). Come dice Aristotele,
infatti, anche i filosofi pratici sono talvolta indotti all’attività
speculativa: speculantur practici aliquando (ivi, 41). Non bisogna certo
assolutizzare queste affermazioni, anche se in realtà l’intenzionalità
prevalente nella Commedia si muove non ad speculandum sed ad opus,
ma non si deve trascurare il fatto che per Dante vale anche il movimento
contrario, che prende le mosse dalla speculazione per "giungere" alla
prassi. E l’intelletto speculativo diventa pratico non uscendo da sé, ma per
sua interna estensione: intellectus speculativus extensione fit practicus
(Mn I iii 9).
In ogni caso, è possibile dire
che il pensiero filosofico dantesco è quindi per essenza non soltanto
speculativo, ma anche e anzi soprattutto etico-politico. Una delle sue
posizioni di fondo, infatti, che ha giustamente attirato l’attenzione
filosofica dei critici, è costituita proprio dal problematico primato della
ragione pratica. Si può dire quindi che i tratti essenziali del pensiero
etico-politico dantesco riguardano due grandi temi, che sollevano al loro
interno molti problemi particolari: l’intenzionalità essenzialmente morale di
tutte le opere maggiori e la posizione privilegiata che la morale occupa
rispetto alle altre scienze. Della prima idea è particolarmente espressivo
l’uso, nel Convivio, del volgare, che non viene assunto solo per la
dichiarata opportunità didattica, ma per comunicare anche, in realtà, un
"contenuto" nuovo: non solo un’etica per laici, ma anche un’etica
laica. Si tratterà di vedere, naturalmente, entro quali termini e limiti vada
presa questa espressione, che cercheremo di esplorare non seguendo in tutti i
numerosi e ricchissimi dettagli il pensiero dantesco, ma limitandoci a
esaminare alcuni dei luoghi filosoficamente più rilevanti. Da questa
esplorazione, ci sembra di poter concludere che la tonalità laica del pensiero
dantesco si coglie nel rilievo che hanno, in tutte le questioni affrontate, due
concetti chiave: quello di giustizia e quello di libertà. La seconda idea,
secondo cui la morale acquista in Dante una posizione superiore a quella della
metafisica, ha tuttavia un significato che si potrebbe dire, aristotelicamente,
architettonico, perciò verrà esposta preliminarmente.
1. Il primato della morale
sulla metafisica
Lanciato a suo tempo da Étienne
Gilson, nel suo celebre libro Dante et la philosophie, come luogo di
grande rilievo nel pensiero dantesco, soprattutto per la sua originalità nel
contesto della filosofia medievale, questo tema non ha cessato di interessare
la critica e, filosoficamente, è senza dubbio centrale. Secondo Gilson,
l’orientamento filosofico del Convivio si fonda essenzialmente sulla
funzione prima consolatoria e poi apportatrice di felicità della filosofia, che
perciò ha una intonazione prevalentemente morale. Qui Dante si rivolge infatti
a un pubblico di nobili, politici e uomini d’azione, e non agli specialisti
delle scuole che dedicano il loro tempo ai piaceri della speculazione. Del
resto, la sua vita di exul inmeritus lo costringe a involontarie,
ingiuste e continue preoccupazioni pratiche spesso molto gravi, di cui lo
stesso Convivio fornisce la drammatica testimonianza nel celebre passo:
«peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga
de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata.
Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi
porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade» (Cv I iii 4-5). Queste condizioni, dunque, inducono Dante a
mettere in primo piano il problema della prassi. Tuttavia, come sopra si diceva, anche i filosofi pratici aliquando
speculantur.
Appunto riflettendo su un tema
speculativo com’è quello cosmologico, nella «esposizione allegorica e vera» (Cv
II xii 1) della canzone Voi
che ‘ntendendo il terzo ciel movete, venendo a spiegare quali siano i
«movitori» e il cielo di cui si parla nella canzone, Dante sviluppa una lunga
analogia tra cieli e scienze (il significato allegorico di cielo è appunto
scienza), assegna a Fisica e Metafisica l’ottavo cielo (delle Stelle fisse),
alla Morale il nono (il Primo Mobile o Cristallino) e alla Teologia il decimo e
ultimo, l’Empireo (Cv II xiii 8).
La scienza morale, quindi, è superiore alla metafisica e seconda soltanto alla
scienza teologica. Dopo una dotta riflessione sul numero delle stelle e un
complicato calcolo della età del mondo, viene data la spiegazione del
privilegio di cui gode la «Morale Filosofia»: come il Primo Mobile ordina
il movimento degli altri cieli, così la morale «ordina noi a l’altre scienze»
(Cv II xiv 14). Così, come tutto
l’universo cadrebbe nel disordine senza il Primo mobile, senza la
«Morale Filosofia» le altre scienze sarebbero inutili, si produrrebbe il
disordine della vita umana e perciò non si potrebbe tendere alla felicità, cioè
al fine ultimo della vita stessa: «e non sarebbe generazione né vita di
felicitade» (Cv II xiv 18). La
scienza morale detiene dunque un primato “architettonico”, simile a quello che
Aristotele attribuisce, all’inizio dell’Etica Nicomachea, alla politica.
Nella interpretazione di Gilson,
questa dottrina «è veramente straordinaria nel medioevo. Presa alla lettera,
porta a sostenere il primato della morale sulla metafisica, dottrina che non
poteva essere attribuita ad Aristotele e forse meno ancora a san Tommaso» (7). Probabilmente, secondo Gilson, date le
premesse del Convivio Dante ha svolto un ragionamento implicito di
questo tipo: "in sé", come scienza «divina», la metafisica è
certamente la più elevata, ma "per noi" essa è troppo alta; molto più
valida, per giungere alla perfezione in "questa" vita, e cioè per
conseguire il fine ultimo della felicità terrena, è dunque per noi la morale.
Dante, quindi, mette coerentemente al vertice della piramide scientifica «non
la scienza più divina di tutte, ma la scienza più umana di tutte, non la
metafisica, ma la morale» (8).
Questa tesi è nettamente
respinta, con la solita e consumata perizia, da Bruno Nardi (9). Rinunciando eccezionalmente alla consueta e pungente ironia
(probabilmente per la qualità e l’autorità dell’interlocutore, o forse per
effetto del tempo tragicamente bellico in cui fu scritto il saggio), egli
osserva innanzitutto che Dante condivide l’idea tradizionale circa il primato
della metafisica su tutte le altre scienze, come si legge esplicitamente nello
stesso Convivio: «per lunga consuetudine le scienze ne le quali più
ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate per lo suo nome.
Sì come la Scienza Naturale, la Morale, e la Metafisica, la quale, perché più
necessariamente in quella termina lo suo viso e con più fervore, [Prima]
Filosofia è chiamata. Onde [vedere] si può come secondamente le scienze sono
Filosofia appellate» (Cv III xi 16-17)
(10). Inoltre, e soprattutto, Nardi
sottolinea il preciso "motivo" che muove Dante a porre la morale più
in alto delle altre scienze, cioè a sostenere e difendere il suo valore
architettonico: la morale "ordina", come sopra si è detto, le altre
scienze. Non vi è dunque contraddizione tra la posizione più elevata della
morale e il primato della metafisica, perché asseriti da punti di vista
diversi: la metafisica ha un primato simpliciter, la morale invece secundum
quid, cioè in quanto attività ordinatrice. Del resto, non è vero che si
tratta di un’idea straordinaria nel pensiero medievale, perché anche altri
autori l’hanno sostenuta: per esempio Alfarabi nel Liber de scientiis,
accessibile nella traduzione di Gerardo da Cremona, e specialmente Alberto
Magno, cui si potrebbero aggiungere altri autori, come l’averroista Giovanni di
Jandun e soprattutto il francescano Ruggero Bacone (11).
In realtà, secondo Nardi l’errore
di Gilson è dovuto a un equivoco circa il modo d’intendere la filosofia nel Convivio,
cioè consiste nel supporre che Dante pensi la filosofia come attività
scolasticamente distinta dalla teologia, e quindi che distingua la filosofia
"umana" da quella "divina". In questa fase, invece, a
differenza della Monarchia, il pensiero dantesco non è affatto
razionalistico e neppure condivide, come invece nella Commedia, il
concetto scolastico-tomistico del rapporto ancillare, ma è piuttosto
profondamente mistico: non distingue ragione e fede, filosofia e teologia, che
sono invece fuse insieme a formare in sostanza una cosa sola (12). Non è quindi possibile parlare, a proposito del Convivio,
come fa Gilson, di una metafisica en soi nettamente distinta da una
metafisica pour nous, e comunque tale distinzione certamente non
chiarisce perché Dante ponga la morale al di sopra della metafisica. L’unico
motivo, come abbiamo detto, va trovato nel significato e nel valore
architettonico della Morale Filosofia, il che non toglie che la
metafisica rimanga ferma nella sua superiorità e che perciò Dante ribadisca la
tradizionale superiorità della vita contemplativa sulla vita attiva. L’impegno
che Gilson profonde per spiegare come mai Dante, dopo aver posto la morale più
in alto della metafisica, sostenga tuttavia il primato della vita
contemplativa, non è che «inutile sforzo di risolvere un’aporia inesistente» (13).
Il fascino dell’interpretazione
gilsoniana, tuttavia, non ha cessato di esercitare una forte attrazione. Se ne
può infatti ritrovare una cospicua traccia nella recente e importante indagine
di Ruedi Imbach, volta a valorizzare il significato "laico" della
filosofia dantesca nel Convivio. L’uso del volgare, quel «pane orzato»
di cui la conclusione del primo trattato del Convivio celebra il valore
prevedendo che diventerà «luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove
l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in oscuritade,
per lo usato sole che a loro non luce» (Cv I
xiii 12), costituisce per Imbach l’annuncio non soltanto di nuovi
"destinatari" della cultura, i laici appunto, ma anche di nuovi
"contenuti" della filosofia stessa. Di tale mutamento è indicativo il
passo in cui Dante afferma che «la moralitade è bellezza de la filosofia» (Cv III xv 11), oltre a quello sopra citato sul valore architettonico della
filosofia morale. In termini simili a quelli usati da Gilson, egli afferma
quindi che «Per Dante, la morale è la regina delle scienze, essa è la filosofia
prima» (14). Come e forse ancor più che in
Gilson, anche qui si afferma che in quest’opera Dante sostiene un «primato
della ragione pratica» originale e, anzi, rivoluzionario: «In perfetta
opposizione alla tradizione aristotelica per la quale la metafisica è la regina
di tutte le scienze, questa concezione attribuisce alla filosofia morale il
primo posto fra tutte le scienze», cioè realizza una radicale «trasformazione
del progetto filosofico» dovuta al nuovo pubblico laico al quale ora la
filosofia è destinata (15). L’enfasi posta
sulla novità, alla luce delle osservazioni filologicamente vincolanti di Nardi,
è forse eccessiva, ma coglie nel segno quando indica la destinazione dell’opera
dantesca, pensata come un aiuto per "tutti" gli uomini, affinché possano
vivere una vita virtuosa e, quindi, veramente umana e degna di aspirare alla
felicità terrena. Per comprendere il senso della tesi dantesca, è dunque
necessario chiarire il problema della felicità.
2. Il problema della felicità:
vita attiva e vita contemplativa
Particolarmente su questo
argomento, la filosofia dantesca si mostra seguace fedele di Aristotele,
considerato il preceptor morum (Mn III i
3) che ha condotto «a perfezione la filosofia morale» (Cv IV vi 15). Seguendo quindi la filosofia
aristotelica, e segnatamente il decimo libro dell’Etica Nicomachea,
Dante distingue due diverse forme di felicità ottenibili in questa vita: una
felicità «buona» conseguibile con la vita attiva e una felicità «ottima» che
soltanto l’attività contemplativa può assicurare (Cv IV xvii 9). Subito dopo (10-11), tuttavia, Dante cita come
rinforzo l’episodio evangelico (Lc 10, 38-42) di Marta e Maria che indicano,
rispettivamente, la vita attiva e la vita contemplativa, accostando così molto
significativamente all’autorità del Filosofo quella rivelata, in un passo
peraltro di larga fortuna medievale (16).
Nella Commedia, il medesimo rapporto è indicato con l’episodio di Lia e
Rachele, le due mogli di Giacobbe intente la prima a intrecciare una ghirlanda
e la seconda a rimirarsi nello specchio, di cui Lia dice: «lei lo vedere, e me
l’ovrare appaga» (Pg xxvii 108) (17). Il contemplare di Rachele rappresenta
simbolicamente la concezione riflessiva che Dante ha dell’attività filosofica,
intesa come «amoroso uso di sapienza» che «sé medesima riguarda, quando
apparisce la bellezza de li occhi suoi a lei; che altro non è a dire, se non
che l’anima filosofante non solamente contempla essa veritade, ma ancora
contempla lo suo contemplare medesimo» (Cv IV
ii 18). La filosofia, per Dante, si presenta qui essenzialmente come
attività autoriflessiva: essa contempla, innanzitutto, il proprio contemplare.
Dunque Dante afferma chiaramente
il primato dell’attività speculativa su quella pratica, sicché «la felicitade
de la vita contemplativa è più eccellente che quella de l’attiva» (Cv IV xvii 11), anche se le due attività
non vanno separate né tantomeno opposte. Va infatti tenuto presente che «l’uso
del nostro animo è doppio, cioè pratico e speculativo […], l’uno e l’altro
dilettosissimo, avvegna che quello del contemplare sia più» (Cv IV xxii 10), sicché la felicità umana
consiste in questo duplice uso: «in questo [come in] quell’altro è
nostra beatitudine e somma felicitade (ivi, 11). La felicità speculativa
consiste nell’esercizio delle facoltà razionali applicate alla conoscenza, cioè
consiste nella conoscenza scientifica: tutti gli uomini hanno il naturale
desiderio di sapere, come dice il Filosofo, perché «la scienza è ultima
perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade» (Cv
I i 1). Il fine stesso della
filosofia è l’agostiniano gaudium de veritate, la «vera felicitade che
per contemplazione de la veritade s’acquista» (Cv III xi 14). La felicità della vita attiva consiste invece,
secondo la definizione aristotelica, nella «operazione secondo vertù in vita
perfetta» (Cv III xv 12). In
entrambi i casi, cioè per tutti e due gli usi dell’animo, si tratta di una
duplice felicità che l’uomo può raggiungere in questa vita.
Tuttavia, Dante mantiene e anzi
ribadisce la distinzione tra questa duplice felicità e quella, suprema e
perfetta, che è raggiungibile solo nell’altra vita. Con una originale
interpretazione allegorica del passo evangelico sulle tre Marie che vanno al
sepolcro di Cristo e vi trovano un angelo da cui apprendono che il Salvatore li
precede in Galilea (Mc 16, 1-8), Dante afferma che nelle tre donne «si possono
intendere le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li
Peripatetici» che «domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non la
truovano» (Cv IV xxii 15).
L’angelo dice che «la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne la
speculazione», per far capire che «ne la nostra contemplazione Dio sempre
precede, né mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma»
(ivi, 17). Il che significa, dal punto di vista della beatitudine somma, che
sono inadeguati entrambi gli usi dell’animo anche se rimane la reciproca
differenza, per cui si può dire che la felicità della vita attiva è "quasi
imperfetta" e la felicità speculativa è "quasi perfetta": «E
così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla) prima
trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali
virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali
due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma
beatitudine, la quale qui non si puote avere» (ivi, 18). Con l’eccezione però
dell’esperienza evocata nella Commedia, di cui l’Epistola XIII dice che
ha il fine di condurre, in questa vita, dalla condizione di miseria a quella di
felicità: «removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad
statum felicitatis» (Ep. XIII, 39). Ma sitratta di un’esperienza eccezionale, riservata
alla dimensione mistica.
Rimanendo invece sul terreno
accessibile a tutti, esplorato nel Convivio e nella Monarchia, si deve dire
che vi sono tre forme di felicità, che Dante pensa in ordine gerarchico
ascendente: due per questa vita (attiva e speculativa, rispettivamente quasi
imperfetta e quasi perfetta) e una per la futura vita beata (contemplativa
perfetta), nella quale si compirà perfettamente quella contemplazione che in
questa vita è soltanto iniziata e perciò è "quasi" perfetta. Sembra,
dunque, che il primato della morale venga qui negato. In realtà, come spiega
bene Gilson, «lungi dal contraddire il primato della morale, la trascendenza
della contemplazione lo fonda, perché la morale non è per noi trascendente» (18). Va infatti tenuto presente il fatto che
la felicità della vita attiva è quella propriamente umana, in quanto pienamente
realizzabile già in questa vita, a differenza della contemplazione che inizia
in questa vita e attende il suo compimento nella perfezione futura. Certamente,
il riconoscimento di una «felicità mentale» procurata dall’attività speculativa
terrena è notevole, e solleva importanti problemi circa le fonti (19), ma altrettanto rilevante è il fatto che non tutti sono chiamati
quaggiù alla contemplazione, mentre per tutti vale il dovere di agire secondo
le virtù morali.
Nel commento ai versi 81-88 della
canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia, che impegna il quarto trattato
del Convivio («Dico ch’ogni vertù principalmente / vien da una radice: /
vertute, dico, che fa l’uom felice / in sua operazione. / Questo è, secondo che
l’etica dice, / un abito eligente lo qual dimora in mezzo solamente, / e tai
parole pone»), Dante chiarisce che «ogni vertù» significa «le vertù morali»,
per cui «è da sapere che propriissimi nostri frutti sono le morali vertudi,
però che da ogni canto sono in nostra podestade» (Cv IV xvii 2). Giustamente, quindi, egli si riferisce all’Etica
del Filosofo, secondo cui vive da uomo chi pratica le virtù morali nella
vita sociale. Le virtù intellettuali dell’intelletto speculativo sono superiori
come valore in sé, ma le virtù morali sono superiori perché realizzabili
perfettamente in questa vita e, quindi, propriissime attività umane. È
specialmente questo punto che rende "inclassificabile" il pensiero
dantesco, per il modo con cui rompe il classico rapporto di equivalenza fra
gerarchia di valore e gerarchia di autorità: «Questo modo di fondare
l’autonomia di un ordine inferiore, per cui esso risulta autosufficiente in
forza della sua stessa inferiorità, è tipicamente dantesco […]. L’universo di
Dante, al contrario di quello di san Tommaso d’Aquino, è un universo in cui
dalla gerarchia delle dignità non deriva mai alcuna gerarchia di giurisdizione,
ma piuttosto la loro indipendenza reciproca» (20).
Per questo motivo e su questo fondamento, nell’universo concettuale dantesco il
primato della morale può convivere con l’asserita superiorità dell’attività
contemplativa, secondo un principio che si deve applicare anche alla questione
politica.
3. I due fini ultimi e i due
poteri
Effettivamente, questo principio
diventa illuminante anche per capire aspetti rilevanti della vexata quaestio
intorno ai due poteri, quello temporale e quello spirituale. In particolare,
serve a comprendere il senso della celebre conclusione della Monarchia,
croce e delizia dei critici di tutti i tempi, in cui Dante sembra smentire la
principale tesi precedentemente svolta nei tre libri della medesima opera, cioè
la totale autonomia del Principe dal Pontefice. Dante afferma infatti che la
tesi dell’ultimo libro, secondo cui l’autorità del Monarca deriva
immediatamente da Dio, senza mediazione alcuna, va intesa non sic stricte
che il Principe non sottostia per niente al Pontefice, perché la terrena
"felicità mortale" in qualche modo è "ordinata" alla
celeste "felicità immortale": «non sic stricte recipienda est, ut
romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis ista
felicitas quodammodo ad inmortalem felicitatem ordinetur» (Mn III xv 17). In realtà, il potere
imperiale rimane del tutto autonomo, nel perseguire il suo fine; deve soltanto
riconoscere la superiore dignità del potere spirituale, verso il quale deve
appunto mostrare la giusta reverentia che il figlio primogenito deve al
padre, ma decisiva è la motivazione: per esercitare con maggiore efficacia - virtuosius
- quel potere di governo illuminato al quale è stato preposto
"solo" da Colui che tiene il governo di tutte le cose, temporali e
spirituali: «ut luce paterne gratie illustratus virtuosius orbem terre
irradiet, cui ab Illo solo prefectus est, qui est omnium spiritualium et
temporalium gubernator» (ivi, 18). Forse, la formula di subordinazione quodammodo
del potere temporale a quello spirituale non è creazione originale dantesca,
dato che si trova già in una anonima Questio de utraque potestate
precedente la Monarchia e ugualmente mossa dal principio della reductio
ad unitatem (21), ma originale è
certamente il trattamento cui Dante la sottopone.
Del resto, il quarto trattato del
Convivio consente una corretta interpretazione del termine reverentia,
che non implica per niente la subordinazione totale e l’esclusione di ogni
dissenso. Discutendo la definizione, attribuita all’imperatore Federico II,
della nobiltà come «antica ricchezza e belli costumi», Dante infatti mostra
come si possa legittimamente dissentire dall’autorità imperiale, distinguendo
l’atteggiamento «inriverente», certamente inammissibile perché privativo (nega
cioè la "dovuta" reverenza), dal semplice atteggiamento «non
riverente» che è meramente negativo e si risolve nel «disdicere non offendendo»
(Cv IV viii 10-13). Infatti, su
questo tema è semplice non-reverenza sostenere che «diffinire di gentilezza non
è de l’arte imperiale» (ix 16) e,
anzi, su ciò «tracotanza sarebbe l’essere reverente (se reverenza si potesse
dicere), però che in maggiore e in vera inreverenza si cadrebbe» (viii 15). Sarebbe cioè contraddittorio
usare un atteggiamento di "reverenza" dove fosse richiesta la
"non reverenza", perché l’apparente reverenza sarebbe in realtà
irriverente. Anche nella Commedia si può vedere come Dante mantenga la
sua «reverenza delle somme chiavi», nonostante la violenta invettiva contro il
papa simoniaco Nicolò III:
«E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza delle somme chiavi
che tu tenesti nella vita lieta,
io userei parole ancor più gravi» (If xix 100-103).
Anche senza giungere, dunque, a
sospettare che la conclusione della Monarchia sia «una tardiva aggiunta»
o «una scusa di chi, ritornando sui suoi passi, si accorge di averla fatta
grossa» (22), si può dire che la principale
tesi della Monarchia, il suo coerente averroismo politico,
rappresenta una clamorosa rottura con la prevalente tradizione politica
medievale, che può in parte giustificare l’efficace formula di Giovanni
Gentile, molto apprezzata da Bruno Nardi, secondo cui si deve leggere tale tesi
come «il primo atto della ribellione alla trascendenza scolastica», in quanto
Dante «nega valore al trascendente nel dominio del diritto umano e del lume
naturale» e così «è il primo scolastico, tomista per giunta, che si ribella al
trascendente scolastico» (23).
Tuttavia, a parte la questione oggi superata del Dante "tomista",
questa dottrina va ben compresa alla luce della concezione antropologica
dantesca, secondo la quale l’uomo è in se stesso duplice e si pone come un
"orizzonte" fra due termini opposti. Per dimostrare ostensive
che l’autorità dell’Impero deriva direttamente da Dio, senza la mediazione
dell’autorità del Pontefice, Dante parte infatti dal celebre assioma tratto
dalla seconda proposizione del Liber de causis che definisce l’anima in
horizonte aeternitatis, già largamente usato dai medievali a partire sembra
da Alano di Lilla (24), e osserva che
soltanto l’uomo, fra gli enti, occupa una posizione intermedia tra le cose
corruttibili (in virtù del corpo) e quelle incorruttibili (in virtù dell’anima)
(Mn III xv 3-4). Quindi fra tutti
gli esseri soltanto l’uomo, avendo in sé una duplice natura, ha un duplice fine
ed è ordinato a due mete ultime: in duo ultima ordinetur (ivi, 6). Il
fine ultimo cui l’uomo tende come ente corruttibile consiste nell’attuare le
facoltà che gli sono proprie (in operatione proprie virtutis consistit),
il che lo porta a realizzare la felicità in questa vita raffigurata nel
paradiso terrestre, mentre il fine ultimo che può realizzare come ente
incorruttibile consiste nel godimento della visione divina (in fruitione
divini aspectus), cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza
l’aiuto divino e che è raffigurata nel paradiso celeste (ivi, 7).
Va notato che per indicare le due
felicità, quella terrena e quella eterna, in questo passo Dante non usa i
termini felicitas e beatitudo, ma il medesimo termine beatitudo,
per sottolineare probabilmente il valore assoluto dei due fini, cioè il fatto
che sono appunto duo ultima non subordinati uno all’altro, ma
coordinati. Ciò non toglie, naturalmente, che i due fini differiscano sia in se
stessi, quanto alla propria natura, sia in relazione ai mezzi necessari per
conseguirli. Alla beatitudo huius vite si può infatti pervenire per
mezzo della filosofia (per phylosophica documenta) operando
conformemente alle virtù morali e intellettuali, mentre alla beatitudo vite
ecterne si perviene per documenta spiritualia, cioè grazie agli
insegnamenti divini che trascendono la ragione umana e quindi operando secondo
le virtù teologali della fede, speranza e carità (Mn III xv 8). Per questa sua duplice finalità, l’uomo ha bisogno
allora di una duplice guida: il sommo Pontefice affinché il genere umano sia
condotto secundum revelata alla vita eterna, l’Imperatore per dirigere secundum
phylosophica documenta il genere umano alla temporalis felicitas
(ivi, 10). Oltre al tema del duplice fine, qui, è importante l’affermazione
della destinazione universale alla felicità e, quindi, alla filosofia: una
posizione assolutamente originale, secondo la quale «il filosofare supera
l’atto individuale», sicché «la filosofia è un’opera comune alla quale tutti
gli uomini e tutte le donne contribuiscono – e devono collaborare» (25). E poiché sono pochi gli uomini che, in realtà, si possono
dedicare alla meditazione filosofica, la quale esige pace e assenza di
cupidigia, a creare queste condizioni provvede l’Imperatore che, in qualità di curator
orbis, assicura che in questa «aiola dei mortali» si possa vivere
liberamente in pace: ut libere cum pace vivatur (ivi, 11).
Ma per comprendere a fondo il
senso di questi duo ultima è necessario partire dal principio
fondamentale che Dante pone alla base della riflessione svolta nel primo libro
della Monarchia e che ritiene evidente, cioè l’affermazione secondo cui
esiste un fine universale dell’intera società umana: est finis universalis
civilitatis humani generis (Mn I ii
8). Per stabilire quale sia questo fine, bisogna tener presente che
altro è il fine dell’uomo singolo e altro quello del genere umano preso come
totalità, perché Dio e la natura, secondo il principio aristotelico-scolastico
spesso ripetuto da Dante, non fanno nulla invano. Ma tale fine è una operatio
e non solo un essere, quindi esiste un’operazione propria dell’intera umanità: Est
ergo aliqua propria operatio humanae universitatis (iii 4). Per sapere quale sia questa operazione, si deve tener
presente che propria dell’uomo è «la capacità di apprendere per mezzo
dell’intelletto possibile», sicché ciò che distingue l’uomo sia dagli animali
sia dagli angeli è proprio la potenza o virtus intellectiva, la quale
però non può attualizzarsi tutta quanta insieme per mezzo di un solo uomo,
quindi «è necessario vi sia una moltitudine nel genere umano, per mezzo della
quale tutta questa potenza venga attuata» (iii
5-8). Di questo avviso, dice Dante subito dopo, è anche Averroè nel suo
commento al De anima; quindi la dottrina è parsa a Guido Vernani, primo
acerrimo critico della Monarchia, segno evidente di averroismo, come se
Dante affermasse l’unità "numerica" dell’intelletto possibile (26). In realtà, Dante altrove critica e
condanna la teoria averroistica dell’intelleto separato (per esempio in Pg xxv 62-66), mentre qui nega
semplicemente che i singoli possano attualizzare l’intera capacità
dell’intelletto; inoltre, la citazione del commento di Averroè richiama
evidentemente «il principio di unità che attraversa tutta la riflessione
politica medievale» (27) e che da ciò riceve
un forte impulso. Si tratta comunque di un punto fondamentale della teoria
politica dantesca, la prima e più importante delle intemptate veritates
con le quali Dante pensa di superare, con un radicale principio filosofico, le
dispute meramente giuridiche dei litigiosi fautori dell’Impero e della Chiesa:
l’affermazione dell’unità del genus humanum, figurata peraltro
nella tunica inconsutilis di Cristo che ora è lacerata dalla cupidigia
(Mn I xvi 3).
Bisogna dunque ribadire questo
punto fondamentale, posto come la tesi filosofica su cui poggiano tutte le
successive argomentazioni. Essa consiste nel sostenere che l’operazione propria
del genere umano preso nella sua totalità è quella di attualizzare in ogni
momento (semper) l’intera potenza dell’intelletto possibile, prima
volgendosi all’attività speculativa e poi a causa di questa, e per sua
estensione, all’attività pratica: «proprium opus humani generis totaliter
accepti est actuare semper totam potentiam intellectus possibilis, per prius ad
speculandum et secundario propter hoc ad operandum per suam extensionem» (Mn I iv 1). Poco prima (iii 9), Dante aveva richiamato il principio aristotelico (De
anima III 9-10, 432 b 26 – 433 a 30), noto secondo l’errata versione di
Giacomo Veneto (translatio vetus) poi corretta da Guglielmo di Moerbeke
(translatio nova) e presente in Alberto Magno e Tommaso d’Aquino (28), secondo cui «l’intelletto speculativo per
estensione si fa pratico, il cui fine è quello di agire e di fare» («unde solet
dici quod intellectus speculativus extensione fit practicus, cuius finis est
agere atque facere»), appunto per sottolineare che l’attualizzazione
dell’intelletto possibile non riguarda soltanto le forme universali colte
dall’intelletto speculativo, ma anche le forme particolari attualizzate dall’intelletto
pratico nella duplice direzione pratico-poietica dell’agere atque facere,
ossia in relazione agli agibilia regolati dalla politica prudentia
e ai factibilia regolati dall’ars. I quali, però, sono
ancillarmente subordinati all’attività speculativa: «que omnia speculationi
ancillantur tanquam optimo ad quod humanum genus Prima Bonitas in esse
produxit» (Mn I iii 9-10).
Il genere umano è stato quindi
creato per conseguire l’optimum della speculazione, con l’aiuto
strumentale dell’agere atque facere. Perché ciò avvenga, il genere umano
si deve però trovare nella pace, in quiete sive tranquillitate pacis,
per un’opera che è in effetti quasi divina: opus fere divinum; e data
l’implicazione di "tutto" il genere umano, dev’essere una pax
universalis, tale da costituire perciò la cosa migliore fra quelle ordinate
alla nostra beatitudine (Mn I iv 2). Alla
luce di questo principio fondamentale della pace (29),
necessario perché l’umanità come tale e come un tutto possa conseguire il
proprio fine ultimo terreno, il primo libro della Monarchia procede poi
alla esposizione di undici argomenti, con i quali pensa di poter dimostrare in
modo inconfutabile che per la realizzazione di questo ultimum terreno
sia necessario un governo universale del genere umano, sia necessaria cioè
la Monarchia temporalis o Imperium. Si tratta per Dante di
argomenti validissimi (potissimis ac patentissimis argumentis ostendi potest)
(v 2), che il Poeta-filosofo
svolge mostrando una consumata perizia logica e che non possiamo qui seguire
nei dettagli. Ci limitiamo a osservare la centralità etica di tutta questa
impresa, volta a dimostrare la necessità dell’Impero ad bene esse mundi (ibid.),
al benessere di un mondo che ora vive male, similmente al compito che, nella Commedia,
Dante riceve da Beatrice nel paradiso terrestre: «in pro del mondo che mal
vive» (Pg xxxii 103). Secondo
questa prospettiva, sono molto significativi gli argomenti sesto, settimo e
ottavo.
Il sesto argomento, svolto nel
capitolo X, mette in rilievo un principio tipico e fondamentale in tutta la
riflessione dantesca, cioè il richiamo all’ordine del tutto. Lo fa dimostrando
la necessità che vi sia un Monarca, in quanto risolutore delle controversie che
possono sorgere tra poteri particolari. Che sia possibile risolvere le
controversie è necessario, altrimenti vi sarebbe nel mondo una imperfezione
costitutiva, il che non è pensabile perché Dio e natura non possono fallire
nelle cose necessarie, come si dice anche nella Commedia: «ché impossibil
veggio / che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi» (Pd viii 113-114). Se nasce una contesa, dev’essere possibile
trovare una soluzione (iudicium) non tanto in termini giuridici quanto
in termini etici, non essendo cioè ammissibile che in un mondo morale ordinato
vi siano conflitti per principio insolubili, o la cui composizione implichi un
rimando all’infinito. Ma questo si può dire solo facendo riferimento a una
istanza superiore ai soggetti stessi del conflitto, cioè al Monarca.
Il settimo argomento, svolto nel
capitolo XI, tocca il fondamentale tema della giustizia, che è massima soltanto
nella Monarchia perché soltanto il Monarca può mettere la potenza interamente a
servizio del bene. Come in tutti gli argomenti, anche qui Dante procede in modo
sillogistico: il mondo è ordinato nel modo migliore quando in esso la giustizia
è massima («mundus optime dispositus est cum iustitia in eo potissima est»), ma
la giustizia è massima solo sotto il Monarca, dunque perché il mondo abbia
l’ordine migliore è necessaria la Monarchia o Impero (Mn I xi 1-2). Per accettare la minore, è
necessario tener presente la definizione dantesca di giustizia come
«rettitudine o regola che rifugge da ciò che devia da una parte o dall’altra e,
come nel concetto astratto di bianchezza, non accoglie in sé il più e il meno»
(xi 3). Il termine rectitudo,
tipicamente anselmiano, è presente anche nella definizione fornita dal Convivio,
quando elenca le undici virtù etiche: «L’undecima è la giustizia, la quale
ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose» (Cv IV xvii 6). Benché non abbia in sé il
più e il meno, la giustizia è massima (potissima) quando è minimo ciò
che le si oppone, sia nel volere sia nel potere (Mn I xi 6-7). Cioè la giustizia è massima quando la volontà è
perfettamente libera dal desiderio di cupidigia e quando è massimo il potere di
dare a ciascuno il suo, è quindi massima quando si trova in un soggetto che ha
volontà e potere assoluti (volentissimo et potentissimo), ma tale nel
mondo è soltanto il Monarca (xi 8).
Il solo Monarca, infatti, non può desiderare nulla perché possiede tutto ciò
che vuole e, non avendo pari a sé, ha la massima potenza; quindi fra i mortali
è l’unico a poter essere il sincerissimum iustitie subiectum (xi 12).
La giustizia potissima,
quindi, si può realizzare soltanto con una radicale reductio ad unum del
volere e del potere, contro l’illusione che l’ordine e la felicità si possano
raggiungere nelle realtà limitate e autonome dei singoli regni o città, ove la
pace è irraggiungibile a causa degli inevitabili e interminabili conflitti,
come dice bene il Convivio (IV iv
3-4). Lasciati a se stessi, gli uomini falliscono nel tentativo di
realizzare la giustizia, che va dunque delegata alla suprema autorità, in
quanto possiede un potere di coercizione veramente efficace. Nonostante gli
accenni alla giustizia commutativa e distributiva (Cv IV xi 6) e al concetto anselmiano di rectitudo, in
Dante prevale quindi una concezione della giustizia di tipo coercitivo. La
stessa giustizia divina, di cui quella del Monarca è riflesso e immagine,
richiama la figura del giustiziere e della giusta vendetta, come se Dio fosse
più preoccupato di punire i colpevoli che di ricompensare i giusti (30). In effetti, è la giustizia divina a esigere l’esistenza
dell’inferno: «Giustizia mosse il mio alto fattore» (If iii 4). L’esistenza stessa di Chiesa e Impero si giustifica
in questo senso molto vicino alla concezione agostiniana dello Stato, in quanto
essi cioè sono stati pensati da Dio come rimedi contro la debolezza e la
malattia prodotte dal peccato: remedia contra infirmitatem peccati (Mn III iv 14). Per questo aspetto, in
Dante convivono dunque le due concezioni antagoniste circa il fondamento del
vivere associato: quella aristotelica, secondo cui l’uomo è "per
natura" un essere sociale e politico, e quella agostiniana, secondo cui lo
Stato è giustificato solo come remedium peccati.
L’ottavo argomento, svolto nel
capitolo XII, viene costruito intorno al tema del libero arbitrio, tema
fondamentale per tutto il pensiero dantesco. La premessa maggiore afferma che
il genere umano si trova nella migliore condizione (optime se habet),
quando è del tutto libero: potissime liberum (Mn I xii 1). Si tratta però di comprendere cosa intenda qui
Dante col termine libertà, se sia cioè da intendere in senso morale o politico.
Sarebbe ovvio pensare alla libertà politica, ma Dante spiega subito che si
tratta invece della libertà morale. Il principium di quella libertas
che pone il genere umano nella condizione migliore, infatti, è costituito dalla
libertas arbitrii, sul cui significato peraltro ci si deve soffermare,
perché ben pochi lo comprendono, benché tutti abbiano sulla bocca la parola
libertà: quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci (xii 2). Tutti ripetono infatti la
celebre definizione boeziana di libero arbitrio come libero giudizio
riguardante il volere, liberum de voluntate iudicium, ma non comprendono
il ruolo del giudizio, che sta nel mezzo tra l’apprehensio e l’appetitus.
Il giudizio è libero in quanto non si lascia condizionare e guidare
dall’appetito, ma anzi lo muove e quindi muove se stesso, cosa imposibile agli
animali che non possono avere un giudizio libero e propria invece delle
sostanze intellettuali, anche di quelle separate (xii 4-5). Così inteso, il libero arbitrio è il massimo dono
che Dio abbia fatto alla natura umana, al punto che per sua virtù possiamo
raggiungere una doppia felicità: in terra come uomini e in cielo come dei (xii 6).
Nella Commedia, questo
punto viene ribadito con forza mostrando come il libero arbitrio sia il dono
più elevato elargito dalla generosità divina, il più vicino alla bontà divina
e, quindi, più da essa apprezzato:
«Lo maggior don che Dio per sua
larghezza
fesse creando ed alla sua bontate
più conformato e quel ch’e’ più
apprezza,
fu della volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son
dotate» (Pd v 19-24).
Il genere umano, quindi, si trova
nella migliore condizione (optime se habet) quando può usare potissime
questa libertas della volontà, e può usarla in questo modo soltanto
sotto il Monarca: existens sub monarcha est potissime liberum (Mn I xii 8). Per esprimere questa
condizione, Dante usa insistentemente il concetto anselmiano di rectitudo:
la Monarchia universale rende buoni e giusti i singoli governi, facendo sì che
tendano alla libertà recte, cioè in modo che gli uomini loro sottoposti
vivano in virtù di se stessi (ut homines propter se sint), mentre i
governi che dirigono gli uomini oblique, cioè democrazie, oligarchie e
tirannidi, costringono il genere umano in servitù (xii 9-10). Ignorando la definizione di libero arbitrio come facultas
rationis et voluntatis con la quale «si sceglie il bene con l’aiuto della
grazia, oppure il male senza il suo aiuto», classicamente e canonicamente
ribadita nelle Sentenze di Pietro Lombardo (II Sent., d. 24, c.
3), Dante qui sembra circoscrivere la libertà alla sola volontà. In questo
modo, egli conferisce alla libertà un valore non assoluto, ma essenzialmente
legato al potere del Monarca. L’autorità imperiale, infatti, affinché l’umanità
possa raggiungere il suo fine ultimo terreno deve regolare tutte le azioni che
dipendono dalla nostra volontà, mediante le leggi: l’imperatore è come «lo
cavalcatore de la umana volontade», e quel che accade quando il cavallo è privo
di cavaliere lo sa «la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua
governazione è rimasa» (Cv IV IX 10).
La libertà di cui parla Dante non è, evidentemente, la libertà negativa
della soggettività moderna, tanto più ampia quanto minori sono i vincoli: senza
vincoli si finisce infatti come la
«serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran
tempesta,
non donna di provincie, ma
bordello» (Pg vi 76-78).
4. Giustizia e libertà nella Monarchia
La possibilità di realizzare
concretamente la giustizia e la libertà, nel retto regime della Monarchia, è
fortemente limitata dalla condizione decaduta in cui l’umanità si trova, a
causa del peccato originale, inevitabilmente impigliata. Su ciò, Dante è del
tutto tradizionale. Originale invece è nel pensare che tutti e due i poteri
dell’Impero e della Chiesa, potere terreno e potere spirituale, siano
legittimati essenzialmente non tanto come valori e realtà in sé, quanto
piuttosto come "rimedi" contro le conseguenze del peccato originale.
Nel primo argomento addotto per difendere la tesi principale sostenuta nel
terzo libro della Monarchia (l’autorità dell’Imperatore deriva
direttamente da Dio, senza mediazioni), Dante esamina e critica la tradizionale
tesi dei duo magna luminaria sole e luna che secondo Genesi 1, 16 sono
posti per illuminare più e meno il giorno e la notte, e che interpretati
allegoricamente indicano appunto la Chiesa e l’Impero. Oltre a rifiutare la
falsa interpretazione simbolica di sole e luna svolta dai teorici ierocratici,
Dante sostiene che se l’uomo fosse rimasto innocente, non avrebbe avuto bisogno
di Chiesa e Impero, i quali perciò non sono per l’uomo "naturali", ma
artificiali, essendo stati posti da Dio quali rimedi contro gli effetti del
peccato originale: «sunt ergo huiusmodi regimina remedia contra infirmitatem
peccati» (Mn III iv 14). Chiesa e
Impero sono dunque mezzi e non fini, appartengono alla natura dell’uomo non in
sé ma in quanto essa è decaduta dallo stato originario, in cui non v’era
bisogno di tali istituzioni. Che l’uomo sia per natura «compagnevole animale»,
dunque, non implica la naturalità dello Stato.
Inoltre, molto rilevante è il
fatto che in questo modo il potere politico sia strettamente legato a quello
religioso, in quanto rimedio "ugualmente" necessario alla salvezza
dell’uomo. Non a caso, infatti, nell’ultimo capitolo della Monarchia
Dante usa, per esporre ostensive l’argomento decisivo circa la
derivazione del potere imperiale inmediate da Dio, il medesimo termine auctoritas
per indicare i due poteri, superando perciò la tradizionale distinzione tra potestas
e auctoritas che, a partire dalla celebre lettera di papa Gelasio I,
sono i termini usati tradizionalmente per indicare, rispettivamente, il potere
temporale e quello spirituale (31). Perciò
Dante collega, in un testo particolarmente originale e fonte di aspre contese,
la legittimazione dell’autonoma autorità imperiale con l’opera redentrice del
Cristo. Alla fine del secondo libro della Monarchia, infatti, Dante
sviluppa l’ultimo suo argomento per dimostrare la tesi principale del libro,
cioè che l’Impero Romano esercitò de iure il suo potere su tutto il
mondo, sostenendo che diversamente il peccato di Adamo non sarebbe stato punito
in Cristo e quindi non sarebbe stato riparato. Se infatti Cristo non avesse
patito sotto un giudice regolare e legittimo, la pena da lui subita non gli
sarebbe stata inflitta da chi ha titolo per punire, cioè non sarebbe stata una
vera punitio subita al posto dell’intera umanità, ma una illegittima iniuria
che avrebbe trasformato la morte di Cristo in un sacrificio giuridicamente vano
(Mn II xi 4-5). Il medesimo
concetto viene espresso anche nella Commedia, con un linguaggio da
giustizia vendicativa che sorprende per la sua paradossalità:
«chè la viva giustizia che mi
spira,
li concedette, in mano a quel
ch’i’ dico,
gloria di far vendetta alla sua
ira.
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti
replico:
poscia con Tito a far vendetta
corse
della vendetta del peccato antico»
(Pd vi 88-93).
Questo ragionamento, che «ha
fatto perdere addirittura la testa al "più antico oppositore
politico" di Dante» (32) portandolo ad
assumere un atteggiamento inquisitoriale, serve a Dante per mostrare che la
«Monarchia temporale» è in sé pienamente legittima quale rimedio voluto da Dio
anche indipendentemente dal rimedio spirituale che, in effetti, è temporalmente
successivo. L’aspetto più importante, comunque, non visto dalla «stupidità di
fra Guido Vernani da Rimini nell’aspra critica dell’argomento dantesco» (33), sta nel fatto che la validità del
sacrificio di Cristo implica il riconoscimento della piena legittimità
giuridica dell’Impero. Implica, cioè, l’iscrizione del potere imperiale entro
la dimensione della giustizia divina, doppiamente legittimata da Cristo nei due
momenti estremi della sua vita: con l’inizio, avendo scelto appunto di nascere
sotto l’Impero, e con la sua morte. Contro l’idea agostiniana secondo cui è
possibile vedere nell’Impero Romano uno dei magna latrocinia, Dante
celebra la Monarchia universale, di cui quella realizzata in Roma è stata la
prima e più elevata epifania, come realtà utopica voluta dal piano
provvidenziale divino.
Il tratto più sorprendente,
comunque, sta forse nella concezione vendicativa che Dante mostra di avere
della giustizia divina: attento infatti, come si diceva, più alla punizione dei
malvagi che alla premiazione dei giusti, egli sembra pensare alla giustizia
divina come a una virtù morale che viene rafforzata se accompagnata da una
passione, in questo caso dall’ira che, secondo la tradizione aristotelica, è
intesa come desiderio di giusta vendetta. Gli autori medievali riprendono
questa concezione, distinguendo l’ira mala, che è un vizio, dall’ira
bona, che è una passione praticabile in modo virtuoso col controllo della
ragione (34). In questo senso è illuminante
la pena inflitta, nell’Inferno, alle «anime triste di coloro / che visser sanza
infamia e sanza lodo» (If iii
35-36), indegne persino di ricevere un giudizio di condanna: «misericordia e
giustizia li sdegna» (ivi, 50). La misura suprema del giudizio, infatti, esige
la sintesi dei due elementi, apparentemente contraddittori, della misericordia
e della giustizia: il «rostro» dell’Aquila parlante, nel Paradiso, dice appunto
di essere stato elevato a tanta gloria per essere stato «giusto e pio» (Pd xix 13), mentre le anime del Purgatorio
si aspettano di essere liberate da «giustizia e pietà» (Pg xi 37). Ma l’esigenza della giustizia
divina può comportare anche i più terribili effetti, come dimostrano le pene
dell’Inferno, in cui «si vide di giustizia orribil arte» (If xiv 6). Il modello supremo della
giustizia è comunque costituito dal paradosso della morte di Cristo, letta in
termini di «giusta vendetta» che dev’essere «giustamente punita» (Pd vii 20-21). Secondo Dante, il paradosso
è sciolto pensando alla doppia natura, umana e divina, di Cristo: per la sua
natura umana egli ha subìto una giusta punizione (vendetta) in quanto ha in sé
assunto la colpa del genere umano, ma per la sua natura divina tale punizione
diventa ingiusta e quindi va giustamente punita. La redenzione operata da
Cristo viene appunto letta nei termini della «giusta vendetta»:
«La pena dunque che la croce
porse
s’alla natura assunta si misura,
nulla già mai sì giustamente
morse;
e così nulla fu di tanta
ingiuria,
guardando alla persona che
sofferse,
in che era contratta tal natura»
(Pd vii 40-45).
Il motivo di tale posizione va
trovato forse non tanto in un peraltro giustificato risentimento di Dante
stesso, ingiustamente perseguitato a morte come il suo modello Boezio, quanto
in un movimento di compensazione della ingiustizia che regna ovunque nel mondo
presente, governato e dominato dalla cupidigia. Ciò non vuol dire, tuttavia,
che Dante si limiti a enfatizzare la centralità dell’azione divina e trascuri
perciò il dovere morale che incombe sull’uomo; non si può dire che «Dante
dimentica quasi del tutto il dovere che l’uomo ha di costruire un mondo
giusto», lasciando solo all’autorità divina il compito di «prendere in mano le
redini» (35). Dante parte certamente dalla
irata constatazione che l’ingiustizia regna quasi ovunque nel mondo, a partire
dalle città d’Italia che «tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa /
ogni villan che parteggiando viene» (Pg vi
124-126), e soprattutto nella sua Firenze, della cui totale decadenza morale
traccia un potente e feroce ritratto (ivi, 127-151), chiama i suoi abitanti
«ingrato popolo maligno» (If xv
61), osserva che in essa «Giusti son due, e non vi sono intesi: / superbia,
invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi» (If vi 73-75), per cui nella inscriptio dell’epistola
a Cangrande egli si definisce florentinus natione non moribus (Ep. XIII,
1 e 28) (36), con forte accentuazione
aggressiva della consueta formula difensiva – florentinus et exul inmeritus
– che appare nelle inscriptiones di varie lettere (III, V, VI e VII).
Inoltre non soltanto le città italiane, ma il mondo intero è diventato, se è
valida la corrente interpretazione allegorica delle «quattro stelle» che Dante
vede nell’altro emisfero come le quattro virtù cardinali, un «vedovo sito» già
nella sua origine, dopo il primo peccato; infatti le quattro stelle sono state
«non viste mai fuor ch’alla prima gente» (Pg i
22-24). E fra le quattro virtù cardinali, come è noto, la giustizia occupa il
primo posto. Sembra, quindi, che soltanto per iniziativa divina la giustizia
possa tornare nel mondo.
Tuttavia, l’uomo non è del tutto
privo di autonoma capacità di giustizia, come Dante sostiene quando espone il
peregrino argomento del duello per provare che Roma conquistò de iure
l’Impero. Ciò che si conquista per duellum, dice Dante, è conquistato de
iure se vengono rispettate due condizioni: che il duello sia l’extrema
ratio per dirimere una lite, avendo esperito prima tutte le possibilità
pacifiche di composizione, e che il duello venga deciso di comune accordo tra
le due parti non per odio né per amore, ma soltanto per il vivo desiderio della
giustizia: non odio, non amore, sed solo zelo iustitie (Mn II ix 2-3). Al giudizio di Dio
attraverso il duello nessuno, al tempo di Dante, crede più e perciò il Poeta
filosofo «si arrampica sui vetri per convincerci che non è un reazionario» (37), tuttavia si deve sottolineare il valore
che egli attribuisce alla giustizia e alla corrispondenza di questa, e quindi
del diritto stesso, col volere divino: «ius in rebus nichil est aliud quam
similitudo divine voluntatis; unde fit quod quicquid divine voluntati non
consonat, ipsum ius esse non possit, et quicquid divine voluntati est consonum,
ius ipsum sit» (ii, 5). Il
concetto viene ripreso, negli stessi termini, dal discorso dell’Aquila nel
Paradiso: «Cotanto è giusto quanto a lei consona» (Pd xix 88). Quando perciò Dante argomenta, con sorprendente
deduzione, «per duellum […] ergo de iure» (Mn II
ix 21), lo fa dopo aver detto che affinché si dia un duello come
giudizio di Dio bisogna che i duellanti (pugiles) combattano zelo
iustitie, cioè solo per amore della giustizia e non per lucro, altrimenti
non si avrebbe un duello, ma un mercato della giustizia: «Unde caveant pugiles
ne pretium constituant sibi causam; quia non tunc duellum, sed forum sanguinis
et iustitie dicendum esset» (ix, 9).
5. Il problema del libero
arbitrio tra i «due soli»
Il motivo di fondo che, in ogni
caso, garantisce all’uomo una limitata ma intatta capacità di giustizia è
costituito dal fatto che in lui rimane fermo, nonostante tutto, il libero
arbitrio. A parte l’iniziale tesi deterministica esposta in un sonetto delle Rime,
ove si afferma l’impotenza della ragione e perciò dell’arbitrio nella
«palestra» della passione amorosa (38),
tutta l’opera dantesca è percorsa da una costante e vibrante celebrazione della
libertà umana, sì che uno dei motivi di maggior gratitudine verso Beatrice
consiste proprio nel riconoscere in lei la causa del proprio movimento di
liberazione: «Tu m’hai di servo tratto a libertate» (Pd xxxi, 85). Escluso l’Inferno, dominato dal peccato negatore
di ogni libertà, il tema del libero arbitrio è infatti continuamente presente
nella Commedia. In particolare, il canto XVI del Purgatorio svolge una
vera e propria dottrina del libero arbitrio (39).
Preso da un dubbio che, se non risolto, lo fa scoppiare, Dante pone a Marco
Lombardo la questione decisiva circa la "cagione" per cui tutto il
mondo è «diserto d’ogne virtute […] e di malizia gravido e coverto» (Pg xvi, 58-60). Si chiede infatti se la
causa della generale malizia vada ravvisata nella cattiva congiuntura astrale
(«nel cielo»), oppure nella condotta umana, cioè «qua giù» (v. 63). Che l’agire
umano dipenda totalmente e necessariamente dal moto celeste non è sostenibile,
altrimenti sarebbe distrutto il libero arbitrio umano e sarebbe inoltre
compromessa la giustizia divina, che assegna l’eterna beatitudine a chi agisce
bene e l’eterno dolore ai malvagi:
«Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora
giustizia
per ben letizia, e per male aver
lutto» (vv. 70-72).
In realtà, i cieli determinano
soltanto i movimenti legati alla corporeità umana, mentre l’intelletto con cui
si distingue il bene dal male e il «libero voler» sono conferiti all’uomo da
Dio, al quale perciò l’uomo è "liberamente soggetto" in virtù della
sua razionalità: «A maggior forza ed a miglior natura / liberi soggiacete» (Pg xvi, 79-80). Questo è il tratto che
rende "nobile", secondo la dottrina della «donna gentile» esposta nel
Convivio, l’anima razionale rispetto all’anima sensitiva e appetitiva:
«Per donna gentile s’intende la nobile anima d’ingegno, e libera ne la sua
propria potestate, che è la ragione. Onde le altre anime dire non si possono
donne, ma ancille, però che non per loro sono ma per altrui» (Cv III xiv 9-10). L’opposizione
libertà-servitù viene quindi espressa con la coppia classica, anselmiana e
scolastica, dell’agire 'per sé' o 'per altro', anche se l’anima razionale non
sempre è «donna» in senso assoluto. Dante ammette infatti che la volontà umana,
pur libera per sua natura, possa dipendere dalla volontà divina in modo
necessitante e inconsapevole. In questo caso noi diventiamo ignari strumenti di
Dio, utensilia Dei che lo servono senza saperlo, ancillantur ignare,
e allora le nostre volontà propriamente non agiscono, ma anzi sono agite: «Non
etenim semper nos agimus, quin interdum utensilia Dei sumus; ac voluntates
humane, quibus inest ex natura libertas, etiam inferioris affectus inmunes
quandoque aguntur, et obnoxie voluntati eterne sepe illi ancillantur ignare»
(Ep. V, 25).
Comunque, rimane fermo il fatto
che la causa della malvagità presente nel mondo vada interamente attribuita
all’uomo: «Però, se il mondo presente disvia, / in voi è la cagione, in voi si
cheggia» (Pg xvi, 82-83). Uscita
innocente dalle mani del suo Creatore, a causa del peccato l’anima umana si
rivolge naturalmente a ciò che le arreca piacere e si inganna facilmente circa
i beni veri, se non è guidata e tenuta a freno da una legge efficace. Non si
tratta di un difetto di razionalità, ma di volontà e perciò di moralità, anzi
addirittura di legalità poiché «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» (v.
97). Nessuno si preoccupa di applicare le giuste leggi, dato che il cattivo
esempio viene dal pastore stesso che dovrebbe fare da guida. Il che fa
comprendere come la malvagità del mondo provenga dal disordine morale di chi
non guida bene l’umanità, e non da una presunta corruzione della natura umana,
osserva Marco Lombardo in un passo dal forte sapore pelagiano: «Ben puoi veder
che la mala condotta / è la cagion che il mondo ha fatto reo, / e non natura
che ‘n voi sia corrotta» (vv. 103-105). E il male appare tanto peggiore in
quanto è esistito il tempo felice dell’antica Roma, in cui non vi era
commistione dei due poteri, che potevano perciò controllarsi a vicenda:
«Soleva Roma, che ‘l buon mondo
feo,
due soli aver, che l’una e
l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di
Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è
giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro
inseme
per viva forza mal convien che
vada;
però che, giunti, l’un l’altro
non teme» (Pg xvi, 106-112).
In genere, nei commenti viene
giustamente sottolineata l’inedita immagine dei «due soli», audace sostituzione
della tradizionale metafora dei duo luminaria magna, sole e luna, che
anche Dante usa nella Monarchia (III iv).
Non si tratta però di contraddizione
e neppure di incoerenza, rispetto alla precedente immagine coltivata
dalla letteratura ierocratica, ma anzi di rigorizzazione della tesi esposta nel
suo commento critico. Nella Monarchia, infatti, Dante sostiene che anche la luna
(= potere temporale) ha una luce propria e quindi non riceve "tutta"
la sua luce dal sole (= potere spirituale), come secondo lui dimostra il
fenomeno dell’eclissi (Mn III iv 18).
Inoltre, la maggiore luminosità che la luna riceve dal sole non vuol dire che
il potere temporale riceva l’esse, quindi la virtus e l’auctoritas dal potere spirituale; vuol solo dire che riceve un aiuto per agire meglio:
ut virtuosius operetur (iv 20).
Usando l’immagine dei due soli, Dante accentua unicamente e massimamente
l’identità ontologica dei due poteri, forse per sottolineare quanto dice subito
dopo, e cioè che per la commistione dei due poteri nelle sole mani del
Pontefice è venuto meno il reciproco timore, che viene salvaguardato
maggiormente se i due poteri sono posti ontologicamente sullo stesso piano:
considerandoli, appunto, come «due soli».
Del resto, una traccia molto significativa per intendere come un
"sole" anche il potere temporale si trova nelle epistole V e VII, ove
l’imperatore Enrico VII viene indicato e atteso, appunto, come un nuovo sole (40). In particolare, l’epistola V è
significativa per comprendere come Dante cerchi di tenere insieme le due idee
fondamentali e in apparenza contraddittorie: il valore ontologicamente autonomo
del potere temporale, rappresentato come un sole, e tuttavia la sua inferiorità
funzionale rispetto al potere spirituale. Da una parte, infatti, egli afferma
che dopo una lunga notte nel deserto sorgerà un sole (Titan) di pace e di giustizia: «Et nos gaudium expectatum videbimus, qui diu
pernoctitavimus in deserto, quoniam Titan exorietur pacificus, et iustitia,
sine sole quasi eliotropium hebetata, cum primum iubar ille vibraverit,
revirescet» (Ep. V, 3); dall’altra, Dante conclude la medesima lettera dicendo
che Dio stesso ha stabilito per noi un re che Pietro e il suo successore ci
invitano a onorare e benedire «affinché dove il raggio spirituale non basta, lì
porti la sua luce l’astro minore» («ut ubi radius spiritualis non
sufficit, ibi splendor minoris luminaris illustret», ivi, 30). Nella medesima lettera, quindi, l’Imperatore viene
indicato sia come un "sole" sia come un "luminare minore",
cioè la luna. È perciò legittimo pensare che tra Monarchia e Commedia vi sia, per questo problema, continuità e non contraddizione.
Presa alla lettera, l’immagine dei due soli pare infatti contrastare
con la conclusione della Monarchia e con l’ispirazione generale della Commedia,
in cui Dante sembra abbandonare l’atteggiamento averroistico del primo libro
della Monarchia (totale autonomia del potere temporale da quello
spirituale) e accostarsi a una concezione subordinazionista molto vicina al
modello tomistico. La conclusione della Monarchia, infatti, sconcerta
perché sembra introdurre una chiara limitazione all’equivalenza delle due auctoritates
e, perciò, alla piena libertà del potere temporale. Dice infatti che
l’ultima veritas esposta, cioè la dimostrazione del fatto che l’auctoritas
del potere temporale deriva inmediate da Dio, non va presa in senso così
stretto (sic stricte) da escludere che l’Imperatore sia per qualche
aspetto (in aliquo) soggetto (subiaceat) al Pontefice, perché la
felicità mortale è in certo senso (quodammodo) ordinata alla felicità
immortale: «Que quidem veritas ultime questionis non sic stricte recipienda
est, ut romanus Princeps in aliquo romano Pontifici non subiaceat, cum mortalis
ista felicitas quodammodo ad immortalem felicitatem ordinetur» (Mn III xv 17). La conclusione dunque è che
Cesare deve a Pietro il rispetto (reverentia) che il figlio primogenito
deve al padre non simpliciter e in linea teorica, ma secundum quid
e cioè per poter agire virtuosius nel mondo (ivi 18). Nel quarto
capitolo sopra citato, Dante aveva aggiunto che l’agire virtuosius del
romano Principe avrebbe tratto giovamento anche dalla "benedizione"
papale: benedictio summi Pontificis (iv
20). Giovamento, appunto, e non legittimazione.
Come è noto, la comprensione del
senso di questi passi ha fortemente impegnato e diviso i suoi numerosi e sempre
più agguerriti interpreti (41). I quali, se
non sono affatto giunti a una visione unanime, hanno certo grandemente
accresciuto la conoscenza del contesto e delle possibili fonti del pensiero
politico dantesco. Senza entrare nel merito di tali questioni, si può tuttavia
comprendere, per il punto di vista etico-politico che qui ci deve interessare,
quale sia la direzione del pensiero dantesco. A Dante importa mostrare come la
malvagità del mondo vada interamente attribuita, innanzitutto, alla
responsabilità umana e non al fatalismo deterministico astrologico e neppure a
un predestinazionismo irrazionale; se infatti si deve ammettere che talvolta
siamo strumenti inconsapevoli della divina provvidenza (utensilia Dei
che ancillantur ignare l’eterna volontà divina), non si deve dimenticare
che rimaniamo pur sempre essenzialmente "liberi" anche in questa
dipendenza («liberi soggiacete»), per cui la responsabilità umana rimane
intatta e decisiva («in voi è la cagione, in voi si cheggia»). Ma la
peculiarità della risposta dantesca sta nel porre tale responsabilità non tanto
a livello dei comportamenti individuali, quanto alla radice o meglio al vertice
del potere. Se il mondo è «tutto diserto d’ogne virtute e di malizia gravido e
coverto», la «cagione» essenziale e radicale sta nel distorto rapporto fra i
due massimi poteri, che dovrebbero assicurare i duo ultima, le due
felicità dell’uomo-orizzonte.
Tale
distorsione però non va intesa genericamente, ma in modo ben determinato e
precisamente va individuata in un duplice movimento: nella colpevole inerzia
del potere temporale, che indugiando in piccoli calcoli di bassa politica
ritarda il sorgere del «nuovo sole», e nella prevaricazione del potere
spirituale, che pretende di sopprimere l’altro potere e di unificare così «la
spada col pasturale». Per sconfiggere i mali del mondo, e porre così le basi
per la doppia felicità, nella prospettiva dantesca è necessaria la grande
politica, cioè non si deve partire dalla riforma dei comportamenti individuali
ma dalla ricostituzione del giusto ordine tra le supreme autorità. Non si
tratta però di "separare", semplicemente, i due poteri, come si
profila in Marsilio e Ockham, ma di restituire alla politica, in termini
aristotelici, il suo intrinseco valore architettonico senza negare, ma anzi
esplicitamente riconoscendo, il primato dello spirituale. La formula dantesca
per il giusto ordine fra i due poteri non è quella di un divorzio consensuale,
del tipo 'libera Chiesa in libero Stato', che è pensabile solo nella modernità.
È piuttosto una formula di tipo agostiniano, che si fonda sulla natura
intimamente conflittuale dell’uomo e perciò dei due poteri. Nella sua condanna
della ierocrazia, infatti, Dante sottolinea il fatto che per un retto
ordinamento del mondo i due poteri vanno distinti e non separati, in modo però
che "reciprocamente si temano": il disordine deriva dal fatto che i
due poteri «giunti, l’un l’altro non teme». E questa distorsione è fatale per
entrambi:
«Dì oggimai che la chiesa di
Roma,
per confondere in sé due
reggimenti,
cade nel fango e sé brutta e la
soma» (Pg xvi, 127-129).
Sarà dunque possibile ovviare ai
mali del mondo solo ricostituendo non tanto una pace paradisiaca, sul modello
di una supposta età dell’oro, quanto piuttosto un realistico equilibrio delle
rispettive forze, che devono pur convivere nel conflitto e tuttavia nel
reciproco riconoscimento. Seguendo questa interpretazione, è possibile
comprendere come l’immagine dei due soli sia quella più adeguata, per esprimere
il rapporto tra i due poteri, e come Dante s’impegni, peraltro molto
sottilmente e rigorosamente, sulla tradizionale immagine del sole e della luna
soprattutto per confutarla, cioè per mostrare quanto la sua tradizionale e
tendenziosa interpretazione allegorica, interessatamente coltivata dalla
letteratura ierocratica, sia fuorviante e perciò inaccettabile (42). Per questo aspetto, l’idea politica dantesca si avvicina
assai più al pessimistico realismo agostiniano, ben consapevole della medietà e
insopprimibile conflittualità umana, che alle prospettive utopiche degli
spirituali.
Se l’immagine dei due soli appare
decisamente più adeguata per esprimere il concetto fondamentale della
indipendenza dei due poteri, non è priva tuttavia di possibili difficoltà (a
parte il fatto che Dante non riprende altrove e quindi non enfatizza
l’immagine). La difficoltà principale, per il nostro tema, riguarda il problema
della libertà, che dovrebbe guidare la soluzione di un ipotetico conflitto tra
i due poteri. Come sappiamo, il genere umano si trova infatti nella migliore
condizione – optime se habet – quando è potissime liberum, cioè
quando può usare senza impedimenti il libero arbitrio (Mn I xii 1 e 7-8). Si tratta perciò di
stabilire in cosa precisamente consista il libero arbitrio. Stando alla celebre
definizione sopra citata, Dante segue nettamente la tradizione boeziana, quando
afferma che il libero arbitrio è liberum de voluntate iudicium e,
soprattutto, quando aggiunge che molti ripetono questa formula ma pochi la
capiscono veramente: quam multi habent in ore, in intellectu vero pauci
(xii 2). Come sopra si diceva,
sembra che Dante ignori deliberatamente la definizione del Lombardo e
sottolinei nettamente l’attribuzione della libertà alla volontà. D’altra parte, come appare dalla
convincente analisi di Bruno Nardi, la formula boeziana può venire intesa in
senso averroistico sottolineando il termine iudicium, che è una
operazione della ragione. Secondo questa lettura, Dante pensa che il libero
arbitrio sia il libero giudizio della ragione che, non impedita dalle passioni,
indica alla volontà ciò che essa deve fare (43).
A differenza dei 'volontaristi', ma anche di Tommaso d’Aquino, per Dante allora
il libero arbitrio è un’attività propria soprattutto della ragione e non della
volontà, anche se egli non dimentica di affermare che «lo maggior don che Dio
per sua larghezza» abbia fatto all’uomo «fu della volontà la libertate» (Pd v, 19-22). Ed è opportuno ricordare,
come fa per esempio Sofia Vanni Rovighi, il passo della Monarchia in cui
Dante sembra seguire Agostino e Anselmo, quando afferma che anche le sostanze
intellettuali e le anime separate conservano il libero arbitrio, benché la loro
volontà sia immutabile (Mn I xii 5)
(44). Questo passo, infatti, conferma il
fatto che per Dante il libero arbitrio è un’attività propria della ragione, più
che della volontà. La prova più convincente è costituita dai celebri versi che
prospettano la situazione del cosiddetto 'asino di Buridano':
«Intra
due cibi, distanti e moventi
d’un
modo, prima si morrìa di fame,
che
liber’uomo l’un recasse ai denti;
sì si
starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente
temendo;
sì si
starebbe un cane intra due dame:
per
che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
dalli
miei dubbi d’un modo sospinto,
poi
ch’era necessario, né commendo» (Pd iv,
1-9).
Se il giudizio della ragione, tra
due termini opposti, è equivalente, il soggetto si trova in condizione di
'necessità' e perciò di paralisi della volontà. Comunque, ciò che importa
sottolineare è che la ragione si costituisce come l’istanza superiore e
decisiva. Effettivamente, quanto sopra si diceva circa il potere
dell’imperatore come «cavalcatore de la umana volontade» va integrato con la
successiva osservazione, secondo la quale il potere imperiale ha un limite
invalicabile nella necessità razionale, diversamente da Dio che è infinito e
similmente all’uomo che non ha potere di comando su molte operazioni, come
quelle fisiologiche, e sulle leggi fisico-matematiche di cui «non fattori
propriamente, ma li trovatori semo» (Cv IV
ix 6). Per questo motivo, l’imperatore non ha per esempio alcun potere
di stabilire la vera definizione di nobiltà, perché «diffinire di gentilezza
non è de l’arte imperiale» (ivi 16). Appartiene all’'arte' imperiale, invece,
guidare le volontà: a patto, appunto, che non contraddica la necessità
razionale.
Se quindi, per tornare alla
similitudine dei due soli, vi fosse conflitto tra potere spirituale e potere
imperiale, e se i due poteri fossero «distanti e moventi d’un modo», se fossero
cioè perfettamente identici, la scelta sarebbe impossibile. Perché la volontà
possa decidere per l’uno o per l’altro, è dunque necessario che la ragione vi
scorga una differenza, sebbene tale da non comprometterne l’identità
ontologica. Infatti una tale differenza c’è, ed è quella indicata nella
vessatissima conclusione della Monarchia, che alla luce delle precedenti
considerazioni si può forse interpretare in coerenza con il fondamentale
pensiero dantesco: il potere temporale solo «in qualche cosa» (in aliquo)
e non absolute deve sottostare al potere spirituale, esattamente per
quel tanto che la felicità mortale è «in qualche modo» (quodammodo), e
non simpliciter, ordinata ma non gerarchicamente sub-ordinata alla
felicità immortale (45). La misura della
differenza, che non compromette l’identità, viene espressa con la fragile
figura della reverentia, sulla cui consistenza si deve esprimere appunto
la capacità di giudizio razionale propria e costitutiva della libertà.
Conclusione: laicità del
pensiero etico-politico dantesco
Non si deve quindi esagerare il
tratto di laicità, pure indubbio e fortemente originale, del pensiero
etico-politico dantesco, il quale non toglie ma anzi rinnova l’idea medievale
dell’equilibrio tra i due poteri: un equilibrio storicamente forse impossibile,
ma questa sembra essere stata la prospettiva utopica di Dante. Non si può
parlare infatti di un laicismo in senso moderno, come sembra autorizzare la
seducente ma fuorviante formula secondo cui nella Monarchia dantesca si
trova «la prima rivolta contro la trascendenza medievale»: ovviamente, il laicismo
dantesco non è immanentismo né tantomeno ateismo. È quindi problematico
sostenere che Dante assume, nella Monarchia, una posizione laica
«estremamente interessante e, dati i tempi, notevolissima per la sua modernità»
(46), anche perché si deve poi ammettere che
Dante può difendere il suo laicismo «a patto di rituffare il suo imperatore nel
sovrannaturale», in quanto «per dimostrare l’indipendenza del potere temporale,
non aveva altra via che di sacralizzarlo» (47).
Non è però neppure un laicismo di tipo ereticale, volto a distruggere l’auctoritas
della Chiesa e quindi a romperne l’unità: per Dante si tratta di negare
l’"abuso" di questa necessaria, se mantenuta nei suoi giusti limiti e
cioè con l’esclusione del potere in temporalibus, autorità. L’unità va
certamente salvaguardata, non si deve lacerare la «tunica inconsutile» di
Cristo. Si potrebbe dire che è un laicismo politico anticlericale, ma nel senso
per cui questo termine significa il netto rifiuto del potere che la donazione
di Costantino ha reso possibile, nel senso cioè della massima che Dante usa per
condannare senza attenuanti (e quindi rifiutando non solo la tesi della potestas
directa fatta propria dalla ierocrazia estremista, ma anche la tesi
moderata della potesta indirecta) la pretesa di trarre alcun profitto da
un errore: usurpatio iuris non facit ius (Mn III x 20). Per quest’ultimo aspetto, la laicità del pensiero
dantesco si esprime nel rifiuto di utilizzare in senso agostiniano la figura
della felix culpa: il potere temporale della Chiesa è per Dante un
errore simpliciter, che non si può salvare né con la scusa della pia
intentio né col pretesto che da esso forse è possibile ricavare qualche
bene.
La dimensione laica del
pensiero dantesco va certamente contestualizzata, come fa Bruno Nardi quando
mostra esaurientemente quali siano le condizioni storiche da tenere presenti
per comprendere le posizioni che Dante assume (48).
Dal punto di vista concettuale, tuttavia, si può forse cogliere nel modo
migliore lo spirito laico della Monarchia contrapponendo l’immagine dei
“due soli” a quella tradizionale dei duo luminaria magna, sole e luna.
Soltanto l’immagine dei due soli consente infatti di rappresentare
simbolicamente in modo veramente adeguato l’idea politica fondamentale, per cui
l’Impero non solo ha ricevuto la sua totale e universale auctoritas direttamente
da Dio, senza mediazioni da cui attendere legittimità e cui perciò rendere
conto, ma esercita inoltre il suo potere usando come strumento e guida soltanto
i phylosophica documenta, cioè praticando le virtù morali e
intellettuali (Mn III xv 8). In
questo senso, l’idea che il «paradiso terrestre» della Monarchia sia
opera della sola ragione e perciò «di un Virgilio che non aspetta nessuna
Beatrice nel fondo del suo limbo per largire all’uomo i suoi philosophica
documenta», cioè l’idea secondo cui «La Monarchia è il primo atto di
ribellione alla trascendenza scolastica» (49),
è sostanzialmente giusta, come ripete spesso Bruno Nardi (50), e non un modo di dire «banalmente retorico» (51), né può venire intesa come «una formula apparentemente
mirabile» ma in realtà «letteralmente priva di senso» a causa del suo presunto
«immanentismo» (52). Rappresentato come un
sole, l’Impero non è titolare solo della mera potestas, ma anche della
piena e intangibile auctoritas, come dimostra il comportamento, decisivo
nella interpretazione dantesca, di Cristo che non solo non contesta
l’"autorità" di Augusto e di Tiberio, ma anzi la riconosce e
convalida.
Inoltre, un aspetto decisivo
della laicità del pensiero dantesco è costituito dalla sua critica radicale
della donatio Constantini, critica vicina alla posizione dei Catari, dei
Valdesi e degli Spirituali (53), ma con un
tratto di originalità che la supera, quando contro la donazione invoca
l’inedita istanza del "diritto umano". Per questo aspetto il pensiero
dantesco è laico, cioè, anche nei confronti del potere temporale. La donazione
di Costantino fu infatti per Dante (che non ne contesta la realtà storica) un
gravissimo errore, perché l’integrità dell’Impero è intangibile, essendo parte
costitutiva del "diritto umano" contro cui neppure l’Imperatore può
agire; Costantino perciò non poteva alienare neppure la più piccola parte
dell’Impero, se non andando contra ius humanum (Mn III x 9). Il genere umano ha infatti un
inalienabile "diritto" all’unità dell’Impero, come necessaria
condizione del suo bene esse, quindi che la «tunica inconsutile» non
vada lacerata è un diritto dell’umanità assoluto e irrinunciabile. Come la
Chiesa ha il proprio fondamento in Cristo, così l’Impero si fonda su questo ius
humanum (ivi, 7). Compiendo questo atto (Dante non dubita che la donatio
sia un fatto storico, ne contesta soltanto la legittimità giuridica),
Costantino si è reso responsabile di un atto contro cui Dante, nella Monarchia, lancia un’invettiva degna della terribilità della Commedia: il popolo sarebbe felice, se l’infirmator Imperii non fosse mai nato, o se almeno la sua pia
intentio non l’avesse tratto in inganno (II xi 8). La donatio, infatti, è condannata non solo
come atto contrario al diritto umano inalienabile, ma anche per il male che ha
provocato:
«Ahi, Costantin, di quanto mal
fu matre,
non la tua conversion, ma
quella dote
che da te prese il primo ricco
patre» (If xix 115-117).
A maggior ragione, ovviamente,
il laicismo di Dante si manifesta nei confronti della Chiesa che ha
colpevolmente accettato quella donatio. Questa accettazione fu infatti
per Dante una colpa ben più grave della donazione stessa, essendo la Chiesa del
tutto impossibilitata a ricevere doni temporali per esplicito comando
evangelico (Mt 10, 9-10): «Sed Ecclesia omnino indisposita erat ad temporalia
recipienda per preceptum prohibitivum expressum» (Mn III x 14). Non può ricevere temporalia, certamente, per
modum possessionis, così come l’Imperatore non poteva donarli per modum
alienationis (ibid., 15). L’unico modo accettabile di ricevere doni
temporali, per la Chiesa, è quello di cui gli apostoli hanno mostrato
l’esempio, cioè non per possedere, ma per dispensare ai poveri (ibid., 17). E la sua pretesa, fatta valere con forza
degna di miglior causa dalla teocrazia papale e difesa dalla letteratura
ierocratica, di possedere la facoltà di attribuire autorità al potere temporale
contraddice la "forma" stessa della Chiesa, è quindi una pretesa contra
naturam Ecclesie (xiv 1-2). La
"forma" della Chiesa è infatti costituita dalla vita di Cristo, cioè
dalla sua parola e dalle sue azioni, da cui si ricava l’esplicito rifiuto del
potere temporale: «Il mio regno non è di questo mondo» (Giov. 18, 36).
In conclusione, l’atteggiamento
"laico" del pensiero dantesco si manifesta, essenzialmente, nel
rivendicare come ultima istanza l’esigenza della più rigorosa razionalità, in
relazione a entambi i mondi nei cui confronti l’uomo si costituisce come
"orizzonte". Si manifesta, quindi, nella difesa dei duo ultima
non commisti e ugualmente assoluti, da perseguire con le vie diverse, ma non
contraddittorie, dei phylosophica documenta e dei documenta
spiritualia. Nella Commedia non appare più la formula dei duo
ultima ciascuno assoluto nel proprio ordine, ma si usa la figura
altrettanto vincolante dei "due soli", per cui si può dire che il
pensiero dantesco non è, su questo punto, sostanzialmente mutato.
Note
(1) É. Gilson, Dante e la filosofia, Jaca Book, Milano 1987,
p. 131. back
(2) Il Convivio è qui
citato, con la sigla Cv, nell’Edizione Nazionale della Società Dantesca
Italiana: Dante Alighieri, Convivio,
a cura di F. Brambilla Ageno, Le
Lettere, Firenze 1995; si è tenuto presente anche il testo a cura di C. Vasoli, in Dante Alighieri, Opere minori, tt. I, II, Ricciardi,
Milano-Napoli 1987. back
(3) L’espressione 'pane de
li angeli', che Dante usa poi soltanto un’altra volta (Pd II, 11) e che
tuttavia è richiamata in espressioni simili come la 'cotidiana manna' (Pg XI,
13) e la 'verace manna' (Pd XII, 84), è stata variamente interpretata dai
dantisti, in relazione alla sua derivazione biblica (Salmo 77, 25 e Sap. 16,
20, da Es. 16, 2-36) e alla sua diffusa presenza nella letteratura sia
patristica sia scolastica. Cfr. B. Nardi,
«Lo pane de li angeli», in Id., Nel
mondo di Dante, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1944, pp. 47-53; B. Nardi, «La 'vivanda' e il 'pane' del
Convivio dantesco», in Id.,
Saggi e note di critica dantesca, Ricciardi, Milano-Napoli 1966, pp.
386-390; Gilson, Dante e la
filosofia, pp. 22-23 e 122-123; A. Mellone,
voce Pane degli angeli, in Enciclopedia Dantesca (d’ora in poi ED), vol.
IV, Roma 1984, pp. 266-267. back
(4) Probabilmente, Dante
prende l’aggettivo 'compagnevole' dal volgarizzamento, avvenuto nel 1288, del De
regimine principum di Egidio Romano, la cui conoscenza è attestata dalla
esplicita citazione di Cv IV xxiv 9;
cfr. la nota di commento di C. Vasoli
a Dante Alighieri, Convivio,
in Id., Opere minori
(d’ora in poi le note di Vasoli saranno indicate con la sigla VasCv, seguita
dal numero di pagina), p. 550 e la voce Politica, a cura di E. Berti, in ED, vol. IV, Roma 1984, p.
586. back
(5) B. Nardi, «Filosofia e teologia ai tempi
di Dante in rapporto al pensiero del Poeta», in Id., Saggi e note di critica dantesca, p. 56. La Monarchia
viene qui citata, con la sigla Mn, nell’edizione a cura di B. Nardi (le cui note di commento al testo
saranno indicate con la sigla NaMn, seguita dal numero di pagina), in Dante Alighieri, Opere minori,
t. II. back
(6) NaMn 282 ne riporta un
elenco essenziale: l’Etica Nicomachea e la Politica di
Aristotele, opere di diritto dei giuristi bolognesi, il Decreto di
Graziano, le Decretali pontificie, il De regimine principum e
forse il De ecclesiastica potestate di Egidio Romano, vari scritti di
gioachimiti francescani. back
(7) Gilson, Dante e la filosofia, pp. 102-103. back
(8) Ivi, p. 104. back
(9) Cfr. B. Nardi, Dante e la filosofia, in Id., Nel mondo di Dante, pp.
211-221. back
(10) Cfr. ivi, p. 211; anche
B. Nardi, Tre pretese fasi del
pensiero politico di Dante, in Id.,
Saggi di filosofia dantesca, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 303, e
VasCv 433. back
(11) Cfr. VasCv 221-222. Sul complesso rapporto fra il Convivio e
l’opera di Alberto Magno, oltre ai continui riferimenti diffusi in quasi tutte
le opere di Nardi, cfr. M. Corti,
La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Einaudi,
Torino 1983, pp. 109-123; Th. Ricklin,
L’image d’Albert le Grand et de Thomas d’Aquin chez Dante Alighieri,
«Revue Thomiste» 97/1 (1997), pp. 129-142; G. Fioravanti,
«Dante e Alberto Magno», in A.
Ghisalberti (ed.), Il pensiero filosofico e teologico di Dante
Alighieri, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 93-102. In questi lavori,
tuttavia, il tema da noi qui trattato non viene toccato. back
(12) Cfr. B. Nardi, Dante e la cultura
medievale, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 162-166 e Id., Tre pretese fasi, pp. 302-310. back
(13) Nardi, Dante e la filosofia, p. 221. back
(14) R. Imbach, Dante, la
philosophie et les laïcs, Cerf-Editions Universitaires de Fribourg,
Paris-Fribourg 1996, p. 137. back
(15) Ivi, p. 138. back
(16) Sulla diffusione del topos
Marta-Maria nel Medioevo, attraverso specialmente lo Speculum historiale
di Vincenzo di Beauvais e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze, cfr. V.
Saxer, Le culte de Marie
Madeleine en Occident des origines à la fin du Moyen-âge, Auxerre-Paris
1959; M. Corti, La felicità
mentale, p. 60; VasCv 731. Sul senso e la consistenza di passi biblici
nell’opera dantesca cfr. A. Penna,
voce Bibbia in ED, vol. I, Roma 1984, pp. 626-629, e C. Vasoli, «La Bibbia nel Convivio
e nella Monarchia», in Id.
Otto saggi per Dante, Le Lettere, Firenze 1995, pp. 65-81. back
(17) L’uso dei quattro nomi
per indicare la vita contemplativa (Rachele e Maria) e quella attiva (Lia e
Marta) è già presente in Gregorio Magno,
Moralia in Iob, VI, 37. Cfr A. Penna,
voce Maria di Betania, in ED, vol. III, Roma 1984, pp. 833-834. back
(18) Gilson, Dante e la filosofia, p. 127. back
(19) Cfr. Corti, La felicità mentale, p.
115, che sottolinea l’importanza decisiva del commento Super Ethica di
Alberto Magno, importanza che viene ridimensionata, per le dipendenze testuali,
da Fioravanti, «Dante e Alberto
Magno», pp. 97-98, perché «Dante utilizza i testi di Alberto come fonte di
informazioni dossografiche». back
(20) Gilson, Dante e la filosofia, p. 133. back
(21) Cfr. L. Minio Paluello, «Tre note alla Monarchia»,
in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, vol. II,
Sansoni, Firenze 1955, pp. 522-524. back
(22) B. Nardi, Il concetto dell’Impero
nello svolgimento del pensiero dantesco, in Id., Saggi di filosofia dantesca, pp. 256-257. back
(23) G. Gentile, Studi su Dante, vol.
XIII delle Opere, Sansoni, Firenze 1965, p. 20. back
(24) De fide catholica contra haereticos I, 30 (PL 210, 332 C). Cfr.
H.D. Saffrey, «L’état actuel des
recherches sur le Liber de causis comme source de la métaphysique au
Moyen Age», in Die Metaphysik im Mittelalter, De Gruyter, Berlin 1963,
pp. 267-271. back
(25) Imbach, Dante, la
philosophie et les laïcs, p. 249. back
(26) Cfr. NaMn 301 e F. Cheneval,
Die Rezeption der Monarchia Dantes bis zur Editio princeps im Jahre 1559,
Fink, München 1995. Per il testo di Guido Vernani cfr. N.
Matteini, Il più antico oppositore politico di Dante. Guido Vernani
da Rimini. Testo critico del «De reprobatione Monarchiae», Cedam, Padova
1958. back
(27) M.T. Fumagalli Beonio Brocchieri, Il
pensiero politico medievale, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 129. back
(28) Cfr. Minio Paluello, Tre note alla
«Monarchia», pp. 503-511; NaMn 300-301. back
(29) Cfr. C. Vasoli, «La pace nel pensiero di
Dante, di Marsilio da Padova e di Guglielmo d’Ockham», in Id., Otto saggi per Dante, pp.
41-63. back
(30) Cfr. Ph. Delhaye, voce Giustizia in
ED, vol. II, Roma 1984, p. 234. back
(31) Cfr. A. Di Bello, 'Auctoritas' e
'Potestas' come termini chiave nell’edificazione della Monarchia pontificia
medievale. Un tentativo di analisi semantica, «Filosofia Politica» XV/2
(2001), pp. 207-232. back
(32) NaMn 430. back
(33) B. Nardi, «Di un’aspra critica di fra
Guido Vernani a Dante», in Id.,
Saggi e note di critica dantesca, p. 378. back
(34) Cfr. S. Vecchio, Ira mala / ira bona.
Storia di un vizio che qualche volta è una virtù, «Doctor Seraphicus» XLV
(1998), pp. 41-62. Sulla passione dell’ira nel pensiero medievale, cfr. C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel
Medioevo, Einaudi, Torino 2000, pp. 54-77. back
(35) Delhaye, voce Giustizia in ED, p. 234. back
(36) Sull’origine e i dubbi
circa l’autenticità della formula cfr. le note di commento di A. Frugoni e G.
Brugnoli alle Epistole, in Dante
Alighieri, Opere minori, t. II, pp. 598-599. back
(37) G. Vinay, Interpretazione della
“Monarchia” di Dante, Le Monnier, Firenze 1962, p. 10. back
(38) Cfr. Rime CXI
9-11: «Però nel cerchio de la sua palestra / liber arbitrio già mai non fu
franco, / sì che consiglio invan vi si balestra». back
(39) Cfr. E.N. Girardi, «Al centro del Purgatorio:
il tema del libero arbitrio», in Ghisalberti,
Il pensiero filosofico e teologico di
Dante Alighieri, pp. 21-38.
back
(40) Cfr. B. Nardi, «Intorno ad una nuova
interpretazione del terzo libro della Monarchia dantesca», in Id., Dal «Convivio» alla «Commedia»
(Sei saggi danteschi), Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma
1960 (rist. anast. 1992), pp. 206-207. È possibile inoltre che l’immagine dei
due soli abbia un’origine astronomica, suggerita forse a Dante attento studioso
della natura dal terzo libro delle Meteore di Aristotele, commentato da Alberto Magno, e da Seneca, Nat. Quaest. I, 11-13,
come suggerisce Nardi, Nel mondo di Dante, p. 159. back
(41) Cfr., per citare solo
pochi testi classici tra loro in forte tensione, M. Maccarrone, Il terzo libro della 'Monarchia', «Studi
Danteschi» 33 (1955), pp. 5-142; Nardi,
«Intorno ad una nuova interpretazione», pp. 151-313; Vinay, Interpretazione della "Monarchia" di
Dante. back
(42) Cfr. Nardi, «Intorno ad una nuova
interpretazione», pp. 185-207. Per una visione articolata e analitica delle
discussioni fra letteratura imperiale e letteratura ierocratica, cfr. C. Vasoli, «Il pensiero politico della
Scolastica», in L. Firpo (dir.), Storia
delle idee politiche economiche e sociali, vol. II, t. II, Utet, Torino
1983, pp. 367-462; C. Dolcini
(ed.), Il pensiero politico del Basso Medioevo, Pàtron, Bologna 1983; R.
Lambertini, «Il re e il filosofo:
aspetti della riflessione politica», in L. Bianchi
(ed.), La filosofia nelle università. Secoli XIII-XIV, La Nuova Italia,
Firenze 1997, pp. 345-385; AA.VV., Etica e politica: le teorie dei frati
mendicanti nel Due e Trecento, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo,
Spoleto 1999; R. Lambertini, «Da
Egidio Romano a Giovanni di Parigi, da Dante a Marsilio: fautori e oppositori
della teocrazia papale agli inizi del Trecento», in C. Dolcini (ed.), Il pensiero politico. Idee teorie dottrine,
vol. I: Età antica e Medioevo, Utet, Torino 1999, pp. 209-254. back
(43) Cfr. B. Nardi, «Il libero arbitrio e la
storiella dell’asino di Buridano», in Id.,
Nel mondo di Dante, pp. 287-303. back
(44) Cfr. S. Vanni Rovighi, voce Arbitrio in
ED, vol. I, Roma 1984, p. 348. back
(45) Cfr. Nardi, «Intorno ad una nuova
interpretazione», p. 302. back
(46) Vinay, Interpretazione della "Monarchia" di
Dante, p. 37. back
(47) Ivi, p. 69. back
(48) Cfr. Nardi, Dal “Convivio” alla
“Commedia”, pp. 96-108. back
(49) Gentile, Studi su Dante, p. 50. back
(50) Cfr. Nardi, Dal “Convivio” alla
“Commedia”, pp. 105-106. back
(51) Vinay, Interpretazione della “Monarchia” di Dante, p.
41. back
(52) Come sostiene Gilson, Dante e la filosofia, p.
152, nota 2. back
(53) Cfr. B. Nardi, La «donatio Constantini» e
Dante, in Id., Nel
mondo di Dante, pp. 131-136. back