Etica & Politica / Ethics & Politics, 2002, 2
http://www.units.it/dipfilo/etic_e_politica/2002_2/indexalliney.html
Velle malum ex pura libertate: Duns Scoto e la banalità del male
Guido
Alliney
Università di Trieste
1. Il problema
L’evidente citazione del titolo di un
famoso volume di Hannah Arendt posta in testa a questo studio vuole certamente
ricordare come la Arendt abbia dedicato pagine intense alla dottrina della
volontà di Duns Scoto; ma vuole, anche, porre un punto prospettico dal quale
riflettere sul significato per l’etica della modernità di alcuni aspetti
particolari, e non troppo studiati, della dottrina del teologo scozzese.
Per prendere avvio dalla fortuna del
volontarismo scotiano nella riflessione della Arendt, basterà ricordare, nelle
opere di Hannah Arendt, ma anche in quelle di un pensatore a lei affine quale
Hans Jonas, i giudizi espressi su Duns Scoto, da ambedue i filosofi
riconosciuto artefice di un fondamentale snodo del pensiero occidentale. Anche
se, come vedremo brevemente, le valutazioni non sono nei due casi identiche,
resta fermo che alcuni aspetti della teoria della volontà del teologo
scolastico sono sembrati, ai due fra i più importanti allievi di Martin
Heidegger, meritevoli di essere ripresi nel tentativo di ripercorrere lo
sviluppo del pensiero occidentale. È noto che sia Jonas sia Arendt non sono
tuttavia filosofi heideggeriani, rimproverando al maestro il primo di essere
‘pagano’, ovvero di non prendere sul serio le esigenze etiche della filosofia (1); non diversamente la seconda di voler fare
dell’uomo Dio, e di mancare perciò di coscienza responsabile (2). Ciò che li allontana da Heidegger, e al tempo stesso li
accomuna, è l’esigenza di volgere nuovamente la filosofia al mondo,
disancorandola dalle secche dell’astratta speculazione fine a se stessa: e non
a caso le loro opere solo recentemente hanno trovato una eco significativa
nella filosofia accademica (3).
Si
è ricordata la propensione per una filosofia etica della storia dei due
pensatori, perché in essa va vista la motivazione dell’interesse per Scoto. Non
è certo la sede per esporre nella sua ampiezza la lettura che di Scoto offre
Hans Jonas in alcune pagine di «Elementi
ebraici e cristiani nella filosofia: il loro contributo alla nascita dello
spirito moderno», capitolo di Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi
filosofici, uscito negli Stati Uniti nel 1974, anche se pubblicato in
traduzione in Italia solo nel 1991 (4); e,
soprattutto, Hannah Arendt, la cui frequentazione dei testi scotiani si snoda
almeno per gli ultimi quindici anni della sua vita, dal saggio Freedom and
Politics: A Lecture pubblicato nel 1960 sulla «Chicago Review», e rielaborato
poi per divenire il capitolo «Cos’è la libertà» in Fra passato e futuro dell’anno
successivo (5), al suo ultimo libro La
vita della mente, terminato per la seconda parte, «Il volere», nel dicembre
del 1975, per uscire in italiano nel 1987 (6).
Nel caso della Arendt una tale esposizione ci imporrebbe di ricostruire i
mutamenti teorici della sua posizione speculativa intrinsecamente intrecciati
con i diversi giudizi espressi a distanza di quindici anni nel confronti del
teologo francescano (7).
Nei limiti dunque di un’introduzione ad
uno studio su Duns Scoto, allo scopo cioè di isolare il plesso teorico da
mettere a tema, sarà sufficiente ricordare brevemente in quale senso, nei due
volumi usciti a distanza di un anno l’uno dall’altro, sia Jonas sia Arendt
riconoscano nella dottrina della volontà di Scoto un momento centrale della
storia della filosofia occidentale. Jonas vede come «gravida di conseguenze
filosofiche» (8) la teoria della volontà in
Dio, e precisamente la convinzione scotiana che il volere divino non abbia
altra causa che se stesso, e che non sia perciò subordinato all’intelletto. A
parere di Jonas, l’importanza di questa posizione esubera dal campo
strettamente teologico in cui nasce per investire interamente l’ambito della
moralità nella successiva secolarizzazione del pensiero moderno: se infatti
precetti e valori hanno come unico fondamento la scelta volontaria di Dio, e
non sono tali per una precedente connessione al bene, essi perdono validità se
privati del loro «elemento divino». Con il passaggio all’età moderna, dunque, e
l’abbandono di ogni prospettiva teologica nella riflessione etica, si
assisterebbe ad un crollo dei valori, se non intervenisse la volontà umana a
garantir loro protezione. In definitiva, «l’uomo eredita il ruolo di creatore e
protettore dei valori, senza alcuna luce che guidi la sua scelta […]. Fu questo
l’effetto potenzialmente dirompente della svolta determinata dal confluire di
scotismo e nominalismo, che segnò il passaggio dal Medioevo all’Età Moderna» (9). Come si è già detto, non è compito del
presente studio saggiare la validità storica della ricostruzione di Jonas. Per
i nostri scopi vale notare come il centro dell’interesse di Jonas per Scoto sia
l’autonomia umana nel porre valori orientativi del proprio agire morale.
Più complesso l’approccio di Hannah
Arendt, che ne La vita della mente dedica molte pagine al teologo
scozzese. Si può tuttavia vedere il perno di ogni sua considerazione nel
riconoscimento scotiano della contingenza come fondamento della libertà della
volontà (10). La Arendt intende con questo
indicare in Scoto il primo, e inascoltato, filosofo cristiano che, prendendo
sul serio la questione della libertà della volontà, non si limita a
considerarla, alla stregua dell’etica antica e aristotelica, come disposizione
alla scelta fra possibilità già date, bensì come autonoma capacità progettuale.
Si tratta di superare il predominio
storicamente concesso al pensare, cioè all’eterno presente dell’io che pensa
nella quiete dell’Ora ai margini dell’esistenza umana incalzata dal tempo, e
l’implicita concezione del futuro come mera conseguenza del passato, della
storia come attualizzazione di ciò che già esiste in potenza, e dove perde
quindi pregnanza ogni differenza fra cause naturali e causalità umana. Poiché
invece rivolgersi autenticamente al futuro significa occuparsi non più di
oggetti, bensì di progetti, la Arendt contrappone a tutto ciò il primato della
libertà dell’azione, che si prefigura in una concezione contingente del mondo
dove si possano aprire spazi per progetti che neghino la forza coercitiva del
presente e del passato sul futuro, dove insomma si dia inizio ad una nuova
serie di eventi tramite la volontà, «il nostro organo spirituale di un futuro
per principio indeterminabile e pertanto foriero di novità» (11).
Se in Paolo e in Agostino vede coloro
che per primi colsero la complessità del volere, e le implicite possibilità di
questa facoltà, la Arendt si sorprende tuttavia per la persistente
considerazione, anche in epoca cristiana, della volontà come puro organo
esecutivo della ragione (12). La questione,
nei termini dei limiti dell’autonomia della volontà, è se essa sia atta
unicamente a deliberare «sui mezzi di un fine già scontato, che non possiamo
scegliere» (13), perché i fini ineriscono
alla natura dell’uomo; o se invece possa attualizzare un progetto che «nega
tanto l’adesso quanto il passato, minacciando così il presente che dura dell’io
pensante» (14). Solo Duns Scoto, ritiene la
filosofa tedesca, «non cercò un compromesso tra la fede cristiana e la
filosofia greca» (15) indicando invece come
specifico del cristianesimo proprio il fatto che Dio agisce contingentemente.
Scoto è dunque l’unico pensatore disposto a pagare «il prezzo per la libertà»,
cioè ammettere «che la parola ‘contingente’ non abbia nessuna connotazione
spregiativa» (16). In accordo con la Arendt,
Scoto svilupperebbe la propria dottrina affermando che la volontà libera non è
tale per la scelta dei mezzi volti a conseguire un fine già dato alla natura
umana, ma proprio per la capacità di agire liberamente verso tutto ciò che le
viene presentato. Conseguentemente, l’uomo può odiare Dio e trovare in ciò la
propria soddisfazione (17). Parrebbe logico
che, fosse tale la posizione di Scoto, questi assegnasse alla volontà anche la
capacità di porsi dei fini autonomi, e dunque anche malvagi. La Arendt ritiene
però che lo scozzese, pur avendo pensato a questa possibilità come alla vera
perfezione della volontà, non abbia poi sviluppato tale idea per non
riconoscere all’uomo la creatività, prerogativa divina. «Se così fosse –
conclude infatti la Arendt – la creatura sarebbe realmente una sorta di “dio
mortale”» (18).
Se si vuole raccogliere quanto è stato
detto in poche righe, si può dire che sia per Hans Jonas, sia per Hannah Arendt
l’importanza storica del pensiero di Scoto risiede in quella positiva
considerazione della contingenza come piena autonomia della volontà rispetto
all’intelletto che, storicamente, sfocerà poi nel conferimento alla volontà
della facoltà di perseguire fini o valori liberamente posti. Tale autonomia, se
pur in modo diverso nei due pensatori, va infatti a fondare la modernità
dell’uomo, che, non più costitutivamente ordinato ad un fine investigato dalla
ragione, e perciò necessariamente voluto, diviene artefice della storia, solo
responsabile del proprio futuro. Jonas, tuttavia, vede in Scoto un momento del
divenire storico del nostro pensiero, sicché solo con il successivo superamento
dell’ordinamento divino postulato invece dal teologo scozzese la modernità
assegnerà all’uomo il ruolo, come si è detto, di «creatore e protettore dei
valori». Per la Arendt, al contrario, il pensiero di Scoto non rappresenta un
passaggio necessario della storia del pensiero: anzi, la sua lezione non fu
ascoltata, ed egli rimase «il solitario paladino del primato della volontà
sull’intelletto» (19) sino a che Bergson
prese nuovamente sul serio la questione della libertà come inizio, premessa,
secondo la Arendt, alla possibilità di «aprire una breccia nel muro del tempo» (20), per dirla con Alessandro Dal Lago, di
abitare cioè il presente, scrigno del passato e scaturigine del futuro, come il
luogo miracoloso in cui, come la filosofa tedesca scrive in Tra passato e
futuro, «quando l’azione riesce a crearsi uno spazio nel mondo, la libertà
può “apparire”, uscendo dal proprio nascondiglio» (21).
Questo, come è evidente, non vuole
essere uno studio sulla lettura di Scoto nella filosofia del novecento, né
sulla concezione della libertà in Hannah Arendt. Le belle pagine dedicate a
Scoto dalla Arendt ci aiutano però a porre la questione che qui, in sede di
storia della filosofia, si vuole affrontare. Nella sua articolata analisi del
pensiero di Scoto la Arendt assegna, come si è detto, alla volontà la capacità
di odiare Dio, ma non la libera concezione di disegni, il potere cioè di
fissare da sé i propri fini. Questa conclusione, per quanto giustificata dalla
Arendt dalla prudenza di Scoto a non avvicinare l’uomo a Dio, non sembra troppo
in sintonia con l’assoluta autonomia della quale è fatto portatore il volere,
né è del tutto chiaro cosa intenda la filosofa tedesca affermando che Scoto
«non sviluppò l’idea» di un fine liberamente posto. Per avvicinarsi allora al
tema specifico della ricerca, conviene notare che Hannah Arendt, qui come
altrove, non fa riferimento diretto ai testi scotiani, ma si affida alla
letteratura allora esistente. In particolare, è il libro di Walter Hoeres, La
volontà come perfezione pura in Duns Scoto, tuttora fondamentale
riferimento per chi voglia affrontare lo studio della teoria della volontà di
Scoto, la fonte dell’allusione alla capacità di progettare fini autonomi.
Rivolgendosi direttamente allo scritto
del filosofo austriaco non si ha però una trattazione più convincente della
questione. Hoeres sostiene che per Scoto esiste la possibilità che la volontà
possa evitare di basarsi sulla conoscenza intellettuale dei valori e porsi il
proprio fine del tutto liberamente, dove ‘liberamente’, precisa Hoeres, deve
essere inteso come ‘negativamente indeterminato’ (22).
Tuttavia, prosegue lo studioso, va ricordato che Scoto non intende come
imperfezione la capacità di autodeterminazione che qui si rende manifesta
perché essa è un elemento costitutivo della volontà in quanto perfezione pura.
Se nel caso in esame la volontà ha perso ogni collegamento con la valutazione
razionale dell’oggetto, proprio per questo la sua facoltà di autodeterminazione
«esiste in tutta la sua purezza in quanto non è più legata alla razionalità
dell’uomo» (23). Hoeres conclude che il
libero progettare fini rappresenta la perfezione della volontà più della
capacità di peccare, perché «non è assolutamente necessario che lo scopo sia
cattivo, ed inoltre la vera e propria capacità di peccare, per la quale si
parla di recte malitia (sic) è […] solo un caso particolare della libera
progettazione di fini» (24).
Sorprendentemente tuttavia lo storico austriaco continua rilevando come la
razionalità della volontà, «costituendo un momento intrinseco all’essenza della
volontà, non può mai svanire senza che venga tolta la stessa volontà» (25), non facendo più intendere a questo punto
il senso della precedente affermazione per la quale l’autodeterminazione pura
potrebbe esistere slegata dalla razionalità. D’altra parte, Hoeres sembra
confermare questa concezione della libertà come pura autodeterminazione
affermando più oltre che la volontà non è portata a seguire sempre la propria
inclinazione al bene, «altrimenti sarebbe impossibile progettare con perfetta
libertà, cioè arbitrariamente, il finis praestitutus» (26), cioè il fine autodeterminato.
Tuttavia egli scriverà, ancora nello
stesso volume, che la volontà, nonostante possa appagarsi solo nel bene
infinito, «presupposto il suo orientamento al bene, pone a se stessa il proprio
fine» (27). Hoeres, sostenendo ora che anche
un bene intermedio può essere desiderato e voluto per sé in base alla tendenza
al bene e all’autodeterminazione che congiuntamente governano la volontà,
lascia dunque intendere che i fini posti liberamente possono essere solo beni
parziali, nei quali comunque non vi è pieno appagamento della volontà.
Si tratta, come è chiaro, di una
questione complessa, che mette in campo l’autonomia della volontà in rapporto
alla sua razionalità e alla sua propensione al bene, intrecciata infine con la
possibilità di peccare e con la definizione stessa di peccato, la quale rimanda
poi a quella capacità di odiare Dio ammessa dalla Arendt, e che invece Hoeres
considera esclusa, seppure con «esitazioni e tentennamenti», da Scoto (28). Per quanto non di importanza marginale,
il tema qui delimitato non è stato oggetto di studi particolari, ed è stato
normalmente trattato solo tangenzialmente in opere spesso volte allo studio
complessivo della dottrina della volontà scotiana (29). Dato dunque il rilievo del soggetto sia per una
ricostruzione del pensiero scotiano in ambito storico-filosofico, sia per una
più esatta collocazione di tale pensiero in sede di storia delle idee, vale
invece la pena di avvicinarsi ai principali testi dedicati da Scoto
all’argomento e sulla scorta di questi tentare una ricostruzione organica della
sua posizione.
2. Il finis praestitutus
Duns Scoto affronta il problema della
determinazione autonoma dei fini nella prima distinzione del primo libro dell’Ordinatio,
dove, discutendo se l’oggetto della fruizione sia in sé il fine ultimo, pone
tre tipi di fine ultimo inteso in generale, a prescindere cioè dalla sua
adeguatezza all’ordine divino: il vero fine, il fine apparente, determinato da
un errore della ragione, e il fine stabilito (finis praestitutus),
l’oggetto cioè che la volontà, in base alla propria libertà, vuole come fine
ultimo (30). Attestando la possibilità di un
fine autonomamente progettato dalla volontà, il passo è di evidente rilevanza,
ed ha perciò avuto debita considerazione dagli studiosi di Scoto (31). Tuttavia esso non può essere preso in esame astratto dal
contesto, come invece è stato fatto (32):
di seguito Duns Scoto precisa che, se i primi due casi in esame sono per sé
evidenti, il terzo va provato. Così come la volontà ha in proprio potere volere
o non volere, essa può anche riferire o meno il proprio atto a qualcosa di
ulteriore rispetto all’oggetto immediato della volizione. Tuttavia, conclude il
ragionamento, come la volontà può astenersi dal volere, così è in suo potere
non riferire ad altro il proprio atto: stabilendo (praestituendo) in tal
modo a se stessa un bene come fine, essa lo vuole per sé medesimo, e non più in
vista ad un bene superiore (33). Si tratta,
in ogni caso, non dell’elezione a fine ultimo di qualcosa di malvagio, segno di
disordine della volontà, ma della scelta di un bene intermedio come oggetto di
fruizione.
Scoto intende dire che, considerando la
volontà come perfezione, l’autodeterminazione dei fini sottolinea sia
l’autonomia di questa potenza dell’anima dal giudizio estrinseco della ragione,
sia la capacità, fondata sulla propria intrinseca razionalità (34), di fruire, e quindi trovare momentaneo riposo, anche in
beni parziali che, in quanto buoni, sono di per sé desiderabili. In questo
senso l’argomento si dimostra in linea con la tendenza operante all’inizio del
XIV secolo a reinterpretare Agostino in base al passo di De doctrina
christiana, dove l’Ipponate ammette che vi siano enti che possono essere
oggetto al tempo stesso di utilizzo e di fruizione (35), per cui anche cose diverse da Dio, tramite gli atti medi
della volontà, possono essere amate per loro stesse (36).
Scoto qui si spinge oltre sottolineando
la possibilità che il bene intermedio sia addirittura considerato il fine
ultimo dell’agire, e a ragione Hannah Arendt e Hans Jonas hanno rilevato la
modernità di quest’aspetto della dottrina del volere: l’uomo che sceglie il
proprio fine assume delle reali responsabilità etiche nei confronti del futuro
e della storia, indirizzando il proprio agire non solo alla determinazione dei
mezzi in vista di un fine già dato, ma anche alla fissazione di valori che ne
orientino la prassi.
Va tuttavia ricordato come Scoto
spieghi poco oltre che solo i primi due tipi di oggetti fruibili sono
considerati fini ultimi dal soggetto non a seguito dell’atto di volizione, ma
già nel momento stesso in cui sono voluti – attirano cioè la volizione grazie
alla caratteristica di sommo bene, vero o presunto, che mostrano possedere. Non
così il fine stabilito, precisa Scoto, che è tale solo a seguito dell’atto di
cui è oggetto – è cioè fine solo a causa della scelta della volontà, che si
mostra così capace di indicare al soggetto fini orientativi per la sua vita
morale (37). Dunque la libertà, che è
ragione ultima del praestituere il fine, rappresenta qui la capacità
della volontà di agire in maniera non perfettamente ordinata al bene:
l’indeterminazione si pone così come caratteristica deteriore dell’atto della
volontà, che ora sembra allentare i legami con la propria intrinseca tendenza
al bene. È evidente l’apparente tensione con la precedente affermazione per la
quale il fine stabilito è comunque un bene intermedio, che si risolve però
considerando, come faremo meglio poi, che nessun oggetto volibile è
assolutamente malvagio, e dunque può sempre essere considerato in quanto bene
parziale. Questi fini possono quindi essere detti valori perché, se pur non
scelti primariamente a cagione della loro bontà, sono in sé buoni, e ritagliano
così uno spazio di agibilità etica coerente alle esigenze che la concreta
situazione storica determina.
Proseguendo l’analisi dei testi, nella
distinzione 36 del terzo libro dell’Opus oxoniense, luogo deputato alla
discussione sull’eventuale connessione delle virtù morali volontarie con la
prudenza, virtù morale intellettuale e regolativa, citando il precedente passo
del primo libro dell’Ordinatio Scoto afferma che la volontà può
«assegnare a se stessa un fine malvagio, come è stato detto nella prima
distinzione del primo libro» («sibi praestituere malum finem, sicut dictum est
dist. 1 primi») (38). In realtà nella prima
distinzione, come abbiamo visto, Scoto non dice che la volontà può assegnarsi
un fine malvagio, ma che può stabilire a se stessa un fine autonomamente posto,
specificando che in questo caso si tratterebbe di un bene intermedio. Il
teologo scozzese sembrerebbe allargare, nel passo del terzo libro, l’autonomia
della volontà ben oltre i limiti stabiliti dalla dottrina dell’atto medio della
volontà.
È tuttavia importante ricostruire il
contesto di questa affermazione per comprenderne il senso esatto. Al fine di
rendere chiaro, in polemica con Enrico di Gand, come la volontà possa indurre
l’intelletto a deliberare su mezzi tesi a fini malvagi, Scoto spiega che, se la
volontà si pone, così come è in suo potere, un fine malvagio, assegnerà poi
all’intelletto il compito di trovare i mezzi necessari per perseguire le cose
piacevoli, ed evitare quelle spiacevoli (tali in funzione del fine). Infatti,
se dal comando della volontà che sceglie rettamente si genera nell’intelletto,
nei confronti dei mezzi per conseguire il fine, un abito acquisito che è la
prudenza, similmente dal comando della volontà che sceglie il male si genera
nell’intelletto un analogo abito acquisito, teso però a perseguire il fine
malvagio. Data la sua disposizione al male, conclude Scoto, è meglio tuttavia
chiamare tale abito imprudenza, o stoltezza (39).
L’opzione terminologica (prudentia/imprudentia) indica come Scoto non
dimentichi che l’autonomia della volontà nel porsi fini malvagi si staglia pur
sempre sullo sfondo della sua originaria ordinazione retta, e rappresenta un
atto di ribellione alla naturale disposizione al bene che attraversa tutto il
creato.
Questa considerazione etica non toglie
però forza all’argomento, perfettamente coerente con la metafisica scotiana:
l’intelletto è una potenza naturale che agisce sempre con necessità, al meglio
delle sue possibilità; dunque i mezzi per raggiungere un fine perverso non
derivano, come riteneva Enrico di Gand, da un errore di ragionamento, ma da una
difettiva orientazione estrinseca dell’intelletto stesso. Dal punto di vista
della dinamica delle potenze attive dell’anima, quindi, prudenza e imprudenza
non differiscono in nulla, anche se l’esistenza della seconda è prova sia
dell’autonoma capacità progettuale che caratterizza la volontà, sia di quella
debolezza ontologica della volontà creaturale che tende a far decadere la
libertà razionalmente ordinata della volontà ad una forma deteriore di
autodeterminazione che, se prende il sopravvento sull’intrinseca razionalità
del volere, può anche orientarsi verso il male.
Il pensiero di Scoto potrebbe tuttavia
sembrare non del tutto coerente, dato che nel primo libro egli intende come
fine ultimo stabilito un bene intermedio, mentre nel terzo libro afferma che il
fine stabilito può essere anche un male. Si tratterebbe però di un errore
prospettico, determinato dal rimando dello stesso Scoto dal terzo libro al
primo. Per comprendere la diversità dei due contesti si può volgere
l’attenzione ad un terzo passo dove Scoto riprende brevemente in esame il
rapporto fra virtù, prudenza e fini (40).
Nella Collatio 1 il francescano dimostra che, poiché atti specificamente
diversi non possono essere causati da una sola prudenza secondo specie, vi deve
essere una prudenza distinta per ogni virtù. Infatti, argomenta Scoto, si
possono moderare le passioni per vivere castamente, ma in tal modo non si potrà
essere dotati della fermezza necessaria per difendere, aggrediendo et
bellando, la repubblica (41).
L’argomento del francescano va a concludere che non solo vi è una prudenza
distinta per virtù diverse, ma anche prudenze diverse per la medesima virtù.
Infatti, il ragionamento prosegue, altra è la prudenza circa il fine, e altra
circa i mezzi per raggiungerlo, dato che secondo una prudenza si stabilisce il
fine («praestituat finem secundum unam prudentiam»), e secondo un’altra si
dirigono le virtù verso il fine fissato (42).
Tenendo in debito conto che nella
distinzione 36 Scoto non parla di fine ultimo, ma solo di fine fissato dalla
volontà, e che nel testo in esame Scoto si riferisce ai fini parziali che, per
ogni virtù, sono indicati dalla rispettiva prudenza, il passo della Collatio
1 sembra porsi in un certo modo come explicatio del precedente: il
fine malvagio può essere solo quello parziale assegnato dalla volontà ad una
singola virtù, che può così trasformarsi in vizio. Data l’indipendenza delle
singole virtù teorizzata da Scoto, questo disordine del fine particolare, per
quanto significativo all’interno della vita morale, non implica dunque
l’assunzione di un fine ultimo malvagio, cioè di una cattiva orientazione della
moralità complessiva del soggetto.
Alcune difficoltà della dottrina
potrebbero derivare dalla considerazione che la prudenza è un abito
intellettuale acquisito: in quanto tale è il risultato di azioni precedenti, o
almeno di una azione normativa, e perciò non è idoneo ad indicare fini che non
possono essere desunti dall’azione, ma ne sono la regola prospettica; per di
più, la prudenza è una virtù intellettuale predisposta a ragionare sui singoli
casi dell’agire morale, mentre il fine specifico delle singole virtù è
determinato dall’assenso della volontà all’oggetto proposto dalla scienza
morale e da questa ricavato dai principi primi. Sembra insomma che Scoto non
distingua con la precisione abituale ai pensatori a lui precedenti la prudenza
(attività dell’intelletto pratico) dalla scienza morale (di pertinenza
dell’intelletto speculativo), che qui parrebbe più indicata a stabilire il fine
delle azioni virtuose, stante l’ambito maggiormente teorico del suo impegno.
Tali apparenti difficoltà derivano
dalla radicale ridistribuzione dei singoli momenti che compongono l’azione
morale operata da Scoto (43). Secondo la
dottrina di molti scolastici del periodo, infatti, l’intelletto speculativo (la
scienza morale) propone il fine in base alla deduzione sillogistica dai primi
principi morali, successivamente la volontà li assume come propri in base alla
loro stessa forza attrattiva, e infine l’intelletto pratico (la prudenza) propone
i mezzi idonei a perseguire il fine prefissato, e solo in questo ultimo momento
dell’agire morale ha effettivo corso la libera determinazione della volontà.
Come è noto, Scoto rifiuta una distinzione netta fra intelletto pratico e
speculativo, e anticipa l’agire della prudenza al momento della determinazione
dei fini, rinunciando di conseguenza alla connessione, tipica della tradizione
precedente, della prudenza con le altre virtù morali: si può essere prudenti
senza essere virtuosi, afferma il teologo scozzese, perché la volontà non è
costretta a seguire le indicazioni razionali della virtù intellettuale che
precedono l’azione propriamente virtuosa.
Questa operazione è tesa ad ampliare
l’autonomia della scelta volontaria agli stessi fini particolari, così come è
evidente dal problema in analisi; rende tuttavia praticabile con fatica la
classica distinzione fra scienza morale come indirizzata a questioni generali
di etica, e la prudenza mirata a guidare l’azione nei casi particolari, e di
questo è testimonianza il nostro tema. Ma, poiché questa diversa disposizione,
come si è appena accennato, consente alla volontà di accettare o meno gli
stessi fini delle virtù proposti dalle rispettive prudenze, sembra chiaro il
passo della Collatio 1 si riferisce al momento precedente all’elezione
volontaria di cui tratta la distinzione 36. Coerentemente all’ampliamento del
valore semantico del termine, nella Collatio le due prudenze di cui si
parla si devono intendere nell’un caso come virtù abituale direttiva nelle singole
azioni alla luce del fine, nell’altro come virtù intellettuale in grado di
indicare il fine stesso in base a valutazioni di ordine generale. La volontà
che pone il fine stabilito, dunque, agisce a seguito delle proposte della
prudenza intesa nel secondo senso. Nella distinzione 36, invece, ‘prudenza’
conserva il valore tradizionale del termine, e indica quindi l’habitus ricavato
dalla prassi in grado di risolvere singoli casi di dubbio morale.
I due testi sono quindi in perfetto
accordo, e, tornando alla questione principale, si riferiscono solo a fini
particolari delle singole virtù, e non al fine ultimo che indirizza tutta la
vita morale del soggetto, come invece accade nel passo del primo libro, a cui
Scoto si riferisce per ricordare la generale pertinenza all’agire volontario
della elezione dei fini, e quindi solo per analogia. In definitiva, questo
percorso analitico ci porta a concludere che per Scoto la volontà può porsi
solo fini buoni, può cioè scegliere un bene parziale come fine ultimo, e ciò non
a causa di un giudizio ingannevole della ragione, ma in piena autonomia,
scegliendo di non riferire la propria scelta ad un bene superiore, e quindi
quietandosi in un oggetto che, pur essendo buono, non è il massimo bene in
assoluto. La volontà può invece porre un fine cattivo in relazione alla singola
virtù: qui infatti si tratta di un male relativo unicamente ad un ambito
specifico, e quindi non del male assoluto, come sarebbe invece nel caso del
fine ultimo.
Questa ricostruzione sembra in grado di
rendere conto della posizione scotiana in maniera coerente con le due
caratteristiche costitutive e dialetticamente connesse che contraddistinguono
la volontà in quanto potenza razionale attiva, ovvero la sua assoluta
autonomia, e la sua generale orientazione al bene: se la volontà in quanto
libera potrebbe esercitare qualsiasi scelta nei confronti di ogni oggetto
presentatole dall’intelletto, in quanto orientata al bene impone però dei
limiti al proprio stesso agire. Le due facoltà sono tuttavia identiche all’essenza
stessa della volontà, e rappresentano due aspetti solo logicamente distinti di
una unica perfezione che solamente in Dio si realizza compiutamente. A livello
di perfezione assoluta non vi è dunque più contrapposizione tra razionalità e
autonomia, che si armonizzano nella libera necessità dell’atto divino; nel caso
della volontà umana, invece, il disordine creaturale tende a predominare
sull’ordinamento al bene, definendo così il luogo dell’azione morale.
3. Velle malum sub ratione mali
Rimane dunque fissato con chiarezza il
nocciolo della posizione di Scoto: la volontà può, in determinate circostanze,
autodeterminare il proprio fine, divenendo così non solo strumento esecutivo
rivolto ai mezzi dettati dalla ragione per conseguire un fine già posto, ma
potenza dell’anima perfettamente autonoma e, di conseguenza, «l’organo
spirituale di un futuro per principio indeterminabile, e pertanto virtualmente
foriero di novità», per dirla con Hannah Arendt. Scoto sembrerebbe tuttavia
escludere la possibilità di una volontà completamente degenere perché
implicherebbe la capacità ad orientarsi al male scelto proprio in quanto tale,
cioè un’assoluta capacità di autodeterminazione non più guidata dalla propria
intrinseca, e dunque ineliminabile, propensione al bene.
La nostra indagine deve però proseguire
per giungere a comprendere più in dettaglio l’essenza del pensiero scotiano:
dove e perché si arresta la capacità di autodeterminazione della volontà nei
confronti del male? Il limite della volontà non nasce, come è chiaro, da suoi
eventuali vincoli in quanto potenza attiva, ma dalla più complessa questione
del rapporto fra volontà creata e bene. In una parola: che la volontà sia
potenza autonoma capace di autodeterminarsi è, per Scoto, assodato; individuare
però i limiti intrinseci posti alla spontaneità del volere è faccenda diversa,
che mette in campo la questione se la volontà umana possa o meno volere, oltre
al male presentato dalla ragione errante come un bene apparente, e al piacere
sensibile a cui le passioni possono trascinarla, il male per se stesso. La
risposta di Scoto alla questione ora posta in esame è complessa, e nei vari
passi dove affronta l’argomento, assumendo prospettive differenti, esprime
conclusioni non sempre identiche (44).
Nella Collatio 17 Scoto afferma
con forza che, perché esista il peccato, la volontà deve volere il male in
quanto tale (malum sub ratione mali) (45).
È chiaro, precisa Scoto, che se potesse volere solamente il bene vero o
apparente, e né il male per sé, né il disordine stesso dell’atto di peccare, la
volontà umana non potrebbe realmente peccare. Infatti, se la volontà umana
volesse qualcosa che è anche parzialmente un bene, l’oggetto della sua
volizione sarebbe virtualmente il medesimo della volizione divina, e dunque,
volendo lo stesso oggetto, la volontà umana non potrebbe peccare più di quanto
lo possa la volontà divina (46). L’obiettivo
di Scoto è qui di contrastare dottrine morali che collocano il peccato nel
cedimento della volontà ai sensi, o in errori della ragione: è solo la volontà,
senza giustificazioni, per quanto parziali, di motivazioni esterne ad essa, che
è scaturigine del peccato tramite il proprio volgersi verso ciò che non è un bene
neppure per un falso giudizio. Si tratta del luogo dove Scoto assume la
posizione più estrema sull’argomento, perché, non concentrando la propria
attenzione sulla motivazione interiore dell’azione volontaria riduce la
malvagità dell’atto alla malvagità dell’oggetto.
Una riflessione maggiormente articolata
si trova nel più esteso testo della distinzione 43 del secondo libro dell’Opus
oxoniense, dove il teologo, pur confermando la conclusione generale della Collatio
17, affronta con un più ampio respiro argomentativo la questione se la
volontà possa volere qualcosa non presentatole come bene, vero o apparente che
sia. Qui Scoto classifica il peccato in tre categorie, riferendone ciascuna ad
una delle figure trinitarie. A volte la volontà, predisposta per natura a
compiacersi con l’appetito sensitivo, spiega Scoto, pecca seguendo per
debolezza e impotenza l’inclinazione di questo: tale peccato è contro il Padre,
che rappresenta la potenza divina. Vi è poi il peccato che nasce da un errore
della ragione, cioè dall’ignoranza: si tratta di un peccato contro il Figlio,
simbolo della sapienza. Ma il peccato in senso proprio (peccatum secundum se)
è solo quello causato dalla libertà stessa della volontà, e che in quanto tale
nasce direttamente dalla malvagità (recte ex malitia), ed è perciò
rivolto contro lo Spirito Santo, cioè contro il bene stesso (47).
Le due trattazioni si dimostrano dunque
fin qui coerenti, ma resta aperta una questione di fondo, che solo nell’Opus
oxoniense Scoto affronta esplicitamente: concesso che la volontà pecchi
veramente solo scegliendo il male in sé, senza essere allettata dai sensi o
ingannata dalla ragione, quale è l’origine di questa scelta? Perché la volontà,
in altre parole, giunge a un atto così grave e sconsiderato? Nella
classificazione stesa nel secondo libro Scoto, come si è appena visto, ritiene
che il peccato contro lo Spirito Santo, il più grave, o meglio l’unico vero
peccato, derivi solamente dalla malvagità del soggetto. In base a quanto detto,
dunque, la volontà peccatrice è una potenza spirituale che sceglie di volere il
male in quanto tale in base alla propria stessa malvagità («velle malum sub
ratione mali recte ex malitia»).
Vi sarebbe perciò una doppia
determinazione al male: una prima, estrinseca, che riguarda l’oggetto del
volere, che in questo caso è il male in senso proprio, tale perché nessuna
distorsione prospettica dei sensi o dell’intelletto lo ha trasformato se pur
erroneamente in un bene apparente. Ma vi è anche una seconda determinazione,
che concerne invece la motivazione interiore del volere, che risulta essere la
pura malvagità della volontà. Si tratta evidentemente di una conclusione
gravissima: se, volendo ciò che è e appare male, il peccatore disattende
l’ordinamento divino non solo nell’agire, ma anche nelle motivazioni che
portano all’agire, determinato da una intima e perversa tendenza al male, della
propensione al bene che informa tutta la creazione non resterebbe traccia
alcuna proprio nella creatura mortale più vicina a Dio.
In realtà una tale conclusione è
esclusa da Scoto stesso che, nel paragrafo successivo, nega valore all’ipotesi
di un’azione volontaria dettata dalla pura malvagità. Il teologo scozzese
precisa il senso della precedente affermazione spiegando che, se non si vuole
porre che la volontà creata possa volere il male proprio per il suo essere male
(malum sub ratione mali), si può assegnare alla volontà il peccato per
la sua ferma malvagità (ex certa malitia, ma non recte ex malitia)
quando essa, senza errori intellettuali e passioni sensibili, pecca per la
propria libertà (ex libertate sua). Resta nell’atto la caratteristica
del peccato in senso stretto, poiché, dato che agisce senza alcuna motivazione
estrinseca, null’altro che la volontà conduce se stessa al male; essa dunque
vuole il male in quanto tale (malum in quantum malum) certamente a causa
della propria malvagità, e quindi colpevolmente; tuttavia tale malvagità non si
pone come origine immediata dell’atto, che invece risiede nella pura libertà
del volere. Per questo Scoto può concludere senza contraddizione che la volontà
«ex pura libertate […] eligit sibi malum velle, non tamen ex malitia» (48).
Scoto, come si è detto, vuole definire
il peccato contro lo Spirito Santo come un’interiore trasgressione volontaria
all’ordo Dei, dunque come il volgersi della volontà al male in quanto
tale (malum in quantum malum), cioè non in quanto travestito da bene
dalla ragione o dalle passioni. Nella Collatio 17 Scoto guadagna
sillogisticamente tale conclusione: la volontà non può essere condannata per
aver voluto in modo accidentale qualcosa; poiché la volontà è dannata per aver
voluto il male, consegue allora che tale atto non è esercitato accidentalmente
nei confronti del male, ma per sé (49): in
una parola, se la volontà agisse condotta da motivazioni estrinseche e non da
una precisa cognizione della gravità del proprio atto, non sarebbe
compiutamente colpevole e non meriterebbe perciò la condanna divina. Scoto
tuttavia non ritiene che la volontà possa volere il male proprio perché male,
dato che questa volizione richiederebbe una causa perfettamente malvagia, che
nel creato non si dà.
Infatti, il peccato certamente consiste
nella scelta volontaria del male in quanto tale (malum in quantum malum),
cioè del male senza alcun aspetto di bene che possa giustificare la scelta
volontaria; questo però non implica che la volontà si volga al male in base
alla sua essenziale malvagità (malum sub ratione mali), e che lo voglia
quindi proprio perché oggetto perfettamente empio. La differenza deriva dalla
motivazione dell’atto: si sceglierebbe il male a causa della sua stessa
malvagità se la volontà agisse a sua volta in base ad una propria intrinseca
perversità che non potrebbe trovare riposo in null’altro – possibilità esclusa
da Scoto; si sceglie invece il male in quanto tale, considerato cioè come privo
di ogni residuo di bene capace di giustificare surrettiziamente tale scelta, in
base alla pura libertà del volere che, se è qui accompagnata dalla malvagità,
la sostituisce tuttavia nella radicalità dell’atto. Scoto vuol insomma dire che
in nessun caso la volontà può esercitare un consapevole atto di aperta
avversione nei confronti dell’essere e del bene, cioè di Dio stesso – perché
tali sarebbero gli esiti della scelta estrema qui prospettata ed esclusa, il
«velle malum sub ratione mali recte ex malitia».
La volontà tuttavia, disarticolato
l’ordine dei valori posto da Dio, può scegliere il male in base alla propria
costitutiva libertà, che diviene così una capacità vuota e priva di valori di
determinare gli atti volontari, e proprio in questo sta la gravità dell’atto,
come si può comprendere ripercorrendo per contrasto i punti essenziali
dell’azione volontaria nei confronti del bene sommo (50). L’azione volontaria nella sua ultima perfezione – la
beatitudine – per Scoto è contingente solo nel senso che la volontà può
astenersi dall’esercitare qualunque atto verso l’oggetto beatifico conosciuto
intuitivamente, ma diviene necessaria non appena la volontà vuole volere: in
questo caso la volontà vuole il bene perché esso è il proprio oggetto adeguato,
e ancora per questo essa si dimostra poi incapace di trovare motivo per
cambiare la propria determinazione. La necessità della fruizione beatifica è
però costitutivamente diversa dalla necessità di un agente naturale, anche se
tale diversità, che riguarda i principi primi, non può proprio per questo
essere oggetto di ulteriori spiegazioni. Ogni uomo, tuttavia, è in grado di
distinguere un’azione necessitata da un impulso naturale da una azione libera,
perché quest’ultima implica un compiacimento interiore che il soggetto
riconosce come libero: in ultima analisi, l’atto volontario è vissuto come
libero perché diviene atto d’amore verso il bene assoluto, cioè verso Dio.
L’amore, e non l’analisi metafisica dei principi, nella beatitudine suggella in
un unico atto la libertà e la necessità della volontà divina come della volontà
creata, che con l’aiuto della grazia giunge al livello di perfezione di cui
difettava nell’agire mondano.
Se questo è il senso più profondo della
concezione scotiana di libertà, che trova il proprio compimento nella retta
connessione con la razionale disposizione al bene che rappresenta l’altro aspetto
costitutivo dell’agire volontario, e si trasforma così in amore, è chiaro in
cosa consista il peccato in senso proprio. Non nell’agire per una assoluta
malvagità, che non è data nel creato orientato all’essere e al bene, ma
nell’immoderato uso della libertà che, sciolta dalla ragione, diviene puro
arbitrio. La volontà allora non agisce più in base ad una autonoma
progettualità che, pur ammettendo l’errore, resta inscritta alla propensione al
bene, quella progettualità che si è visto Scoto indicare come possibilità di praestituere
fini non assolutamente empi. Nel peccato la volontà invece si avvilisce a
potenza autodeterminata inseguendo il vuoto compiacimento della propria
libertà: si volge cioè al male non per una assoluta propensione ad esso, ma
perché è in grado di farlo («ex experientia propriae libertatis»),
compiacendosi così nell’effimero piacere del sentirsi libera. La gravità della
colpa sta dunque nell’uso improprio, irrazionale di una libertà diventata causa
unica e autoreferenziale di scelte che, proprio per non avere altra
motivazione, segnano il massimo distacco da Dio della creatura.
A questo cattivo uso della propria
libertà si deve attribuire la gravità del peccato, e da questo punto di vista
esso è un disordine che la volontà persegue nella propria vacuità di valori, e
dunque un male per sé, e non certo un bene apparente – quantomeno se si vuole
considerare bene apparente, in accordo con Scoto, un bene indicato come tale da
un errato giudizio della ragione. Se invece, andando oltre le parole di Scoto,
con questo termine si intende qualsiasi oggetto che viene erroneamente
valutato, non solo dalla ragione ma anche dalla volontà stessa, come
vantaggiosa fonte di piacere, allora anche l’esercizio della libertà può
rientrare in questa categoria (51).
Nella sostanza, in ogni caso, ciò che
Scoto vuol significare è che nel caso di peccato contro lo Spirito Santo il
disordine al quale siamo esposti come creature limitate penetra nella struttura
più intima della volontà, che si riduce così ad una potenza priva di direzione
e di valori, pura capacità di autodeterminarsi preda di ogni allettamento, e
principalmente di quello, interno a se stessa, dell’esperienza della propria
libertà. La gravità dell’atto viene dunque solo parzialmente attutita dalla
motivazione, che è diversa dalla malvagità pura. Se Scoto non giunge ad
ammettere questa eventualità, non è certo per ridefinire in termini più blandi
il peccato, ma per salvare, come si è già accennato, il senso della creazione,
che, per la convertibilità dell’essere con il bene, è costitutivamente buona
proprio in quanto è, e non può di conseguenza ammettere al proprio interno una
creatura perfettamente malvagia.
4. L’odium Dei
Per rendersi conto della saldezza della
precedente ricostruzione è sufficiente prendere in esame la soluzione scotiana
alla questione della possibilità per una creatura di odiare Dio, cioè il bene
stesso. Se questa possibilità fosse ammessa, Scoto ammetterebbe anche la
possibilità di agire recte ex malitia: solo chi è compiutamente malvagio
può infatti odiare il bene.
Nei vari passi dedicati all’eventualità
dell’odio di Dio Scoto assume una posizione che appare più coerente di quanto
non sia forse sembrata ad alcuni studiosi del suo pensiero (52). Nella lettura parigina del Lombardo, nel passo parallelo a
quello sopra esaminato pertinente alla possibilità di peccare contro lo Spirito
Santo, Duns Scoto prosegue la sua analisi dell’atto peccaminoso. Qui il
francescano approfondisce ancora il significato di peccato in senso stretto,
ora in relazione all’oggetto dell’atto, e non più in funzione della motivazione
dell’agente. Da questo punto di vista anche i peccati ex certa malitia,
cioè i peccata proprie, sono classificabili in tre categorie. Quelli
contro i precetti della seconda tavola – cioè contro gli ultimi sette
comandamenti che, in accordo con Scoto, non sono desumibili in maniera
necessaria dall’essenza di Dio stesso, ma sono frutto di una Sua libera scelta
– non sono gravissimi perché allontanano dal fine solo virtualmente, non sono
cioè atti diretti di opposizione a Dio, ma solo indiretti, poiché rivolti alla
Sua opera. Neppure i peccati contro la prima tavola sono però i peccati più
gravi, poiché sono superati da quelli in cui ci si oppone con atto
perfettissimo a Dio stesso. Scoto intende che l’atto peccatore è perfezionato
quando si rivolge non contro i principi primi della morale, per quanto
desumibili dall’essenza di Dio, bensì contro l’essenza stessa in modo diretto,
e infatti conclude che in questa prospettiva il massimo peccato sarebbe l’odio
di Dio (53). Tuttavia tale peccato non potrà
mai essere commesso, perché nessuna volontà può odiare Dio («non potest Deus
odiri ab aliqua voluntate»), e dunque esso non è neppure formalmente il peccato
contro lo Spirito Santo (54).
La spiegazione di questa impossibilità
si trova in un passo dell’Opus oxoniense dove Scoto, trattando del tipo
di peccato imputabile al primo angelo, ribadisce che, fra i vari atti
inordinati dell’angelo caduto, il più grave consistette nel volere che Dio non
fosse, poiché formalmente nessun atto è peggiore dell’odiare Dio («formaliter
nullus actus peior est quam Deum odire») (55),
per concludere poco oltre che bisogna tuttavia ammettere che l’odio di Dio non
è il massimo peccato (56). La spiegazione di
questa conclusione apparentemente sorprendente è della massima importanza, ed
illumina tutta la materia che stiamo indagando. Scoto approfondisce l’iniziale
affermazione riguardo all’odium Dei come al peggiore degli atti
volontari chiedendosi se sia realmente possibile desiderare che Dio non sia,
dato che la volizione può indirizzarsi solo verso un oggetto considerato in
quanto bene (obiectum sub ratione boni), e analogamente la nolitio (atto
positivo di rifiuto espresso della volontà) solo verso un oggetto considerato
in quanto male (obiectum sub ratione mali); ma l’angelo non coglie in
Dio nulla che possa essere considerato male. Se ciò è vero, prosegue Scoto,
bisogna allora dire che l’odio di Dio da parte dell’angelo non è rivolto a Dio
in sé, né alla sua giustizia, ma piuttosto all’effetto della giustizia divina
in quanto vendicatrice dell’offesa subita dall’angelo stesso. Ancora, bisogna
anche ammettere che non è l’odio di Dio il massimo peccato, perché non si
rivolge a Dio in sé, e perciò non è direttamente il contrario dell’amore di Dio
(57).
Vi sono in realtà passaggi dell’opera
scotiana in cui il teologo non tiene in debito conto le considerazioni ora
riportate, e sembra difendere la possibilità dell’odium Dei, come la Collatio
17, della quale abbiamo già esaminato alcuni passi dove sembrava concedersi
l’eventualità di volere il male sub ratione mali. Ma nella conferenza in
esame Scoto si pone in una prospettiva dove l’unica alternativa risulta essere
fra volere il male in quanto male, o volerlo in quanto bene apparente per un
errato giudizio della ragione. In un’ottica così angusta la soluzione risulta
obbligata, per cui egli concede che gli angeli dannati vollero l’odio di Dio in
quanto male (58).
Anche se è corretto ricordare queste
oscillazioni del pensiero scotiano, non vi sono dubbi sulla sua risposta definitiva,
che consiste nell’esclusione di atti assolutamente malvagi dal creato.
Un’ulteriore breve analisi della struttura metafisica della volontà consentirà
di rendere maggiormente manifesta questa conclusione. Un buon accesso alla
questione può essere, fra i tanti, un passo delle sue lezioni parigine sul
secondo libro del Lombardo dove Scoto chiarisce la duplicità dei principi
causativi nella volontà: chiedendosi se la capacità di peccare derivi da Dio,
Scoto osserva che la potentia peccandi è costituita da due principi
distinti: l’uno causa la sostanza dell’atto, l’altro la sua deformità. La
libertà è il principio sostanziale che istituisce l’ordine all’atto retto,
mentre il libero arbitrio della creatura è il principio della limitazione che
fonda l’orientazione alla deformità dell’atto, e toglie perfezione alla potenza
(59).
Per quanto il passo, utilizzando
l’opposizione fra libertà e libero arbitrio, opti per una terminologia non
particolarmente congeniale a Scoto, esso ci introduce nel cuore del problema.
Scoto qui ci dice che la volontà (la potenza che, nell’uomo, può peccare, come
sappiamo) va considerata in due modi diversi. Se presa in sé, come potenza
spirituale comune all’uomo, all’angelo e a Dio, si può dire che essa è libera
in quanto ha un ordine all’azione positiva – ha cioè una capacità di agire
rivolta verso il bene. Come si è già accennato, in questo caso spontaneità e
razionalità si integrano a vicenda nella perfezione dell’atto d’amore verso il
bene. Se considerata in quanto pertinente alla creatura, subentra nella volontà
un diverso impulso all’azione, qui chiamato libero arbitrio, che limita il
primo. Il libero arbitrio nasce dall’inadeguatezza della creatura che, a causa
della sua costitutiva tendenza al nulla da cui proviene, non è in grado con le
proprie forze di mantenersi al livello di perfezione a cui per altro è
destinata, e diventa così in grado di fondare la deformità dell’atto
volontario.
Nonostante ciò, tuttavia, la volontà
creata, per quanto defettibile per la propria debolezza ontologica, mantiene
sempre una traccia della originaria disposizione al bene evidente nella propria
costitutiva impossibilità di volere il male, e di odiare il bene. Questi punti
sono per altro ripetuti frequentemente nei testi scotiani. Se la volontà può
non volere la beatitudine persino in patria, senza l’aiuto divino che si
esplica nella grazia della carità e nel sostegno della confermazione, questo
significa solo che la volontà può rifiutarsi di agire nei confronti del bene sommo,
imperando all’intelletto di rivolgersi ad altro. Dunque i limiti della libertà
umana sono precisati nettamente: l’atto positivo di velle non può essere
indirizzato che verso il bene («bonum est obiectum huius actus qui est velle»),
mentre analogamente il nolle non può riguardare che il male o la
mancanza di bene; l’atto neutro del non velle può invece riguardare il
bene assoluto come, ovviamente, il male assoluto. Astenendosi dall’agire l’uomo
può non-volere il bene in sé, mai però esercitare un atto positivo di
repulsione nei suoi confronti (60).
5. Conclusioni
Tornando dunque al tema iniziale della
nostra ricerca, sembra di poter dire che, in accordo con Scoto, il fine
liberamente progettato (finis praestitutus) allarga l’autonomia del
volere, includendo nel suo potere anche la determinazione di fini ultimi
passibili di una fruizione autonoma che divengono tali a seguito della scelta
volontaria. L’imposizione di valore all’oggetto della volizione in conseguenza
della volizione stessa sembrerebbe attività riservata alla creazione divina,
dove gli enti creati sono buoni per l’essere stati scelti, e non viceversa. Se
la possibilità di creare fini alternativi pare però indicare, come aveva notato
la Arendt, un apparente avvicinamento fra Dio e uomo, si tratta comunque di un
incontro da versanti opposti: Dio può scegliere i valori per la perfezione pura
del suo volere, l’uomo, viceversa, lo può fare per il disordine del proprio
volere. Nel primo caso si ha una libertà di elezione che riposa nella assoluta
necessità dell’atto divino, che è libero in quanto non rimanda, per la propria
determinazione, ad altro dalla stessa essenza divina, dove il bene e l’essere
sono perfettamente convertibili. Nel secondo caso la libertà di elezione si
fonda sulla miseria dell’uomo, che vuole imitare Dio e porsi fondatore di
valori: qui già il desiderio di autonomia rappresenta un uso inordinato e
inautentico della libertà, che troverebbe invece perfetta autorealizzazione
nell’ascolto della parola divina, e nell’acquietarsi nel bene sommo. Tuttavia
l’indipendenza e la vertibilità del volere creaturale rappresentano una
perfezione dell’uomo, perché lo distinguono dagli agenti irrazionali, governati
in quanto tali da una necessità di natura che ne indica la mancanza di
responsabilità etica.
Ecco allora che un’imperfezione
assoluta, come la propensione al disordine della volontà dell’uomo caduto, può
rappresentare una perfezione in relazione allo stato dell’agente: la reale
autonomia verso i fini evidenzia incisivamente l’estraneità dell’uomo dagli
agenti naturali, e quindi la sua dignità all’interno della creazione. Il punto
segna una fondamentale divergenza fra Scoto e la tradizione precedente: la
volontà non vuole più la beatitudine, che è la contemplazione del bene sommo,
con una necessità dettata dalla propria stessa natura, perché tale azione, per
Scoto, sarebbe appunto naturale, e dunque non libera. La possibilità di
trasgredire anche nei confronti del fine, certo non contemplata dall’etica
aristotelica, e solo parzialmente considerata dal pensiero di Agostino,
sottolinea qui da un lato la debolezza della volontà umana, incapace di
cementarsi nella scelta del bene assoluto quanto quella divina; dall’altro
l’autonomia dell’uomo che si dimostra capace di scegliere i valori che
illuminano il proprio agire storico. L’uomo diviene così soggetto autonomo in
grado di dare corso a nuove serie di eventi, e, in definitiva, responsabile
fattore della storia e custode del mondo. In ogni caso, vale ripeterlo, anche quando
si indirizza autonomamente verso fini diversi da Dio stesso l’uomo non può
disattendere del tutto l’ordine all’essere e al bene che attraversa tutto il
creato, e che rende impossibile una positiva scelta della malvagità nel senso
che si è cercato di chiarire in questa ricerca
Scoto concede comunque molto
all’autonomia umana perché l’unico limite che le è posto, come si è visto, è
l’impossibilità di volere il male assoluto per pura malvagità («velle malum sub
ratione mali recte ex malitia»), cioè di odiare Dio. Il peccato in senso
stretto non è, dunque, un caso particolare di praestitutio finis dove il
fine è malvagio – come aveva sostenuto Hoeres – perché il fine non può mai
essere perfettamente malvagio, neppure nel peccato più grave, quello contro lo
Spirito Santo. Infatti, proprio perché in questo caso il finis praestitutus non
è il male, ma la libertà stessa, e dato che essenzialmente l’agire liberamente
non è in sé un’attività empia, ma lo diviene solo per mancanza di misura,
neppure quando la volontà sceglie il male per vana esperienza della propria
libertà («velle malum in quantum malum ex pura libertate») essa si volge
veramente al male assoluto,.
Ritornando infine, in queste righe
conclusive, a ciò che ha mosso questa ricerca, cioè il rapporto privilegiato
intrattenuto con Scoto da Hannah Arendt, ma anche da Hans Jonas, mi sembra di
poter concludere che esso è fondato su una lettura corretta, nei tratti di
fondo e nelle principali nervature teoretiche, del pensiero di Scoto. Che il
fine capace di orientare la vita morale del soggetto possa essere posto dal
soggetto stesso, se pur con i limiti chiariti ora, rappresenta sicuramente un
elemento di novità nel panorama etico medievale, novità che Arendt e Jonas
salutano con una certa gioia; bisogna però ricordare che questa concezione
dell’uomo produttore di valori nasce da una accentuazione della distanza fra
Dio ed uomo, e dall’insuperabile deiezione dell’umanità, che acquista tanta più
libertà quanto più è lontana dall’intima unione con il divino che
contrassegnava lo stato edenico.
Un’ultima notazione: Scoto,
tematizzando questo nostro stato di miseria, giunge ad una concezione
dell’azione malvagia che pare sorprendentemente attuale. Quando sostiene che la
colpa più grave possibile all’uomo è volere il male solo per la propria
libertà, il teologo francescano prende congedo da quelle formulazioni etiche
del suo tempo che ascrivevano il peccato ad una volontà prona alle tentazioni
esterne della ragione errante o delle passioni sensibili: la volontà trova il
motivo di peccare nella propria stessa interiorità, cioè in quella intima
indeterminazione che, basata sulla costitutiva finitezza del soggetto, è in
grado di fargli trascendere i limiti della sua autonomia ordinata al bene. Ma,
con questa operazione, Scoto esclude anche ogni grandiosità dall’azione
malvagia. Non è in arditi progetti razionalmente empi che si manifesta
massimamente il male, ma piuttosto, come è esperienza comune del nostro tempo,
nella vacuità di senso dell’individuo pronto a compiere azioni malvagie per
vana esperienza di sé come libero. Il peccato più grave ad mentem Scoti è
la mancanza di senso della scelta, che non si potrebbe neppure definire
propriamente tale, stante la sua estrema lontananza dalla progettualità, e
quindi dalla ragione; in modo diverso, ma nella sostanza non opposto, Hannah
Arendt chiama “banale” e grottesca la mancanza di idee del nazista Eichmann,
malvagio perché «non capì mai quello che stava facendo» (61).
Note
(1) A. Dal Lago, Introduzione, in H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi
filosofici, Il Mulino, Bologna 1991, p. 15. back
(2) F.G. Friedmann, Hannah Arendt. Un’ebrea tedesca nell’era
del totalitarismo, Giuntina, Firenze 2001, p. 116. back
(3) Dal Lago, Introduzione, p. 10. back
(4) H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi
filosofici, Il Mulino, Bologna 1991. back
(5) H. Arendt, Tra passato e futuro, Valecchi, Firenze
1970. back
(6) H. Arendt, La vita della mente, Il
Mulino, Bologna 1987. back
(7)
La differenza fondamentale fra i due studi è che in Tra passato e futuro
la libertà non è attribuita né all’intelletto né alla volontà, ma invece
all’azione, che risulta libera per essere realizzazione concreta di principi:
«la comparsa della libertà, come la manifestazione dei principi, coincide con
l’atto realizzatore», scrive la Arendt, e dunque «gli uomini “sono” liberi –
ciò che occorre distinguere dall’avere la facoltà di esserlo – nel momento in
cui agiscono, né prima né dopo: “essere” liberi e agire sono la stessa cosa» (Arendt, Tra passato e futuro, p.
167). Data l’esclusione della libertà dall’interiorità del soggetto, ed una
diversa conoscenza dell’autore, anche il giudizio su Duns Scoto è assai
differente da quello che si può ricavare da La vita della mente:
«L’azione viene guidata da un fine futuro che l’intelletto ha colto come
desiderabile prima che la volontà l’abbia voluto: per questo l’intelletto
ricorre alla volontà, che sola può comandare l’azione (ho parafrasato qui la
caratteristica descrizione di questo processo fornita da Duns Scoto) […] saper
riconoscere un fine non è una questione di libertà, bensì di giudizio giusto o
sbagliato» (ivi, p. 166). back
(8) Jonas, Dalla fede antica, p. 91. back
(9) Ivi, pp. 92-93. back
(10) Arendt, La vita della mente, p. 456. back
(11) Ivi, p. 329. Per lo sviluppo di questa concezione del ‘volere’ contrapposto al
‘pensare’ si vedano in particolare le pp. 321-329. back
(12) Ivi, p. 329. back
(13) Ivi, p. 377. back
(14) Ivi, p. 351. back
(15) Ivi, p. 345. back
(16) Ivi, p. 456. back
(17) Ivi, p. 458. back
(18) Ivi, p. 457. back
(19) Ivi, p. 345. back
(20) A. Dal Lago, Introduzione, in Arendt, La vita della mente, p.
52. back
(21)
Arendt, Tra
passato e futuro, p. 185. back
(22) W. Hoeres, La volontà come perfezione
pura in Duns Scoto, Liviana, Padova 1976, pp. 141-142. back
(23) Ivi, p. 142. back
(24) Ibid.. back
(25) Ivi, p. 143. back
(26) Ivi, p. 197. back
(27) Ivi, p. 270. back
(28) Ivi, pp. 137-138. back
(29) Non è qui possibile
offrire una se pur incompleta indicazione bibliografica sulla dottrina della
volontà in Scoto, data la vastità della produzione anche recente. A titolo di
esempio si possono segnalare: J. Auer,
Die menschliche Willenfreiheit im Lehrsystem des Thomas von Aquin und
Johannes Duns Scotus, München 1938; Hoeres, La volontà; B.M. Bonansea, «Duns Scotus’ Voluntarism», in J.K. Ryan, B.M. Bonansea (eds.), John
Duns Scotus, 1265-1965, The Catholic University of America Press,
Washington, D.C. 1965; R. Prentice,
«The Voluntarism of Duns Scotus, as seen in his Comparison of the Intellect and
the Will», Franciscan Studies 38 (1968), pp. 63-103; A.B. Wolter, Duns Scotus on the Will and
Morality, The Catholic University of America Press, Washington, D.C. 1986;
B.M. Bonansea, L’uomo e Dio
nel pensiero nel pensiero di Duns Scoto, Jaca Book, Milano 1991. È utile
poi consultare gli Atti dei vari Congressi Internazionali Scotistici. back
(30) Ioannes Duns Scotus, Ord. I, d. 1, p. 1, q. 1, n. 16 (Opera Omnia, studio
et cura Commissionis Scotisticae, Civitas Vaticana, Typis Polyglottis Vaticanis
1950 ss [d’ora in poi: Vat.], II, 10): «[…] dico quod obiectum fruitionis in
communi, ut abstrahit ab ordinato et inordinato fine, est finis ultimus: vel
verus finis, qui scilicet est finis ultimus ex natura rei, vel finis apparens,
finis ultimus qui scilicet ostenditur a ratione errante tamquam finis ultimus,
vel finis praestitutus, quem scilicet voluntas ex libertate sua vult tamquam
finem ultimum». back
(31) Si veda ad esempio Hoeres, La volontà; Bonansea, «Duns Scotus’ Voluntarism». back
(32) In particolare da
Hoeres nei passi presi precedentemente in considerazione. back
(33) Ioannes Duns Scotus, Ord. I, d. 1, p. 1, q. 1, n. 16 (Vat. II, 10): «Duo prima membra satis
patent. Tertium probo, quia, sicut in potestate voluntatis est velle vel non
velle, ita in protestate eius est modus volendi, scilicet referre vel non
referre; ergo in potestate sua est aliquod bonum velle propter se, non
referendo ad aliud bonum, et ita praestituendo sibi in eo finem». back
(34) È bene ricordare che
l’intrinseca razionalità della volontà implica la capacità di apprezzare ogni
singolo bene, conseguenza della sua innata propensione al bene; la capacità di
confrontare fra loro beni diversi, anteponendone uno all’altro; e infine la
capacità di preferire un bene ad un’altro. Quest’ultima capacità, in quanto
conseguenza delle precedenti, non è solo un agire pratico, ma anche una
valutazione comparativa dei singoli beni (Cfr. Hoeres, La volontà, pp. 286-287). back
(35)
Aurelius Augustinus, De doctrina christiana, I, 3 (CCh 32, 8). Lo si può
confrontare con Aristoteles, Ethica
ad Nichomacum, I, 6-7, 1097a33-35. back
(36) Cfr. W.J. Courtenay,
«Between Despair and Love. Some Late Modifications of Augustine’s Teaching on
Fruition and Psychic States», in K. Hagen
(ed.), Augustine, the Harvest, and Theology (1300-1650). Essays Dedicated to
Heiko Aug. Oberman in Honor of his Sixtieth Birthday, Brill, Leiden 1990,
pp. 5-19. back
(37) Ioannes Duns Scotus, Ord. I, d. 1, p. 1, q. 1, n. 17 (Vat. II, 11): «Respectu ergo fruitionis
ordinatae ratio finis secundum veritatem non est propria ratio obiecti
fruibilis, sed est concomitans obiectum fruibile; in fruitione inordinata finis
apparentis ratio finis concomitatur obiectum fruibile […], sed in fruitione
finis praefixi ratio finis sequitur actum, […] quia voluntas volendo illud
propter se tribuit sibi rationem finis». back
(38) Ioannes Duns Scotus,
Op. oxon. III,
d. 36, q. un., n. 14 (Opera Omnia, ed. L. Wadding, Lugduni 1639, Rist. an. Olms, Hildesheim 1969 [d’ora
in poi: Wadding], VII/2, 806). back
(39) Ibid.: «[…]
sicut voluntas recte eligens finem praecipit intellectui considerare illa, quae
sunt necessaria ad illum finem, et intellectum sic inquirendo media ordinata ad
illum finem rectum generat in se habitum prudentiae, ita voluntas eligens sibi
malum finem (potest enim sic sibi praestituere malum finem, sicut dictum est
dist. 1 primi) praecipit intellectui considerare media necessaria ad
consequendum illum finem […] ad delectabilia prosequenda, et tristitia opposita
fugienda. Et sicut ex imperio voluntatis bene eligentis generatur <in>
intellectu bene dictante circa media ad illum finem bene electum perquirendum,
habitus, qui est prudentia, ita in voluntate male eligente, habitus acquisitus
ex dictamine circa ea quae ordinantur ad malum finem electum, est error, et
habitus directe oppositus habitui prudentiae, et potest vocari imprudentia, vel
stultitia, […] quia, sicut prudens habet habitum quo recte eligit ordinata ad
finem debitum, ita imprudens vel stultus habet habitum quo prompte eligit
ordinata ad finem praestitutum a voluntate mala». L’integrazione nel testo
segue, oltre che il senso, il testo stabilito da Wolter sulla scorta di una
lettura diretta del codice ‘A’: Wolter,
Duns Scotus on the Will, p. 402. back
(40) Per un’introduzione
alla posizione scotiana riguardo alla definizione delle virtù morali, e ai loro
reciproci rapporti, e per una valutazione delle novità di tali posizioni, si
veda Wolter, Introduction,
in Id., Duns Scotus on the
Will and Morality, pp. 3-122. Si prenda poi in considerazione S. Dumont, «The Necessary Connection of
Moral Virtue to Prudence According to John Duns Scotus - revisited», Recherches
de Théologie ancienne et médiévale 50 (1988), pp. 184-206; e, fra gli
altri, i due recenti studi contenuti in L.
Honnefelder, R. Wood, M. Dreyer (eds.), John Duns Scotus. Metaphysics and Ethics, Brill, Leiden-New
York-Köln 1996: M.E. Ingham, «Practical Wisdom: Scotus’s Presentation of
Prudence», pp. 551-571; M. McCord Adams,
«Scotus and Ockham on the Connection of the Virtues», pp. 499-522. back
(41) Cfr. Ioannes Duns Scotus,
Collatio 1, n. 13 (Wadding
III, 348). La
stessa conclusione è raggiunta anche in Op. oxon. III, d. 36, q. un., n. 22 (Wadding
VII/2, 823). back
(42) Ioannes Duns Scotus, Collatio 1, n. 19 (Wadding
III, 350): «[…] in operabilibus et agibilibus alius erit habitus secundum
speciem de fine, et de his quae sunt ad finem, ut sic alia sit prudentia circa
finem, et alia de his quae sunt ad finem, ut praestituat finem secundum unam
prudentiam, et secundum aliam dirigat virtutes in finem praestitutum». back
(43) È utile consultare
sull’argomento, oltre ai testi suggeriti in nota 40, G. Sondag, Commentaire continu, in Duns Scot, La théologie comme
science pratique (Prologue de la Lectura), Librairie Philosophique
J. Vrin, Paris 1996 pp. 80-81. Mary Elisabeth Ingham suggerisce che il
finis praestitutus dalla prudenza sia lo stesso atto della volontà in
quanto passibile di scelta (Hingham,
«Practical Wisdom», p. 567). back
(44) Su questo punto si può
vedere G. Pizzo, «‘Malitia’ e
‘odium Dei’ nella dottrina della volontà di Giovanni Duns Scoto», Rivista di
Filosofia neo-scolastica, 81/3, pp. 393-415. back
(45)
Ioannes Duns Scotus, Collatio 17, n. 11 (Wadding
III, 385): «[…] actus malus peccati, inquantum peccatum est, aut est
voluntarium, aut non; si sic, habetur propositum, quod voluntas velit malum sub
ratione mali; si non sit voluntarium, ut malus: ergo actus ut malus non est
peccatum». back
(46) Ivi, n. 12 (Wadding III, 385): «[…] si voluntas creata et humana non
posset velle nisi bonum verum, aut bonum apparens, et non malum per se, nec per
se deordinationem in actu peccandi, tunc non posset plus peccare voluntas
creata quam voluntas divina et increata […] probatio consequentiae: omnia
volibilia a nobis sunt etiam volibilia a Deo; ergo quicquid bonitatis et
entitatis substratae est in quocumque actu volendi vitiose, est volitum a Deo sicut
a nobis; si igitur voluntas nostra creata non potest velle per se deordinatonem
et deformitatem in actu volendi vitioso, […] non potest plus peccare in volendo
illam deformitatem, quam voluntas divina». back
(47) Ioannes Duns Scotus, Op. oxon. II, d. 43, q. 2, n. 2 (Wadding VI/2, 1072-1073): «Voluntas
enim quia coniuncta est appetitui sensitivo, nata est condelectari sibi, et
ideo peccans occasionaliter ex inclinatione appetitus sensitivi ad suum
delectabile, peccat ex passione, quod dicitur peccatum ex infirmitatem, sive ex
impotentia, et est appropriate in Patrem, cui attribuitur potentia. Ipsa etiam
agit per cognitionem intellectualem, et ideo ratione errante, ipsa recte non
vult, et peccatum eius ex errore rationis dicitur peccatum ex ignorantia, et
est contra Filium, cui attribuitur sapientia. Tertium etiam esset peccatum
ipsius secundum se ex libertate sua, non condelectando appetitui sensitivo,
neque ex errore rationis, et istud est recte ex malitia, et appropriate contra
Spiritum Sanctum, cui appropiatur bonitas». back
(48) Ivi
(Wadding VI/2, 1073): «Si tamen non
ponatur voluntas creata posse velle malum sub ratione mali, adhuc potest
assignari peccatum ex certa malitia, quando voluntas ex libertate sua absque
passione in appetitu sensitivo, et errore in ratione, peccat. Ibi enim est
plenissima ratio peccati, quia nihil aliud est a voluntate alliciens eam ad
malum, sed ex pura libertate sine alia occasione extrinseca, eligit sibi malum
velle, non tamen ex malitia, ita quod voluntas sic peccans tendat in malum in
quantum malum». Si veda anche, a nota 57, il passo dove Duns Scoto afferma
esplicitamente che non si può volere nulla se non sub ratione boni. back
(49)
Ioannes Duns Scotus, Collatio 17, n. 13 (Wadding
III, 385): «[…] non videtur quod voluntas sit per se principaliter damnata
propter illud quod est per accidens volitum per voluntatem, cum potentia
correspondeat actui culpabili; cum igitur voluntas damnetur propter volitionem
malum, sequitur quod ille actus non sit respectu obiecti mali per accidens, sed
per se». back
(50) Su questo punto si può
vedere G. Alliney, «La
contingenza della fruizione beatifica nello sviluppo del pensiero di Duns Scoto»,
in L. Sileo (ed.) Via Scoti.
Methologica ad mentem Joannis Duns Scoti. Atti del Congresso Scotistico
Internazionale, Roma 9-11 marzo 1993, Roma, PAA – Edizioni Antonianum 1995, II,
pp. 663-660. back
(51) Così intende Bonansea, «Duns Scotus’ Voluntarism»,
p.89. back
(52)
Bonansea, «Duns
Scotus’ Voluntarism», p.89, nota 28; Hoeres,
La volontà, pp. 137-138. Di parere opposto Pizzo, «‘Malitia’ e ‘odium Dei’», pp. 415. back
(53) Ioannes Duns Scotus, Rep. Par. II, d. 43, q. un., n. 5 (Wadding XI/1, 416): «Dico tamen
breviter quod omne peccatum, quod est in voluntate, non precedente
perturbatione, nec passione, nec ignorantia in ratione, est peccatum ex certa
malitia, et sic forte peccavit Adam, quia in eo non fuit perturbatio ex
passione praecedente, nec ignorantia. Sed tamen non omne peccatum ex malitia
nec sine perturbatione voluntatis, est peccatum in Spiritum Sanctum, quia sic
peccatum in Spiritum Sanctum non esset gravissimum. Peccata enim ex certa
malitia possunt esse contra praecepta secundae tabulae, quae non sunt
gravissima, quia tantum virtualiter avertunt a fine: oportet ergo quod peccatum
sit contra praeceptum primae tabulae, quia tunc actualiter et formaliter
avertit ab obiecto illo perfectissimo, et ultimo fine. Nec adhuc omnia peccata
contra praecepta primae tabulae sunt in Spiritum Sanctum, quia oportet ad hoc
quod sit peccatum gravissimum, quod opponatur actui perfectissimo conversivo ad
Deum, et sic quia actus charitas, ut dilectio Dei, et est actus perfectissimus
conversivus ad Deum, si haberet oppositum, scilicet odium Dei, hoc esset
maximum peccatum». back
(54) Ibid.: «Sed non credo quod actus charitas habeat actum
contrarium oppositum, quia non potest Deus odiri ab aliqua voluntate. […] Non ergo peccatum in
Spiritum Sanctum est odium Dei, quia formaliter non potest odiri». back
(55) Ioannes Duns Scotus, Op. oxon. II, d. 6, q. 2, n. 13 (Wadding VI/1, 543): «[…]
<angelus> habuit in ordinata ‘nolle’ […] nolendo Deum esse, in quo
tamquam in summo malo consummata videtur malitia: sicut enim formaliter nullus
actus est melior quam Deus diligere, ita nullus peior est quam Deus odire». back
(56) Ibid.: «Si hoc est verum, tunc est dicendum quod odium Dei non est maximum
peccatum». back
(57) Ibid.: «Sed hic est dubium, an scilicet aliquis posset
appetire Deum non esse, quia, sicut nihil potest esse obiectum volitionis nisi
sub ratione boni, sic nec nolitionis nisi sub ratione mali; in Deo autem nulla
apprehenditur ab angelo ratio mali […]. Et si hoc est verum, tunc est dicendum quod odium
non est respectu Dei in se, nec respectu iustitiae eius; sed quantum ad
effectum appropriatum perfectioni iustitiae, et per hoc potest dici […] non
quantum ad ipsum se, sed volendo iustitiam eius non esse vindicantem […]. Sed
si hoc verum sit, tunc est dicendum quod odium Dei non est maximum peccatum,
quia non respicit Deum in se, sed est contra ipsum in comparatione ad effectum;
similiter tunc sequitur quod amare Deum non habeat actum directe contrarium sed
tantum contrarium dilectioni effectus». back
(58)
Ioannes Duns Scotus, Collatio 17, n. 14 (Wadding
III, 385): «[…] in angelis malis et damnatis Deum odientibus, odium Dei est
apprehensum et ostensum volutati eorum odienti Dei. Aut igitur volunt odium Dei
sub ratione mali, et habetur propositum; aut est volitum sub ratione boni […]
tunc enim errarent in intelligendo, et sic plus errarent quam nos». back
(59) Ioannes Duns Scotus, Rep. Par. II, d. 44, q. un., n. 1 (Wadding XI/1, 417-418): «Si autem accipiatur ‘potentia
peccandi’ pro principio potentiali […] dico quod in ipsa, ut sic, sunt rationes
distinctae correspondentes duobus quae sunt in actu, scilicet substantiae
actus, et deformitati. Ratione libertatis quae est in ipsa fundat ordinem ad
actum positivum in se; libertati autem arbitrii in creatura annexa est
limitatio ratione cuius fundat ordinem ad deformitatem in actu. Nam ista limitatio tollit
perfectionem quae est in Deo». back
(60) Per tutti si veda il
seguente testo fondamentale: Ioannes
Duns Scotus, Quodlibet, q. 16, n. 5 (Wadding XII, 450): «[…] ista posset concedi, quod voluntas
non potest resilire ab obiecto, in quo non ostenditur aliqua ratio mali, nec
aliquis defectus bonus quia, sicut bonum est obiectum huius actus qui est velle,
ita malum vel defectus boni, quod pro malo reputatur, est obiectum huius actus
qui est nolle; et non sequitur ultra: non potest nolle hoc: igitur
necessario vult hoc, quia potest hoc obiectum neque nolle, neque velle». back
(61) H. Arendt, La banalità del male.
Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001, p. 290. back