Etica & Politica / Ethics & Politics, 2002, 2
http://www.units.it/dipfilo/etic_e_politica/2002_2/indexsuarez.html
Universalità
e individualità del male: note sul rapporto tra peccato originale e male morale
secondo Tommaso d’Aquino
Tiziana Suarez-Nani
Università di Friburgo
«Non c’è, per noi, una
ragione comprensibile che ci permetta di sapere da dove viene il male morale»
I.
Kant, La
religione nei limiti della ragione
Il male è un’evidenza. Il suo perché rimane invece
oscuro. Aldilà delle ragioni particolari dei singoli atti moralmente
riprovevoli, la radice del male che imperversa tanto a livello individuale che
collettivo rimane avvolto nell’ombra e nel mistero, un mistero tanto più denso
e fitto che sembra portare con sé, oltre alla ragione del male, quella della sua
ineluttabilità. Questo carattere misterioso non significa nient’altro che
l’incapacità – come scriveva Kant – di trovare una risposta razionale adeguata
al perché del male morale. Il modesto contributo che qui presentiamo non
intende, né pretende certo risolvere una problematica che probabilmente non
trova alcuna risposta definitiva, ma vuole esaminare il tentativo di soluzione
formulato nella seconda metà del XIII secolo da un pensatore che ha marcato la
storia della filosofia occidentale: si tratta di Tommaso d’Aquino che, come
tanti altri suoi contemporanei, ha affrontato il problema spinoso del male ed
ha elaborato una sua risposta, la quale, evidentemente, non poteva che essere
profondamente intrisa della cultura del suo tempo (1).
L’intento di queste pagine è di
ricostruire e di chiarire un aspetto particolare dell’etica tomasiana: quello
del rapporto tra il male morale (2)
(«peccato», «vizi») commesso a livello individuale e quel «male universale» che
sembra starne alla radice e portare con sé il segreto del suo carattere
inesorabile. Nell’ottica medievale, e tomasiana in particolare, non c’è infatti
spiegazione razionalmente valida che non faccia appello ad un concetto
universale: nel nostro caso non è dunque possibile rendere ragione del male
morale che si situa sul piano individuale senza far ricorso ad una ragione che
ha valore normativo e possiede perciò un carattere universale.
Va da sé che Tommaso discusse
questa problematica nei termini in cui essa poteva e andava discussa nel XIII
secolo, sicché quello che oggi potremmo chiamare “male universale” veniva
indicato come «peccato originale», mentre il male compiuto da ogni singolo
individuo era indicato come «peccato (o «vizio») attuale». Cercheremo dunque di
far luce sull’articolazione di queste due realtà nel pensiero dell’Aquinate,
basandoci essenzialmente sulle analisi presenti nella Summa theologiae
(I, qu. 95; Ia-IIae, qu. 71-85; IIa-IIae, qu. 163), che integreremo con altri
testi significativi (Commento al II libro delle Sentenze, d. XXX, qu. 1;
Summa contra Gentiles, IV, 50-52; De malo, qu. 4).
Ricorderemo dapprima gli elementi
salienti della visione tomasiana di Adamo innocente (1), esamineremo in cosa è
consistito il suo peccato (2), chiariremo il rapporto tra peccato individuale e
peccato originale (3) e formuleremo alcune osservazioni conclusive in merito
alla superabilità del male (4).
1. La condizione di Adamo
innocente
Quale fu la condizione di Adamo
al momento della sua creazione? La chiarificazione di questo aspetto è
essenziale per cogliere la natura del suo peccato, essendo questo una
trasgressione o una deviazione rispetto allo stato detto appunto di
«innocenza». Nella questione 95 della prima parte della Somma teologica
(3) Tommaso dice che Adamo fu
creato giusto, vale a dire retto e onesto, conformemente al versetto dell’Ecclesiaste
(7, 30): Deus fecit hominem rectum (4).
Questa giustizia originale (5), propria
dello stato di natura, consisteva nella sottomissione della ragione a Dio, dei
sensi alla ragione e del corpo all’anima (6).
Tali rapporti di sottomissione, nonché la gerarchia delle facoltà da essi
implicata, ubbidivano alla finalità ultima cui l’uomo era destinato, e cioè la
contemplazione di Dio (7). Questa finalità
non poteva essere realizzata che dalla facoltà superiore dell’uomo, cioè dalla
sua componente intellettuale: l’adempimento del fine ultimo esigeva perciò il
dominio della ragione sulle altre facoltà dell’anima e, in maniera ancor più
accentuata, il dominio sul corpo. Allo stato di natura il primo uomo era giusto
proprio nel senso che tutto in lui era orientato verso ciò per cui era stato creato.
La giustizia originale era così fondata su una struttura interna al
soggetto-Adamo conforme alla sua finalità: in altre parole, la giustizia
originale risiedeva nell’articolazione armoniosa delle componenti del primo
uomo in funzione del fine soprannaturale cui egli era destinato. Ora, secondo
Tommaso, la rettitudine dello stato di natura, in quanto orientata verso un
bene soprannaturale, non poteva che essere un dono divino, vale a dire un dono
gratuito (8). La giustizia iniziale nella
quale Adamo fu creato era perciò nel contempo un bene naturale e un dono della
grazia divina (9), conferito all’uomo quale
sostegno nel suo cammino verso la visione di Dio (10).
Grazie all’ordinamento armonioso
delle facoltà proprio della giustizia originale, il primo uomo era privo delle
passioni di segno negativo quali la paura e il dolore, ma anche di quelle di
segno positivo quali il piacere o il desiderio. Il perfetto assoggettamento delle
facoltà inferiori faceva sì che Adamo fosse affetto unicamente da passioni
quali la gioia, l’amore e la speranza rispetto al bene - passioni, dunque, in
piena armonia con la regola della ragione (11).
Occorre precisare che per Tommaso le passioni come tali non rappresentano un
male - esse accompagnano infatti ogni essere umano in quanto composto di anima
e corpo e sono perciò naturali -, ma diventano un impedimento al conseguimento
del fine ultimo se non sono sottomesse alla guida della ragione. Come in altri
svariati campi, anche qui Tommaso applica il principio d’ordine - secondo
l’adagio: bonum universi est bonum ordinis (12) -, che fa di ogni realtà un bene nella misura in cui occupa
il posto che gli si addice nella gerarchia del reale. Nel caso specifico,
l’applicazione di questo principio permette di non escludere, ma di integrare
le passioni situandole al loro giusto posto nella gerarchia degli attributi
dell’anima umana (13). Possiamo così
immaginare Adamo innocente come un essere dotato di passioni quali il
desiderio, l’amore e la speranza del bene. Queste passioni erano infatti
perfettamente compatibili con il possesso delle virtù, essendo quest’ultime
delle perfezioni proprio in quanto, grazie ad esse, la ragione è sottomessa a
Dio e le facoltà inferiori assoggettate alla ragione. La perfezione dello stato
di natura implicava perciò il possesso di tutte le virtù (14), sia allo stato attuale (per virtù come la carità, la
giustizia, la fede o la speranza), sia come habitus (per virtù come la
penitenza o la misericordia).
A questo punto possiamo
riassumere i dati fin qui raccolti dicendo che allo stato di natura Adamo
possedeva la giustizia originale, le passioni nobili quali l’amore e la
speranza, nonché tutte le virtù. La perfezione di questo stato consisteva
nell’articolazione armoniosa di tutte le componenti dell’essere umano sotto
l’egida della ragione e in funzione della finalità ultima, alla quale egli era
destinato fin dalla sua creazione come essere fatto ad immagine di Dio. Vicino
alla condizione angelica, il primo uomo se ne distanziava solo per la sua
componente corporea, che era tuttavia perfettamente sottomessa all’istanza
spirituale. Il male e il dolore gli erano estranei ed il suo essere era pervaso
unicamente dal desiderio e dall’aspirazione verso il bene.
2. Il peccato di Adamo
Come si sa, secondo il mito
biblico trasmesso dal libro della Genesi (15),
la condizione di perfezione e di armonia dello stato di natura venne meno a
causa del peccato di Adamo, che cedette alla tentazione e al desiderio di un
bene creato. Quale fu la natura di questo peccato, di questo primo male che
avrebbe segnato l’intera umanità?
I pensatori medievali diedero
svariate risposte a questo interrogativo. La più diffusa fu quella di matrice
agostiniana, che considerava la concupiscenza come l’elemento costitutivo e
formale del peccato originale (16). Da lì,
compresa come tendenza verso il male insita nelle facoltà sensitive, la
concupiscenza venne adottata quale spiegazione del peccato di Adamo lungo tutto
l’arco del XII secolo e godette di parecchi consensi anche durante la prima
metà del XIII secolo, grazie, tra l’altro, al sostegno datole da Pietro
Lombardo (17). Accanto a questa teoria ci
furono però altre tendenze e soluzioni: la scuola di San Vittore, ad esempio,
introdusse il motivo dell’ignoranza quale ulteriore causa del peccato del primo
uomo, mentre Abelardo – seguito poi dalla scuola porretana – innovava
radicalmente, considerando che il peccato originale presente in ogni individuo
non implicava una vera e propria colpa, ma significava soltanto la necessità di
subire la dannazione eterna a causa della colpa del primo uomo. Anselmo di
Canterbury, dal canto suo, interpretava il peccato originale come privazione
della rettitudine di cui Adamo innocente godeva allo stato di natura (18). I grandi maestri del XIII secolo
rielaborarono questi dati della tradizione e formularono teorie di ascendenza
sia agostiniana che anselmiana.
La prospettiva anselmiana fu
ripresa in particolare da Tommaso d’Aquino, che fece della rettitudine e della
giustizia originale il termine di confronto della sua posizione. Conformemente
al suo procedere analitico, Tommaso solleva una serie di interrogativi la cui
risposta permetterà via via di comporre il quadro della sua concezione. Alla
domanda se il peccato originale sia consistito nell’orgoglio, l’Aquinate
risponde con un esame alquanto significativo per la nostra problematica. Il
peccato - egli precisa – consiste nell’una o nell’altra forma di disordine (inordinatio)
e, prima ancora di sfociare in un atto concreto, si realizza quale movimento
dell’anima rispetto ad un fine. Di conseguenza, il primo peccato risulta essere
anch’esso il prodotto di un desiderio disordinato. Secondo Tommaso non si
trattò però di un desiderio carnale - essendo il corpo, allo stato di natura,
perfettamente sottomesso all’anima -, bensì del desiderio disordinato di un
bene spirituale – un desiderio disordinato poiché non commisurato alla propria
natura (19). Più precisamente, questo
desiderio fu quello della propria eccellenza, ovvero della somiglianza con Dio
quanto alla conoscenza del bene e del male. Nel caso specifico si trattò dunque
di un peccato di orgoglio, sorto dall’anelito verso un bene smisurato e
inadeguato alla natura umana (20). Ora,
quello che per Tommaso conta e costituisce l’esemplarità del peccato originale
risiede proprio nel disordine e nel funzionamento sregolato delle facoltà
rispetto al fine ultimo. Per questo, il peccato originale risultò in definitiva
dalla dissoluzione dell’armonia e della rettitudine che caratterizzava lo stato
di natura. Il primo peccato sovvertì l’ordine delle facoltà dell’anima, il loro
orientamento e la loro sottomissione al fine ultimo: «est enim quaedam
inordinata dispositio proveniens ex dissolutione illius harmoniae in qua
consistebat ratio originalis iustitiae» (21).
La dissoluzione di quell’armonia aprì la porta all’orientamento di ogni facoltà
verso il proprio bene particolare, sovvertendo così l’ordine gerarchico che le
guidava al conseguimento del bene supremo (22).
Il peccato originale non è
dunque, per Tommaso, principalmente o essenzialmente dovuto alla concupiscenza:
questa interviene come elemento materiale, ma non definisce formalmente la
trasgressione adamitica. Dal punto di vista formale, la causa del peccato di
Adamo va cercata in relazione alla giustizia che caratterizzava lo stato di
natura. Consistendo questa nella sottomissione dell’uomo a Dio, il peccato che
ha corrotto lo stato di natura non può essere derivato che dal distogliersi
della volontà dal fine ultimo e dal suo tentativo di sottrarsi a quella
sottomissione. L’elemento formale del peccato originale è dunque la privazione
della rettitudine e della giustizia originale, mentre l’elemento materiale
risiede nella concupiscenza intesa come desiderio disordinato (23).
Questa precisazione – che
avvicina la soluzione tomasiana a quella di Sant’Anselmo – è importante per
quanto riguarda l’esemplarità e la trasmissione del peccato originale: non
essendo questo principalmente un disordine insito alle facoltà sensitive, ma il
sovvertimento dell’ordinamento ordinato di tutte le facoltà, il suo elemento
formale è riconoscibile in ogni peccato individuale, in ogni trasgressione e in
ogni atto malvagio come loro causa ultima.
3. Peccato individuale e
peccato originale: elementi di un rapporto
Giungiamo così al nostro quesito
principale: qual’è il rapporto del male di ogni individuo rispetto al peccato
di Adamo? Qual’è l’articolazione tra i mali particolari commessi dai singoli
individui e il male che ha lasciato un’impronta indelebile sull’umanità?
Un importante chiarimento si
trova nell’analogia dei rapporti tra peccato attuale e peccato originale da un
lato, peccato personale e peccato di natura dall’altro. Peccato in senso
stretto è il peccato attuale, compiuto cioè volontariamente da un soggetto: il
peccato attuale è perciò sempre un peccato personale, commesso da un individuo
ben preciso. Il peccato originale è stato anch’esso un peccato personale,
poiché commesso dall’individuo Adamo. Tuttavia, in quanto capostipite del
genere umano, Adamo non fu solo un individuo particolare, ma anche la
realizzazione della natura umana quale fu voluta da Dio, e come tale egli
rappresenta l’origine ultima di ogni essere umano. Adamo fu dunque nel contempo
persona e natura: per questo ogni singolo individuo si riallaccia ad Adamo come
capostipite dell’umanità e come rappresentante dell’unità della specie: «omnes
homines qui nascuntur ex Adam, possunt considerari ut unus homo, inquantum
conveniunt in natura» (24). In virtù di
questo legame - platonicamente inteso - di partecipazione ad una stessa natura,
la condizione di Adamo è esemplare della condizione umana tanto nel bene quanto
nel male.
Nell’ambito della nostra
problematica questo significa che il peccato di Adamo non fu solo un peccato
personale, ma anche un peccato di natura: «primum autem peccatum primi hominis
non solum peccantem destituit proprio et personali bono, scilicet gratia et
debito ordine animae, sed etiam bono ad naturam communem pertinentem» (25). Per questo il peccato originale viene
trasmesso di generazione in generazione ad ogni individuo, sicché ognuno lo
porta con sé, iscritto nella propria natura come un marchio indelebile (26). Questa trasmissione è ineluttabile: ciò
significa che la volontà di ogni individuo è per natura priva della rettitudine
e della giustizia originale (elemento formale del peccato), e che di
conseguenza le facoltà sensitive si orientano disordinatamente verso i propri
beni particolari (elemento materiale).
Ora, la privazione della
rettitudine originale sta alla radice di ogni peccato e di ogni male: ogni
peccato attuale e personale presenta infatti lo stesso elemento formale, vale a
dire il disordine e lo sregolamento delle facoltà che non sono più sottomesse
alla ragione e che non ricercano più il vero bene (27). Il male individuale è dunque strettamente legato al male
universale che colpisce l’intera umanità: il loro è un rapporto di derivazione
per quanto riguarda l’aspetto formale del vizio o del peccato (cioè il
disordine e lo sregolamento), mentre l’aspetto materiale rimane personale in
quanto prodotto dal libero agire dell’individuo. L’universalità del peccato di
Adamo si iscrive perciò nella condizione di ogni singolo individuo: il peccato
attuale e personale (culpa personae) porta sempre con sé il peccato
originale e universale (culpa naturae), anche se non vi si esaurisce.
Occorre rilevare come in quest’ambito Tommaso d’Aquino faccia prova di un
realismo molto accentuato - soprattutto se confrontato con il «realismo
moderato» della sua teoria degli universali -: il peccato di natura commesso da
Adamo esercita infatti una vera e propria causalità sull’individuo, che ne
dipende formalmente nel suo destino morale.
In base all’articolazione
dell’individuo con la propria natura, questo significa che il male dell’uomo
presenta un carattere di ineluttabilità. Il peccato originale è in un certo
qual modo sempre presente - come un languor naturae, dice Tommaso (28) - e condiziona perciò in permanenza l’agire
dell’individuo. La finitezza della natura umana che esso rappresenta è infatti
un dato irriducibile. Questa conseguenza è ammessa da buona parte dei pensatori
medievali (29), e con essi da Tommaso
d’Aquino. Nessuna creatura - egli dichiarava -, se considerata sul piano della
sua condizione naturale, può non peccare (30).
E questo perché in ogni creatura può venir meno la rettitudine dell’agire,
quando esso non fosse orientato verso il fine ultimo e guidato dalla volontà
divina. In questa prospettiva, solo Dio può non peccare, perché la sua volontà
è l’unica a non sottostare ad alcuna regola superiore (31). La finitezza ontologica e morale che caratterizza ogni
creatura si ripercuote invece sul suo agire almeno sotto forma di potenzialità
della volontà: pur essendo ordinata al bene, essa può fallire nella scelta dei
mezzi e dei metodi per conseguirlo. Questo venir meno sfocia in un agire
disordinato e difettoso, cioè nel peccato e nel male (32). Ogni creatura è dunque fallibile e può compiere il male,
cioè venir meno alla conformità con il bene e con il fine ultimo richiesti
dall’agire morale.
Ma questa possibilità di compiere
il male – fondata ontologicamente su una potenzialità rispetto al bene che può
non essere attualizzata, e derivata, sul piano morale, dall’inordinatio
del primo peccato – rimane nell’ambito del possibile o sfocia in una forma di
necessità? Dalla risposta a questo interrogativo dipende il carattere
ineluttabile del male commesso dall’uomo e di conseguenza la questione –
essenziale in ambito morale – della sua responsabilità: sarebbe infatti
problematico considerare l’uomo responsabile di un agire che fosse in qualche
modo necessario. Se la risposta a questo interrogativo può sembrare ovvia,
poiché per i teologi medievali, e per Tommaso in particolare, è impensabile
privare l’essere umano della propria libertà e della propria responsabilità,
vale comunque la pena considerare da vicino l’argomentazione tomasiana, poiché
essa permetterà di chiarire ulteriormente l’articolazione del male morale
individuale con il peccato universale o di natura trasmesso da Adamo a tutto il
genere umano.
Rispondendo alla domanda se
l’uomo possa, in base alle sue capacità naturali, evitare di compiere il male (33), Tommaso distingue tra lo «stato di natura
integra» e lo «stato di natura corrotta», vale a dire tra la condizione di
Adamo innocente e quella facente seguito al primo peccato. Allo stato di
innocenza l’uomo poteva effettivamente non peccare, poiché, essendo in possesso
della giustizia originale, egli agiva in modo conforme alla gerarchia ordinata
delle sue facoltà e in obbedienza al fine ultimo (34).
Dopo il peccato di Adamo invece, la natura essendo ormai corrotta dalla prima inordinatio,
l’uomo non è più in grado, in base alla sue sole capacità naturali, di evitare
totalmente di compiere il male. Egli può altresì evitare di peccare mortalmente
facendo un uso retto della ragione, cioè orientando la propria mente ed il
proprio agire verso il fine ultimo (35). Non
può tuttavia astenersi totalmente dal peccare venialmente, cioè dall’agire in
modo disordinato nel conseguimento del bene, pur rimanendo la ragione orientata
verso il fine ultimo (36).
A questo punto occorre constatare
che siamo in presenza di una forma di necessità: l’uomo non può non peccare in
alcun modo, ma è portato a compiere il male e lo compie effettivamente, poiché
è incapace di agire in maniera sempre perfettamente conforme alla regola della
ragione e del fine ultimo (37) – accordargli
una simile prerogativa significherebbe del resto farne un essere perfetto, del
tutto simile a Dio. Tommaso fornisce due ragioni di questa necessità sui
generis: la prima è la corruzione delle facoltà sensitive, le quali - come
si è visto - dopo la prima inordinatio si dirigono verso i loro beni
particolari; qui la ragione può certo intervenire e correggere l’orientamento
dei sensi, ma non lo può fare sistematicamente in tutti i casi (38). Il secondo motivo risiede nel fatto che la ragione non è
sempre sufficientemente vigile da poter controllare e correggere tutti gli atti
delle facoltà inferiori (39).
L’argomentazione tomasiana giunge così alla conclusione che se l’uomo non è,
ovviamente, obbligato a peccare, egli non può tuttavia astenersene
completamente: possiamo considerare questa situazione dell’essere umano
rispetto al proprio agire come una «necessità di fatto», che va riportata, in
ultima analisi, alla finitezza intrinseca ad ogni creatura tanto sul piano
ontologico che su quello morale (40).
Occorre sottolineare che
nell’ottica tomasiana questa necessità non compromette in alcun modo la responsabilità
dell’agire e non rende l’uomo impotente di fronte al proprio operare: essa sta
piuttosto a significare che l’essere umano non è sempre e totalmente signore
della propria condotta, anche quando la sua ragione aderisce al bene supremo.
Tommaso evidenzia così lo scarto o il divario tra la conoscenza della verità e
del bene da un lato, e l’agire volto al suo conseguimento dall’altro, o ancora,
sul piano delle facoltà, tra la conoscenza dell’intelletto e l’adesione della
volontà: questo scarto fornisce lo spazio in cui si gioca la libertà umana che
sta a fondamento dell’agire morale e della responsabilità. L’individuo che
commette il male è così, nel contempo, spinto a farlo dallo sregolamento
iscritto nella sua condizione a seguito del peccato di Adamo, e libero di
opporvisi agendo all’insegna della ragione. Viene in tal modo alla luce la
dialettica tra la condizione di natura e la libertà della persona: l’agire di
ogni singolo individuo non può sottrarsi a questa dialettica, ma può superarla
arginando e correggendo l’impatto dell’inordinatio provocata dal peccato
di Adamo. Indipendentemente da questo superamento, rimane tuttavia il fatto che
nell’etica tomasiana l’essere umano è sempre e comunque in uno stretto rapporto
con il peccato originale, il quale, in quanto peccato di natura, sta a
fondamento di tutte le forme di disordine e con il quale la libertà dell’uomo è
chiamata costantemente a misurarsi (41).
4. L’individuo con e oltre la
propria natura
La
dialettica del particolare e dell’universale, della persona e della natura sta
dunque al cuore della problematica morale nella prospettiva di Tommaso
d’Aquino. Ogni individuo, che lo voglia o no, porta con sé una natura di cui è
partecipe e nella quale trova tanto la sua ragione di essere quanto le
determinazioni che segnano la condizione del suo essere uomo. Queste
determinazioni sono duplici: da un lato, la natura umana è immagine di chi l’ha
creata, ed in quanto tale è chiamata a realizzare l’unione con Dio nella visione
della sua essenza; d’altro canto, la natura umana porta con sé la traccia del
peccato di Adamo che l’ha privata della rettitudine e della giustizia originali
(42).
Ci sembra importante sottolineare
che l’agire morale si iscrive nella dinamica di questo duplice rapporto
dell’individuo con se stesso. Il male universale significato dal primo peccato
sta ad indicare la discrepanza tra l’individuo e la propria umanità. La teoria
tomasiana del peccato originale esteriorizza dapprima il rapporto di ogni
individuo con la propria capacità di fare il male, associandola al peccato di
Adamo, e la interiorizza poi nel divario tra il singolo individuo e l’umanità
che porta in sé. L’individuo non è l’umanità: egli, tuttavia, è chiamato ad
aderire alla propria umanità in quanto immagine del creatore e a superare
l’ostacolo dell’inordinatio iniziale che determina la sua condizione (43). In tal modo l’uomo è chiamato nel contempo
ad «essere con» e ad «andare oltre» la propria umanità. La prima è la dinamica
del ritrovamento di sé e del riconoscimento del valore normativo della propria
umanità, la seconda è la dinamica di un superamento vòlto a ristabilire
l’ordine delle facoltà ed il loro orientamento verso il fine ultimo. L’agire
morale si configura così come il superamento dello scarto tra una natura
intrinsecamente buona e la condizione umana divenuta ormai fallibile. In questo
scarto sta il fondamento di quel male universale che impedisce all’uomo di fare
solo e unicamente il bene.
La strada da percorrere per
realizzare questo superamento è quella del ristabilimento dell’ordine delle
facoltà e dell’adeguamento alla regola della ragione. Per Tommaso, sul piano
delle capacità naturali dell’uomo, non c’è altra via che questa: ridare alla
ragione il suo posto e riconoscerne il valore normativo e universale. In
quest’ottica egli fa sua la teoria aristotelica della temperanza, poiché «la
misura della virtù non si situa sul piano quantitativo, ma risulta
dall’adeguamento alla regola della ragione» (44).
Il male, in definitiva, risulta sempre da un allontanamento dalla regola
dettata dalla ragione, cioè dal non dare la priorità a ciò che, nell’ottica di
Tommaso, costituisce il proprio dell’essere umano e riassume l’umanità
dell’uomo (45). Questo implica però che
agire moralmente è alla portata di tutti, e che è anzi il compito di ogni
singolo individuo tanto rispetto a se stesso quanto rispetto all’umanità (46). Ne risulta così che, come il male morale
sul piano personale è sempre in rapporto con il male universale significato e
trasmesso dal primo peccato, così il bene compiuto a livello individuale non
può essere svincolato dal rapporto con l’universalità della regola della
ragione da un lato, e con l’universalità dell’umanità dall’altro.
Riassumendo, possiamo dunque
osservare come nell’ottica tomasiana la radice del male stia in una condizione
che determina, ma non necessita l’agire dell’uomo: costui può decidere di
andare oltre la sua condizione ed aderire più fermamente alla propria umanità.
Se compiere il male significa scadere dalla propria umanità, combatterlo vuol
dire riconciliarsi con essa e perciò stesso con l’umanità tutta. Con e oltre la
propria finitezza e fallibilità, l’uomo è un essere libero: libero di orientare
la sua esistenza nell’uno o nell’altro senso (47).
Il motivo dell’uomo-microcosmo, orizzonte del mondo corporeo e di quello
spirituale, fornisce qui il supporto alla libera scelta di vivere da bestie, da
angeli o semplicemente da uomini. Secondo Tommaso, nell’ambito delle capacità
naturali quest’ultima scelta è quella a cui ogni individuo è chiamato, poiché,
oltre ad essere alla sua portata, essa risponde alla sua natura di essere
razionale (48).
Questa sembra dunque essere la
risposta di Tommaso d’Aquino al mistero del male: sebbene iscritto nella
condizione finita dell’uomo, esso non esaurisce la natura umana, ma può e va
superato, nella misura data ad ogni individuo, attraverso una dinamica di
ritrovamento e di adesione alla propria umanità.
Fondata nel racconto del libro
della Genesi, elaborata in perfetta armonia con la tradizione cristiana
e integrata da motivi aristotelici (la regola della ragione) e dionisiani (la
natura come essenzialmente buona), la posizione dell’Aquinate, con il suo
ottimismo antropologico, sembra forse lasciare sostanzialmente intatto lo
scandalo del male di cui siamo testimoni. L’etica di Tommaso d’Aquino, come quella
dei suoi contemporanei, non poteva pensare il male al di fuori del mito della Genesi,
e la risposta alla domanda del suo perché ne era quindi interamente
condizionata. Oggetto di un parziale recupero nella ragione dell’origine, il
mistero del male di cui ogni individuo fa l’esperienza rimaneva così, tutto
sommato, confinato nell’oscurità. Rimane il fatto che, associando
indissolubilmente l’individuo alla propria natura di uomo e all’umanità tutta,
la risposta tomasiana squarciava, almeno in parte, il velo della solitudine di
fronte al male: il male dell’individuo non è solo suo. La solidarietà che ne
conseguiva nella condizione comune di uomini, nonché la responsabilità che essa
doveva suscitare rispetto ad un compito tanto individuale che collettivo, manteneva
allora aperta la prospettiva verso un certo superamento - sempre possibile e
mai interamente realizzato - del male, poiché esso, benché profondamente umano,
non è ineluttabile.
Friburgo,
marzo 2002
Note
(1) Una
rielaborazione della posizione tomista sul problema del male – integrata dal
contributo delle scienze umane – è proposta da L. B. Geiger, L’expérience humaine du mal, Paris 1969.
back
(2) Non
ci occuperemo dunque qui del male come sofferenza subita o inflitta ad altri. back
(3) Cfr.
Summa theol. I, qu. 95: «De hiis quae attinent voluntati primi hominis,
gratia scilicet et iustitia». La condizione di Adamo rispetto alla conoscenza è
presentata nella quaestio 94: a questo proposito rimandiamo all’articolo
di B. Faes de Mottoni, La
conoscenza di Dio di Adamo innocente nell’In II Sententiarum, d. 23, a. 2, qu.
3 di Bonaventura, «Archivum franciscanum historicum» 91 (1998), pp. 3-32,
dove si troverà un’ampia bibliografia sul tema. back
(4) Cfr. Summa theol. I, qu. 95, a. 1. back
(5) Il termine di «originalis iustitia» risale ad Anselmo di Aosta (De
conceptu virginali et originali peccato), alla cui concezione Tommaso
d’Aquino era molto vicino: cfr. O.
Lottin, Le péché originel chez Albert le Grand, Bonaventure et Thomas
d’Aquin, «Recherches de théologie ancienne et médiévale» 13 (1941), p. 328.
back
(6) Cfr. ibid.: «Erat enim haec rectitudo secundum hoc, quod
ratio subdebatur Deo, rationi vero inferiores vires et animae corpus». back
(7) Cfr. Summa theol. I, qu. 93; Summa c. Gent.
III, 26. back
(8) Cfr. Summa theol. I, qu. 95, a. 1: «Sed quod etiam fuerit
[scilicet Adam] conditus in gratia, […] videtur requirere ipsa rectitudo primi
status, in qua Deus hominem fecit. […] Unde manifestum est quod
illa prima subiectio, qua ratio Deo subdebatur, non erat solum secundum
naturam, sed secundum supernaturale donum gratiae». back
(9)
Cfr. Summa c. Gent. IV, 52: «[...] gratuiti doni quod naturae humanae in
sui institutione fuit collatum. Quod quidem donum quodammodo fuit naturale: non
quasi ex principiis naturae causatum, sed quia sic fuit homini datum ut simul
cum natura propagetur». back
(10)
Cfr. De malo, qu. 5, a. 1: «Sed circa hoc considerandum est, quod
aliquod divinum auxilium necessarium est communiter omni creaturae rationali,
scilicet auxilium gratiae gratum faciens […]. Sed
praeter hoc necessarium fuit homini aliud super naturale auxilium ratione suae
compositionis. […] Hoc autem auxilium fuit originalis iustitia». back
(11) Cfr. Summa theol. I, qu. 95, a. 2: «Illa vero passiones quae
possunt esse boni praesentis ut gaudium et amor; vel quae sunt futuri boni ut
suo tempore habendi, ut desiderium et spes non affligens, fuerunt in statu
innocentiae. Aliter tamen quam in nobis. [...] In statum vero
innocentiae inferior appetitus erat rationi totaliter subiectus: unde non erant
in eo passiones animae, nisi ex rationis iudicio consequentes». back
(12) Cfr. De malo,
qu. 16, a. 9. back
(13) Cfr. Summa theol. I, qu. 95, a. 2: «Ad tertium dicendum quod
perfecta virtus moralis non totaliter tollit passiones, sed ordinat eas:
“temperate enim est concupiscere sicut oportet, et quae oportet”, ut dicitur in
III Ethicorum». back
(14)
Cfr. ibid.: «Unde rectitudo primi status exigebat ut homo aliqualiter
omnes virtutes haberet». back
(15)
Cfr. Genesi 2, 17; 3, 1-24, un testo poi rinforzato dalla Lettera ai
Romani 5, 12-19. Per una lettura dettagliata di questi passi biblici si
veda L. Serenthà, «Peccato
originale», in Dizionario teologico interdisciplinare, vol. 2, Torino
1977, pp. 674-680. back
(16)
Cfr. Agostino, De Genesi ad
litteram, X, XI, 19-XIII, 22; a questo proposito si veda l’ampia
presentazione della concezione agostiniana in Dictionnaire de théologie
catholique, vol. 12, Paris 1933, coll. 371-402. Sulla concupiscenza e la
«storia dei peccati nel Medioevo» rimandiamo a C. Casagrande – S.
Vecchio, I sette vizi capitali, Torino 2000, e a allo studio di L. Cova, Peccatum originale e
concupiscenza in Riccardo di Mediavilla. Vizio ereditario e sessualità
nell’antropologia del XIII secolo, Roma 1984. back
(17)
Per un panorama delle concezioni del peccato originale lungo il XII e XIII
secolo rimandiamo alla sintesi di O.
Lottin, Les théories du péché originel au XII siècle, «Recherches
de théologie ancienne et médiévale» 11 (1939), pp. 17-32; 12 (1940), pp.
78-103; 13 (1941), pp. 236-328; alla voce «Péché originel» curata da A. Gaudel in: Dictionnaire de
théologie catholique, coll. 275-606, e a M. Flick-Z. Alszéghy, Il peccato originale, Brescia 1972 (in
cui si troverà un’amplia bibliografia). Una presentazione completa, che va dai
testi biblici alle problematiche discusse nella teologia contemporanea, si
trova in: AA.VV., La culpabilité fondamentale. Péché originel et
anthropologie moderne, Gembloux 1975. back
(18) Cfr. Lottin, art.
cit. back
(19) Cfr. Summa
theol. IIa-IIae, q. 163, a. 1: «Ille habet rationem primi
peccati in quo primo inordinatio invenitur. […]
Relinquitur igitur quod prima inordinatio appetitus humani fuit ex hoc, quod
aliquod bonum spirituale inordinate appetiit […]. Peccatum eius fuit in hoc
quod appetiit aliquod spirituale bonum supra suam mensuram. Quod pertinet ad
superbiam». back
(20) Si
veda in proposito Gaudel, «Péché
originel», col. 471 ss. back
(21) Summa theol. Ia-IIae, q. 82, a. 1; o ancora: «Causa autem
huius corruptae dispositionis quae dicitur originale peccatum est una tantum,
scilicet privatio originalis iustitiae, per quam sublata est subiectio humanae
mentis ad Deum», ivi, a. 2. back
(22)
Cfr. ivi, ad 2um: «Soluta harmonia originalis iustitiae, diversae animae
potentiae in diversa feruntur». back
(23)
Cfr. ivi, a. 3: «Sic ergo privatio originalis iustitiae, per quam voluntas
subdebatur Deo, est formale in peccato originali: omnis autem alia inordinatio
virium animae se habet in peccato originali sicut quiddam materiale. […] Ita
peccatum originale materialiter quidem est concupiscentia; formaliter vero,
defectus originalis iustitiae»; De malo, q. 4, a. 4, ad 2um:
«concupiscentia est peccatum originale materialiter et quasi per derivationem a
superiori». Questa concezione del peccato originale è perfettamente conforme
alla tesi del male come privazione, sviluppata in De malo, q. 1. back
(24) Cfr. Summa theol. Ia-IIae, q. 81, a. 1; e ancora: «Aliter
enim est in hiis quae sunt unius individui et aliter in hiis quae sunt totius
speciei: nam participatione speciei sunt plures homines velut unus homo, ut
Porphyrius dicit», Summa c. Gent. IV, 52. back
(25) Ibid. Il testo prosegue: «Sic igitur peccatum primi hominis,
a quo omnes alii secundum doctrinam fidei sunt derivati, et personale fuit […]
et naturale, inquantum abstulit sibi et suis posteris consequenter beneficium
collatum toti humanae naturae». Si veda anche In II Sent.,
d. 30, q. 1, a. 2; De malo, q. 4, a. 2 e q. 5, a. 2. back
(26)
Cfr. Summa c. Gent. IV, 52: «Sic igitur huiusmodi defectus in aliis
consequens ex primo parente, etiam in aliis rationem culpae habet, prout omnes
homines computantur unus homo per participationem naturae communis»; Summa
theol. Ia-IIae, q. 81, a. 1, ad 2um: «Unde per virtutem seminis traducitur
humana natura a parente in prolem, et simul cum natura, naturae infectio: ex
hoc enim fit iste qui nascitur consors culpae primi parentis, quod naturam ab
eo sortitur per quandam generativam motionem». Questo aspetto particolarmente
problematico ha suscitato ampie discussioni nella teologia contemporanea: cfr. Serenthà, «Peccato originale», p. 674. back
(27)
Cfr. Summa theol. Ia-IIae, q. 71, a. 2: «Vitium intantum est contra
naturam hominis, inquantum est contra ordinem rationis»; ivi, ad 3um:
«Ex hoc autem vitia et peccata in hominibus proveniunt, quod sequuntur
inclinationem naturae sensitivae contra ordinem rationis»; si veda anche Summa
theol. I-IIae, 84, 1. back
(28) Cfr. Summa theol. Ia-IIae, q. 82, a. 1. back
(29) Si
veda, ad esempio, Alessandro di Hales,
Summa theologica I, II, n. 508; Bonaventura,
In II Sent., d. 24, p. 1 a. 1, q. 1; Riccardo
di Mediavilla, In II Sent., d. 23, princ. 1, q. 1: per la
dottrina di Riccardo di Mediavilla rimandiamo allo studio di Cova, Peccatum originale e
concupiscenza. back
(30) Cfr. Summa theol. I, q. 63, a. 1: «Quaecumque creatura
rationalis, si in sola sua natura consideratur, potest peccare; et cuicumque
creaturae hoc convenit ut peccare non possit, hoc habet ex dono gratiae, non ex
conditione naturae». Si veda anche In II Sent., d. 23, q. 1, a. 1. back
(31)
Cfr. ibid.: «Divina autem voluntas sola est regula sui actus, quia non
ad superiorem finem ordinatur». back
(32)
Cfr. De veritate, q. 24, a. 7: «Nihil enim est aliud peccatum […] quam
defectus vel inordinatio propriae actionis, cum aliquid agitur non secundum
quod debitum est agi […]. Creatura vero quaelibet, cum in natura sua habeat
permixtionem potentiae, est bonum particulare. Quae quidem permixtio potentiae
ei accidit per hoc quod est ex nihilo. Et inde est quod inter naturas rationales
solus Deus habet liberum arbitrium naturaliter impeccabilem et confirmatum in
bono: creaturae vero hoc inesse impossibile est, propter hoc quod est ex nihilo
[…]». back
(33) Cfr. Summa theol. Ia-IIae, q. 109, a. 7: «Utrum
homo sine gratia possit non peccare». back
(34)
Cfr. ibid.: «Secundum statum quidem naturae integrae, etiam sine gratia
habituali, poterat homo non peccare nec mortaliter nec venialiter: quia peccare
nihil aliud est quam recedere ab eo quod est secundum naturam, quod vitare homo
poterat in integritate naturae». back
(35) Il
peccato mortale consiste infatti nello sregolamento della ragione rispetto al
fine ultimo: «inordinatio corrumpens principium spiritualis vitae, quod est
finis ultimus, causat mortem spiritualem peccati mortalis. Ordinare autem
aliquid in finem non est sensualitatis, sed solum rationis. […] Unde peccatum
mortale non potest esse in sensualitate, sed solum in ratione», Summa theol.
I, q. 74, a. 4. back
(36) Il
peccato veniale consiste in uno sregolamento dell’agire che non implica
tuttavia il distogliersi dal fine ultimo: «Contingit autem quod inordinatio
actum in quem [ratio] consentit, non contrariatur rationibus aeternis, quia non
est cum aversione a fine ultimo, sicut contrariatur actus peccati mortalis: sed
est praeter eas, sicut actus peccati venialis», Summa theol., q. 74, a.
9; si veda anche Summa contra Gentiles III, 160. back
(37)
Sull’etica tomasiana come «teoria della retta ragione» vedasi: J. Bourke, Storia dell’etica,
Roma 1972, p. 163-166. back
(38) Cfr. Summa theol. Ia-IIae, q. 109, a. 8: «Non autem potest
homo abstinere ab omni peccato veniali, propter corruptionem interioris
appetitus sensualitatis, cuius motus singulos quidem ratio reprimere potest
[…], non autem omnes: quia dum uni resistere nititur, fortassis alius
insurgit». back
(39)
Cfr. ibid.: «et etiam quia ratio non semper potest esse pervigil ad
huiusmodi actus vitandos». back
(40)
Questa necessità di fatto non concerne del resto solo i peccati veniali, ma
anche quelli mortali: «non necesse quod [homo] continue peccet in actu. Sed
quod diu maneat absque peccato mortali, esse non potest. […], quia, ratione hominis
non existente subiecta Deo, consequens est ut contingant multae inordinationes
in ipsis actibus rationis», ibid. back
(41)
Alla luce della distinzione leibniziana (cfr. Saggi di teodicea I, § 21)
tra male metafisico (come imperfezione sul piano ontologico) e male morale
(peccato), possiamo dire che nella prospettiva tomasiana il male morale
individuale è sempre in rapporto con il male metafisico che ha una portata
universale. back
(42) A
questo proposito, in un saggio di grande interesse Paul Ricoeur considera che
il mito adamitico ha prodotto un’«antropologia dell’ambiguità», nella quale la
grandezza e la colpevolezza dell’uomo sono ormai inestricabili: cfr. Finitude
et culpabilité, Paris 1960; 1988 (2a ed.), p. 387. back
(43)
Nella teologia contemporanea è stata messa in evidenza una forte tensione tra
queste due eredità dell’uomo, cioè l’essere nel contempo peccatore e immagine
di Dio: queste due componenti della condizione umana essendo giudicate
incompatibili, il loro esame ha dato luogo ad una revisione critica del dogma
del peccato originale e ad una rilettura dei passi biblici cui esso fa appello:
si veda in proposito A. de Villalmonte,
Cristianismo sin pecado original, Salamanca 1999. back
(44) Cfr. Summa theol. IIa-IIae, q. 147, a. 1: «medium virtutis
non accipitur secundum quantitatem, sed secundum rationem rectam, ut dicitur in
II Ethicorum». back
(45) Cfr. E. Gilson, Saint Thomas moraliste,
Paris 1974, p. 99 ss. e 209 ss.; L. Lehu,
La raison règle de la moralité d’après St. Thomas, Paris 1930. back
(46) Ne
risulta che il bene è una responsabilità non solo individuale, ma anche
collettiva. Il motivo del contributo che ogni uomo può e deve dare al
compimento dell’umanità presenta una certa analogia con quello di derivazione
averroista - che sarà ripreso da Dante Alighieri nella Monarchia -
secondo il quale le conoscenze particolari dei singoli individui
contribuiscono, nel loro insieme, all’attualizzazione dell’intelletto possibile
unico per tutti gli uomini. Questa possible analogia si fonda sulla commune
ascendenza neoplatonica delle due concezioni, che pongono l’individuo - seppur
in modo diverso - in un rapporto di dipendenza da un universale al quale
partecipa. back
(47) Al
livello superiore delle creature spirituali non si riscontra più una simile libertà
di fronte al bene e al male: gli angeli e i demoni infatti hanno aderito in
modo fisso, una volta per tutte, alla conoscenza fornita loro dall’intelletto;
di conseguenza, come gli angeli buoni hanno aderito al bene e permangono in
questa loro scelta, così i demoni permangono nella scelta iniziale per il male:
«Ad inquirendum ergo causam huiusmodi obstinationis [daemonum], considerandum
est quod vis appetitiva in omnibus proportionatur apprehensivae a qua movetur,
sicut mobile motori […]. Differt autem apprehensio angeli ab apprehensione
hominis in hoc, quod angelus apprehendit immobiliter per intellectum […], homo
vero per rationem apprehendit mobiliter, discurrendo de uno ad aliud […]. Unde et voluntas
hominis adhaeret alicui mobiliter […], voluntas autem angeli adhaeret fixe et
immobiliter. […] Sic igitur boni angeli, semper adhaerentes iustitiae,
sunt in illa confirmati, mali vero, peccantes, sunt in peccato obstinati», Summa
theol. I, q. 64, a. 2. back
(48) In questa
sede abbiamo volutamente limitato il nostro esame alle capacità naturali
dell’uomo: per Tommaso, evidentemente, la ragione naturale deve a sua volta
essere piegata e superata nella dinamica che porta al fine soprannaturale e che
introduce all’ordine della grazia. back