Etica & Politica / Ethics & Politics, 2002, 2
http://www.units.it/dipfilo/etic_e_politica/2002_2/indexcova.html
Natura
e persona nell'etica sessuale di Tommaso d'Aquino
Luciano Cova
Università di Trieste
In un saggio dedicato
all'invenzione del termine e del concetto di ‘sodomia’ nel corso del medioevo,
Mark Jordan rileva l’assenza in Tommaso d’Aquino di una categorizzazione della
sessualità che oltrepassi i limiti di una «teleologia animale»: la categoria di
‘lussuria’ si costituisce esclusivamente in rapporto alla finalità procreativa,
con una restrizione che ai nostri occhi appare «at best quaint, at worse
tyrannical» (1). È tuttavia lecito, a mio giudizio,
chiedersi se la dottrina tommasiana riguardante l’usus venereorum sia
sempre rigidamente coerente con questa impostazione biologica, o se invece
altri criteri ed esigenze vi entrino, più o meno surrettiziamente. La domanda
può riguardare, in positivo, ulteriori fini che eventualmente concorrano a
giustificare l’atto coniugale (2)
e, in negativo, tutte le proibizioni, i mille tabù teorizzati: se cioè siano
effettivamente pensate e logicamente organizzate soltanto in relazione alla
conservazione della specie umana, o se in qualche modo entri in gioco, quale
limite, anche il bene dei singoli, e in particolare il rispetto delle persone (3).
Si tratta, per la
verità, di una domanda pericolosa, in quanto potrebbe dare la stura a letture
ideologiche e militanti, o perlomeno attualizzanti, della storia dottrinale:
per un verso sforzandosi, con intento apologetico, di cercare in Tommaso le
radici di quel tentativo di integrare il concetto di persona nei valori
dell’etica sessuale che sembra contraddistinguere parte del pensiero cattolico
contemporaneo (4); per un altro, al contrario,
polemicamente limitandosi ad enfatizzare, senza sfumature problematiche,
l’arcaicità di una dottrina morale che, nel rivendicare i diritti della
“natura”, mira di fatto – da parte di chi oggi la ripropone – a perpetuare un
modello educativo e sociale incapace di accogliere valori ormai largamente
condivisi nella nostra cultura.
Tuttavia è una domanda
lecita, nel limite in cui non è imposta dal di fuori, bensì sollecitata in
qualche modo dai testi stessi di Tommaso: sin dalla Summa contra Gentiles (III,
cap. 122) viene infatti affrontata in maniera esplicita l’obiezione di chi
sembra muoversi nell’ottica di ridurre la ratio culpae dei peccati
«venerei» all’offesa di un’altra persona. Chiedersi se la «fornicazione» (per
continuare a usare la terminologia medievale) costituisca un disvalore anche
quando non sia accompagnata da alcuna forma di violenza verso altri non è
dunque una nostra indebita proiezione, ma rientra a pieno titolo nell’ambito
della cultura medievale, per lo meno come provocazione di un’etica
naturalistica, goliardica e libertina, contrapposta alla morale dominante e
ufficiale, radicata nella sacra Scrittura e codificata nelle scuole teologiche.
Scopo del presente lavoro è, perciò, tentare una rilettura in
quest'ottica dei più importanti testi tommasiani, dalla quale possano emergere
spunti problematici per ulteriori approfondimenti. Per quanto concerne fonti,
debiti e innovazioni di Tommaso nei riguardi della tradizione dottrinale del medioevo
latino, mi limiterò in questo breve excursus ad alcune notazioni essenziali.
Rinuncerò in particolare ad un confronto dettagliato con gli altri teologi
parigini duecenteschi, soprattutto con Alberto Magno, che costituirebbe un
elemento irrinunciabile se questo aspetto del pensiero tommasiano fosse oggetto
di uno studio storico completo.
1. La fornicatio
simplex nella Summa contra Gentiles
L’obiezione fondata
sulla mancanza di un danno inferto ad altri viene riferita e confutata allo
scopo di illustrare la ragione per la quale, secondo il maestro domenicano,
deve venir considerata sempre peccato la fornicatio simplex (e cioè,
come vedremo, il rapporto sessuale, praticato nelle modalità dovute ma al di
fuori del matrimonio, tra un uomo e una donna liberi e consenzienti). Alcuni,
dice Tommaso senza meglio precisare, ritengono non si tratti di peccato perché
in tal caso non si fa ingiuria né alla donna né ad altri: ella infatti lo fa di
sua volontà e gradimento, e d’altra parte non ci sono uomini (s’intende: il
marito o il padre) che vengano offesi in quanto esercitanti una potestà nei
suoi confronti (5). Secondo costoro
nell’emissione del seme non vi è più peccato di quanto ve ne sia nell’emissione
di altri umori superflui (6).
‘Quod simplex
fornicatio, utpote soluti cum soluta, non est peccatum’ sarà anche una delle
proposizioni (la n° 205) condannate da Stefano Tempier nel sillabo del 1277, la
fonte o le fonti della quale non è però facile individuare. Roland Hissette (7) nota che idee di questo tipo sembrano
estranee a Sigieri di Brabante e all’aristotelismo radicale, mentre solo in
parte si possono richiamare al De amore di Andrea il Cappellano (il
quale ammette la pratica dell’amore «misto», giudicandolo però inferiore
all’amore «puro» e affermando che la fornicazione è lesiva del prossimo e del
Re celeste): piuttosto, come fonte filosofica, si potrebbe pensare a Mosè
Maimonide, cui Egidio Romano negli Errores philosophorum rimprovera di
aver insegnato che la fornicazione è peccato ratione prohibitionis ma
non jure naturali, mentre, a livello letterario, nel secondo Roman de
la Rose (composto comunque negli anni immediatamente successivi alla morte
di Tommaso) si lascia intendere che l’unione libera è degna di lode in
quanto obbedisce alle leggi della natura.
Si noti in ogni caso
che, mentre la proposizione condannata a Parigi si limita a negare il disvalore
morale della fornicazione senza darne giustificazione alcuna, l’obiezione
affrontata nella Contra Gentiles si fonda precisamente sull’assenza di iniuria
(verso la donna, il padre o il marito). In un’ottica simile si collocano
poi anche due possibili risposte, che il maestro domenicano formula ma respinge
in quanto insufficienti: vale a dire che nella fornicatio simplex vi è
perlomeno offesa a Dio (che la vieta), oppure al prossimo che viene
scandalizzato. Solamente in quanto contrari al «bene dell’uomo», rileva Tommaso
in coerenza con l’intonazione finalistica e naturale della sua etica, gli atti
umani offendono Dio, e d’altra parte lo scandalo altrui, che di per sé può
riguardare anche atti leciti, costituisce un elemento meramente accidentale (8): il problema dunque è di dimostrare che
la fornicazione in se stessa è peccato, in quanto si oppone al fine stesso
della natura umana.
A questo scopo (e perciò
in una chiave nettamente contraria a integrare elementi personalistici,
considerati del tutto estrinseci) viene delineato, in maniera sintetica ma
chiarissima, il quadro di fondo di un’etica sessuale tutta centrata sulla
finalizzazione naturale del seme non all’individuo ma alla conservazione della
specie. Se il male è quanto allontana dal fine dovuto, ciò vale anche per ogni
singola parte e per ogni singolo atto dell’uomo, e dunque anche per il seme e
per la sua emissione. Ma mentre per il bene dell’uomo gli altri umori superflui
devono semplicemente venire espulsi (in vista della conservazione
dell’individuo), il seme dev’essere emesso soltanto ad generationis
utilitatem (9).
Risulta perciò contraria
al bene dell’uomo (e, se volontaria, peccato) ogni emissione di seme dalla
quale «non possa seguire una generazione» (se non per motivi accidentali, come
la sterilità della donna). Sino a questo punto del ragionamento, è chiaro, non
sono ancora condannati gli atti di fornicatio simplex (e molti altri,
come l’adulterio), bensì soltanto «omnis emissio seminis sine naturali
coniunctione maris et feminae», i peccati che «contra naturam dicuntur» (10). Con quest’ultima espressione Tommaso
dimostra di collegarsi ad una tradizione dottrinale e lessicale, su cui avrò
modo di ritornare esaminando alcuni passi della Secunda Secundae. Nella Contra
Gentiles si limita a proporre alcune esemplificazioni, lì dove vuole
mostrare che comportamenti di questo tipo non sono soltanto contrari alla
ragione, ma vengono anche condannati nelle Scritture (11).
Si noti che i passi
citati (tratti dal Levitico e dalla prima Lettera ai Corinti)
vietano gli accoppiamenti tra uomini e con gli animali, oltre a quella
«mollezza» che Tommaso verisimilmente identifica con la masturbazione maschile
(12). Forse non è casuale l’omissione dei luoghi
in cui vengono divinitus proibite le pratiche omosessuali femminili, la
cui inammissibilità non sembra risultare con evidenza dal quadro «razionale»
sopra delineato, se si tiene presente che, nella prospettiva rigidamente
aristotelica adottata dal maestro domenicano in campo biologico, le donne
propriamente parlando non emettono seme (13).
E in effetti (anche a prescindere dalla posizione di Tommaso, che comunque
nella Somma teologica sarà esplicito nel condannare il «vizio sodomitico»
al femminile, con l’opportuna citazione paolina tratta dalla Lettera ai
Romani) (14) nella cultura medievale si possono
trovare tracce di una parziale tolleranza nei confronti di comportamenti
devianti, quali i rapporti sessuali tra donne e soprattutto l’autoerotismo
femminile, che non comportano alcuna dispersione di seme maschile: questo
rimane una sorta di sacrario privilegiato della natura umana anche lì dove, nel
solco delle dottrine mediche di Galeno e di Avicenna, si riconosce l’esistenza
di uno «sperma femminile» dotato di una certa virtù generativa (15).
Ritornando al filo del
discorso tommasiano, perché l’emissione del seme sia completamente ordinata al bonum
hominis non è però sufficiente che non venga impedita una possibile
generazione, ma è necessario che inoltre possano seguire un’adeguata nutrizione
e l’educazione della prole (16).
A tale scopo, nel caso di molti animali (come ad esempio i cani) è sufficiente
la femmina, ma in altri («alcuni uccelli», dato il modo in cui vengono nutriti
i loro piccoli, e soprattutto l’uomo, date le molteplici necessità della vita
umana) è necessario che il maschio continui a rimanere insieme con la femmina:
«è dunque conforme alla natura umana che, dopo l’accoppiamento, l’uomo conviva
con la donna, anziché allontanarsene subito per accostarsi indifferentemente a
qualunque altra, come avviene nel caso di quelli che praticano la fornicazione»
(17). Tommaso si dilunga nell’illustrare i
motivi per i quali è necessaria la compresenza dell’uomo: si tratta non solo di
nutrire il corpo, ma di educare l’anima attraverso un lungo processo di
istruzione che, tra l’altro, al momento opportuno richiede anche adeguati
interventi repressivi. In conclusione, è naturale per l’uomo quella «duratura
società» che chiamiamo matrimonio, mentre è contrario al suo bene (ed è perciò
peccato) il «coito fornicario» (18).
Non mancano, com’è ovvio, i passi biblici per confermare l’illiceità di
qualsiasi rapporto sessuale che non sia con la propria moglie (19).
Tommaso precisa che ogni
emissione di seme disordinata, vale a dire praeter debitum generationis et
educationis finem, è peccato grave, poiché arreca (a differenza di quanto
avviene nell’uso improprio di altre parti del corpo umano) un forte impedimento
al bene dell’uomo, contrastando con la finalità della conservazione della
specie: in una scala di gravità, questo genere di peccati occupa il secondo
posto dopo l’omicidio, che consiste nel distruggere una natura umana già
esistente in atto (20).
Non viene invece qui
proposta una graduatoria interna al genere, quale potremo trovare invece nella Somma
teologica. È chiaro, comunque, che sono considerati più gravi i peccati
lesivi della procreazione nel suo aspetto schiettamente biologico. Si possono,
a questo proposito, notare alcune sfumature linguistiche con cui sembra
affacciarsi una tensione che si avrà modo di rilevare nell’opera maggiore: se
in qualche modo tutti i peccati, nell’ottica rigorosamente teleologica del
maestro domenicano, dovrebbero essere considerati «contro natura», in quanto
contrastano con il fine naturale dell’uomo, questa espressione viene
accuratamente riservata ai peccati con i quali s’impedisce la finalizzazione
del seme alla generazione, mentre ai peccati che si limitano ad impedire
un’adeguata educazione della prole concepita (così come anche al peccato
venereo nella sua generalità) viene imputato solamente di «essere contro il
bene dell’uomo» o di «ripugnare al bene della natura (umana)». Ciò avviene,
chiaramente, allo scopo di isolare alcuni comportamenti umani (masturbazione,
omosessualità, «bestialità») in un’area di indicibile, «nefanda» gravità, nel
solco – come si sostiene comunemente – di una tradizione religiosa, quella
giudaico-cristiana, antica e consolidata (21),
o – come vorrebbero alcuni studiosi – sotto la pressione di una svolta culturale
abbastanza recente (22).
Si può ancora notare, a
proposito del capitolo della Contra Gentiles preso in esame, quel
riferimento al comportamento monogamo di «alcuni uccelli» («tutti gli uccelli»
si dirà nella Secunda Secundae) (23)
che rivela in Tommaso un interesse morale per il comportamento degli animali:
atteggiamento diffuso nella cultura medievale e in sintonia, come avremo
occasione di vedere, con la sua fedeltà alla formula di Ulpiano a proposito
della «legge naturale», che accomuna uomini e bruti. E si può rilevare, in
conclusione, la ferrea coerenza nella ricerca di una ratio propria e
specifica per i peccati «venerei», del tutto distinta da quella che
caratterizza i peccati contro le persone (contrari al bene dell’uomo in quanto
lesivi non della specie ma dei singoli individui) (24). Lo stesso obiettivo di una cura adeguata della prole si
situa nella prospettiva della conservatio speciei: per questo, come
l’unica motivazione razionalmente valida per un atto sessuale è il
concepimento, per la fedeltà di coppia sembra esserlo l’educazione dei figli (25). Si tratta adesso di appurare se la
trattazione corrispondente della Summa theologiae (in particolare le due
questioni De luxuria della Secunda Secundae, che costituiscono un
vero e proprio trattato) possa, attraverso la sua ampia articolazione,
manifestare qualche cambiamento di rotta, sia pure parziale. Ovviamente non
sarà possibile, in questa sede, analizzare un testo di tale portata, ma mi
limiterò a mettere a fuoco alcuni tra i passi più significativi nell’ottica del
presente studio.
2. La fornicatio
simplex e le altre specie di luxuria nella Summa theologiae
Nella Questione 153
della Secunda Secundae si tratta della lussuria in generale, intesa,
sulla scia di Isidoro, come il vizio di chi è solutus in voluptates (venereas,
precisa Tommaso) (26) e fa uso di questo
tipo di dilettazione non secondo la retta ragione (27): la prospettiva psicologica, perlomeno a livello
definitorio, integra manifestamente quella biologica, nel senso che si tratta
di un abuso del piacere e non (solo) del seme. Nella Questione 154 vengono poi
studiate le varie specie di lussuria, a partire dalla fornicatio simplex (28).
L’intento, ancora una
volta, è di dimostrare che si tratta di un peccato mortale. Qui però (si tratta
del secondo articolo) le obiezioni si moltiplicano, e la mancanza di iniuria
costituisce soltanto una delle sei difficoltà affrontate, perdendo così
forse parte della sua pregnanza etico-filosofica. Tra le rimanenti, fondate su
varie «autorità» attinte alla Bibbia e alla tradizione patristica ed
ecclesiastica, alcune si presentano di grande interesse perché consentono al
maestro domenicano di sviluppare discorsi importanti: la contrapposizione tra
l’etica giudaico-cristiana e quella greco-romana (che, a causa della
«corruzione della ragione naturale», non considerava illecita la fornicazione
semplice) (29); l’affermazione della volontà divina
come «prima e somma regola» (per cui, se Dio impone a singoli uomini precetti
contrari al «comune ordine della ragione», l’obbedienza non contrasta con la
«retta ragione») (30); il confronto tra
l’atto di gola e l’inordinatio concubitus (solo quest’ultima è sempre, ex
suo genere, peccato mortale, in quanto la generazione di un uomo è
possibile in virtù di un singolo atto venereo, mentre perlopiù a una singola
assunzione di cibo non segue un impedimento alla vita intera di un individuo) (31). In questa sede, tuttavia, interessa
soprattutto esaminare l’obiezione fondata sull’assenza di ingiuria ad altre
persone e la relativa risposta, che presentano rilevanti novità rispetto al
testo della Contra Gentiles.
L’argomento si sviluppa
in un’ottica schiettamente teologica: ogni peccato mortale si oppone alla
carità, ma questo non è il caso della fornicatio simplex, che non
contrasta né con l’amore di Dio (non è direttamente peccato contro di lui) né
con l’amore del prossimo (non fa ingiuria ad alcun uomo) (32). La soluzione accoglie implicitamente il principio secondo
cui ogni colpa grave comporta un venir meno della dilectio Dei o della dilectio
proximi, ma afferma che la fornicazione semplice, in particolare,
costituisce offesa di altri uomini: essa infatti, dice Tommaso, «è in contrasto
con l’amore del prossimo, in quanto ripugna al bene della prole nascitura» (33). Nella brevissima risposta a
un’obiezione, simile a questa, della XV Questione disputata De malo
concernente la lussuria (forse di poco precedente) (34), si sostiene addirittura che «sono peccati contro il
prossimo tutte le corruzioni della lussuria che si situano al di fuori di un
uso legittimo del matrimonio, in quanto sono contro il bene della prole da
generare ed educare», comprendendo così implicitamente anche quegli atti
«contro natura» che si oppongono direttamente al fine procreativo (35).
Si noti che nella Somma
teologica il bene da salvaguardare non sembra più presentarsi solo come
conservazione della specie umana nella sua generalità, bensì come «ciò che
conviene» ai figli che possono nascere (36)
(anche se in vari passi viene ribadita la finalizzazione dell’usus
venereorum al «bonum commune quod est conservatio generis humani») (37). Detto per inciso, si tratta di una
prospettiva che anche ai nostri giorni, mutatis mutandis, potrebbe
incontrare il favore di molti dai quali, per il resto, l’etica sessuale
tommasiana non è condivisa un granché: tradotto in termini moderni, è
irresponsabile (fuori ma anche nel matrimonio) un rapporto potenzialmente
fecondo laddove non ci sia la piena disponibilità a una presa in carico del
nascituro da parte della coppia. Non avrebbe senso alcuno, tuttavia, forzare il
pensiero di Tommaso in una direzione estranea ai suoi intendimenti (che sono,
poi, gli stessi della cultura di cui tale pensiero è espressione altamente
rappresentativa): per lui, ovviamente, non si tratta di essere disposti ai
doveri della maternità e della paternità “nel caso si accetti” un tipo di
rapporto potenzialmente fecondo e anche a prescindere dal quadro giuridico,
bensì, data per scontata l’obbligatorietà della finalità procreativa (per cui
qualsiasi forma di sessualità non conforme al normale amplesso eterosessuale è
bollata come «contro natura») (38),
si tratta di garantire con un’unione non solo duratura di fatto, ma legalmente
valida, il bene della prole. Nel respondeo (39), infatti, non soltanto si afferma che il vagus concubitus
è «contro la natura dell’uomo» (si noti: ancora una volta, non «contro
natura» tout court) mentre il matrimonio è de iure naturali, ma si
precisa che, trattandosi di un «bene comune a tutto il genere umano», è
necessario che questa unione stabile sia determinata da qualche legge
(positiva), per cui non è moralmente sufficiente se qualcuno, come «in qualche
caso può accadere», provveda all’educazione della prole all’interno di un
rapporto fornicario (40).
Che il danno inflitto ad
altri, cioè al singolo nascituro, sia costitutivo della fornicatio simplex (nel
senso che entra in maniera preminente nella ratio per cui essa è peccato
mortale) non risulta soltanto dalla soluzione del quarto argomento, ma è
affermato con chiarezza già nello stesso respondeo:
Considerandum est quod
peccatum mortale est omne peccatum quod committitur directe contra vitam
hominis. Fornicatio autem simplex importat inordinationem quae vergit in
nocumentum vitae eius qui est ex tali concubitu nasciturus (41).
Ciò è confermato in
pieno dall’articolo successivo, dove si confronta la fornicazione semplice con
peccati di altro tipo: per il maestro domenicano essa è di per sé meno grave
dei peccati rivolti contro Dio e anche di quelli rivolti contro la vita di un
uomo già nato, ma è più grave di peccati, come il furto, che riguardano
soltanto beni esteriori, proprio in quanto è contraria al «bene di un uomo che
nascerà» (42).
Questa prospettiva, a
mio giudizio, non soltanto modifica l’impostazione o per lo meno l’intonazione
della Contra Gentiles, ma in parte sembra correggere alcune affermazioni
del primo articolo, quello in cui Tommaso si sforza di giustificare una
divisione della lussuria in sei specie (fornicatio simplex, adulterium,
incestus, stuprum, raptus e vitium contra naturam),
richiamandosi non del tutto correttamente al Decreto di Graziano e
presentando di fatto una variante delle classificazioni correnti nella facoltà
teologica di Parigi (Summa halensis e Summa de vitiis di
Guglielmo Peraldo) (43). Infatti la
fornicazione semplice viene qui formalmente esclusa dall’insieme dei peccati
venerei la cui opposizione alla retta ragione si definisce «per comparazione ad
altri uomini», ed inserita invece (enfatizzandone il contrasto diretto con il
fine dell’atto sessuale) in quello contraddistinto da un impedimento nei
confronti della finalità procreativa (44).
Bisogna tenere presente
che, per Tommaso, la differenziazione dei peccati venerei avviene ex parte
materiae (45), e il punto di vista, anche se non
centrato esclusivamente sul seme, non può essere che quello del vir «agente»
nei confronti della femina «paziente» (46).
La materia tuttavia «ha annessa la diversità formale dell’oggetto», e questa
dipende dai «diversi modi di ripugnanza alla ragione retta» (47). Nella lussuria i modi sono due: o in riferimento «al fine
dell’atto venereo», o «per comparazione agli altri uomini». Nel primo ordine
rientra non solo il vizio contro natura (che si ha «in omni actu venereo ex quo
generatio sequi non potest»), ma anche la fornicazione semplice, in quanto
impedisce la «debita educazione e promozione della prole nata» (48). Nel secondo rientrano invece i peccati che recano offesa o
alla donna cui ci si unisce o all’uomo «sotto la cui potestà si trova la
femmina» (49). Per quanto possa sembrare sorprendente
(se si fa riferimento ai nostri schemi mentali e ai nostri valori), l’offesa
alla donna sembra non avere a che fare per Tommaso con la violazione della sua
volontà: si dà infatti nel caso dell’incesto (indipendentemente dalla
consensualità, cui non si accenna) (50),
in quanto «non si serba il dovuto onore» a donne cui si è congiunti per
consanguineità o affinità, e viceversa vengono classificati come costituenti
offesa al marito e al padre non soltanto l’adulterio e lo stuprum (inteso,
secondo un’accezione completamente diversa da quella odierna, come violazione
consensuale della verginità) (51),
ma anche il «ratto», compresi i casi in cui alla donna viene inferta violenza.
In questo modo, a
prescindere dal fatto che alla dignità della donna come elemento moralmente
rilevante pare concesso uno spazio minimo (52),
tra i peccati di lussuria si presentano di fatto esclusi da un ambito di
«peccati contro il prossimo» solamente quelli che rientrano nella specie ‘vitium
contra naturam’: ai quattro, infatti, che ripugnano alla retta ragione per
comparationem ad alios homines (incesto, adulterio, stuprum, ratto)
si può aggiungere la fornicatio simplex, che, forse anche per motivi di
equilibrio nella classificazione, nel primo articolo viene inserita senz’altro
all’interno del gruppo contraddistinto dall’opposizione al fine, e tuttavia nel
secondo risulta essenzialmente contraria alla dilectio proximi.
Guardando al quadro sin
qui emerso e agli ulteriori sviluppi della Questione, si affaccia, nella
prospettiva che interessa il presente studio, tutta una serie di problemi,
indicativi di tensioni all’interno del pensiero tommasiano. Vedremo, anzitutto,
che si possono trovare passi in cui l’offesa ad altri uomini, lì dove se ne
riconosce la presenza, si presenta come qualche cosa non di costitutivo del
peccato sessuale come tale, bensì di “aggiunto”, una sorta di aggravante, pur
risultando indispensabile per la determinazione delle varie specie. Appare così
tutt’altro che sopita la preoccupazione di mantenere in tutti i casi una ratio
propria, peculiare dei peccati (che noi chiameremmo) sessuali, quale si
presenta precipuamente negli atti che si oppongono direttamente al fine
procreativo. Mi sembra poi di grande rilevanza chiarire il senso esatto e
l’articolazione di quella iniura proximi (oltraggio alla dignità,
costrizione o inganno) la cui idea, in prima approssimazione (come abbiamo
visto), sembra quasi trascurare l’aspetto di violentia assimilabile alla
nostra nozione di rapporto imposto ad una persona con la forza, e tradurre
piuttosto l’istanza di proteggere un preciso ordine sociale, fondato sulla
predominanza assoluta del maschio, padre e marito, e sulla sottomissione della
donna.
Infine – ed è questo, forse, il problema decisivo, o piuttosto sempre lo stesso
problema nella sua espressione più radicale –, quando la
classificazione delle varie specie di peccato venereo si traduce in un ordine
di gravità, vengono collocate al vertice della malizia proprio quelle azioni
che sono accusate di violare la natura, ma nelle quali si riconosce l’assenza
(effettiva o per lo meno possibile) di offesa nei confronti di altre persone
umane (53): e così comportamenti come l’immunditia
o mollities (la masturbazione, che per definizione non implica
rapporto ad alterum), o amplessi, anche se matrimoniali, che non
rispettino il debitus modus concumbendi, o atti, anche se consensuali,
che non serbino il debitus sexus (rapporti omosessuali, detti da Tommaso
‘sodomitici’ nella loro generalità) (54)
sono considerati non solo peccati pur non comportando «ingiuria», ma peccati
moralmente più gravi di tutte le altre forme di lussuria, compresi gli atti
eterosessuali «secondo natura» imposti con la forza. La parte restante del
presente studio si propone di affrontare questi problemi sotto la scorta dei
testi tommasiani.
3. L’iniuria
alterius personae nelle varie specie di lussuria
La preoccupazione
di mantenere una ratio identica e peculiare per tutti i peccati
di lussuria, distinta dalle altre, si manifesta già nel primo articolo, lì dove
Tommaso afferma che le «deformità» di altri vizi «concorrono» in certi atti,
dimodoché un peccato venereo come l’adulterio «è contenuto» sotto la lussuria
ma anche sotto l’ingiustizia: è, potremmo dire, l’una e l’altra cosa insieme,
in quanto presenta un duplice tipo di opposizione alla ragione (55). Si tratta della risposta a un’obiezione, secondo cui
l’adulterio non dovrebbe essere considerato come una specie di lussuria, poiché
differisce dalla semplice fornicazione (e la differenza, si sa, è costitutiva
di ogni specie) soltanto nel fatto «che qualcuno accede ad una donna
appartenente ad altri» (56).
Per il maestro domenicano la deformitas iniustitiae non è certo
accidentale bensì essenziale nel determinare come adulterio un atto di
lussuria, e tuttavia questo rimane tale pur essendo reso «più grave»: si tratta
di una lussuria che si lascia trascinare dalla concupiscenza a tal punto da
sfociare in un atto (anche) di ingiustizia (57).
E così, nell’articolo dedicato allo stuprum (inteso come «illicita
virginum defloratio sub cura parentum existentium»), si sostiene che «appare
più disordinata la concupiscenza che non si astiene dall’oggetto piacevole per
evitare un’ingiuria»: anche in questo (come nel caso dell’adulterio) il peccato
di ingiustizia rende più deforme il peccato di lussuria, giacché, in generale,
«nulla proibisce che un peccato sia reso più deforme dall’aggiunta di un altro»
(58).
Si dà dunque in
vari casi, e in modi diversi determinati dai diversi tipi di ingiuria, uno
stretto legame, addirittura un intreccio costitutivo, fra peccato sessuale e
ingiustizia. Ma riduzione no. La lussuria mantiene sempre una ratio propria,
che Tommaso a più riprese illustra. Formalmente (com’è spiegato nel primo e,
con grande chiarezza, anche nell’ultimo articolo, che avremo modo di esaminare)
si definisce per la sua opposizione alla finalità procreativa, presentandosi
come vizio contro natura se impedisce direttamente la finalità generativa e
come fornicazione semplice se contrasta solo con quella educativa senza inoltre
comportare, a parte l’offesa alla prole potenziale, aggravanti dovute
all’ingiuria nei confronti di altri. Il suo sostrato si configura invece come
un cedimento al desiderio carnale: già nella Questione 153 si afferma che le
concupiscenze e le dilettazioni veneree costituiscono la «materia» della
lussuria (59). Nel corso della 154, poi, si possono
trovare interessanti spunti di approfondimento in questa direzione, come
quando, a proposito dell’incesto, si parla di una forte presenza negli atti
venerei di una «certa turpitudine» contraria all’onore e di cui gli uomini
provano vergogna (60). Ciò, tuttavia,
riguarda non solo gli atti peccaminosi, ma – agostinianamente – investe tutta
la sessualità decaduta dopo il peccato di Adamo, compresi gli atti coniugali
onesti, e non è questo il luogo per approfondire tale aspetto (61).
Detto questo, mi
sembra tuttavia degno di nota un fatto: nel discorso tommasiano della Secunda
Secundae, a partire dalla classificazione delle varie forme di lussuria e
poi, via via, nella loro illustrazione, le «deformità» che si sommano a quella
del genere ‘luxuria’ al punto tale da articolarlo in specie distinte,
quelle in altre parole che sono in grado di costituirne una differenza specifica,
sono sempre e soltanto del tipo ‘iniuria alterius personae’. Ciò, per la
verità, sembrerebbe smentito dal respondeo dell’articolo 10, dove, quasi
a sorpresa, Tommaso concede (in sintonia con la tradizione agostiniana ed in
particolare con la Summa halensis) che anche il sacrilegio possa essere
considerato come una specie di lussuria, quando si tratti di una lussuria che
viola qualche cosa di pertinente al culto divino (62). Tuttavia, subito dopo, si precisa che soltanto quelle
enumerate all’inizio sulla falsariga del Decreto di Graziano sono
«species luxuriae secundum seipsa», mentre il sacrilegio può essere considerato
una specie di lussuria solo in quanto viene ordinato al fine di un altro vizio
(63), e, di volta in volta, può essere invece
di pertinenza della gola, dell’ira, ecc. (64)
Mentre, insomma, l’essere una forma di lussuria è accidentale per il
sacrilegio, l’essere insieme lussuria e ingiustizia è essenziale per peccati
quali l’adulterio e lo stuprum.
L’ingiuria verso
altri, nella sua varietà, concorre dunque sotto forme diverse a determinare la
lussuria, costituendone le varie specie che rappresentano varianti moralmente
più gravi della semplice fornicazione (mentre, come vedremo, sono altri i
fattori che producono l’articolazione interna del «vizio contro natura»).
Nell’articolo finale Tommaso delinea tra l’altro una graduatoria di crescente
gravità, a partire appunto da quel tipo di lussuria che non solo non viola i
«principi naturali», ma non reca neppure offesa ad altre persone (se si
eccettua la mancanza di cura verso i nascituri, che costituisce – abbiamo visto
– nocumentum nei confronti della loro vita):
Magis autem repugnat rationi
quod aliquis venereis utatur non solum contra id quod convenit proli
generandae, sed etiam cum iniuria alterius. Et ideo fornicatio simplex, quae
committitur sine iniuria alterius personae, est minima inter species luxuriae (65).
Più gravi della semplice
fornicazione sono lo stuprum e l’adulterio: di più quest’ultimo, in
quanto maggiore è l’offesa che si reca al marito, alla cui potestà la donna è
soggetta ad usum generationis, rispetto all’offesa che si reca al padre,
incaricato soltanto della sua custodia. Ambedue i peccati sono aggravati
quando, dice Tommaso, la violentia si aggiunge all’iniuria: è il
caso del ratto di una vergine e del ratto di una donna maritata (66). Più grave ancora l’incesto, collocato (in un ordine
decrescente) al secondo posto dopo i peccati contro natura, in quanto si oppone
alla «naturale reverenza dovuta alle persone congiunte» (67).
Per quanto preziosa,
questa classifica, nella sua formulazione sintetica, non ci consente di rispondere
se non in parte ad uno dei quesiti sopra formulati. L’uso della forza, questo è
chiaro, costituisce un’aggravante rispetto ad una semplice offesa, e pare
chiaro anche che, se si eccettua il caso dell’incesto, a subire l’oltraggio non
sia la donna, bensì il marito od il padre (sia pure in riferimento alla donna e
alla sua funzione generativa): ma chi è il destinatario della violenza che
rende più pesante l’offesa? La risposta, in realtà, Tommaso l’ha già data nel
corso della Questione, ed in particolare negli articoli dedicati a stuprum e
raptus. In quest’ultimo si precisa, tra l’altro, che quando una ragazza
(puella) viene portata via con la forza dalla casa paterna, si dà
comunque violenza nei confronti del padre, ma non sempre nei confronti della
vergine, in quanto a volte quest’ultima è consenziente (68). La violenza inferta alla donna “può” concorrere con quella
inferta al padre; ma da sola (pur essendo violenza fisica e carnale, a
differenza di quella subita dal custode) non ha una sua ratio, e perciò
neppure un nome nel ricco ventaglio dei peccati sessuali (69).
Il maestro domenicano,
ancora una volta lucida espressione della cultura del suo tempo, attribuisce
invece una maggiore importanza all’«ingiustizia» nei confronti della donna
proprio lì dove si tratta di un rapporto non imposto con la forza: lo stuprum,
vale a dire la deflorazione, illecita ma consensuale, di una donna ancora sotto
tutela del padre, comporta sempre anche un’«ingiuria» nei confronti di lei.
Tommaso dedica a quest’offesa un certo spazio, decisamente superiore anzi a
quello riservato all’oltraggio nei confronti del padre. La ragazza, quando
viene violata in assenza di un patto coniugale precedente, è impedita nel
conseguimento di un legittimo matrimonio e indirizzata sulla via della
prostituzione, «dal che era trattenuta per non perdere il segno distintivo
della verginità» (70); vittima non di una
costrizione ma comunque di una seduzione, ha diritto ad una soddisfazione da
parte dell’uomo che l’ha offesa (71).
Si può notare che invece, nel primo articolo, a proposito dello stuprum
come a proposito dell’adulterio e del ratto, l’offesa nominata è soltanto
quella arrecata all’uomo sotto la cui potestà la femmina si trova. Ma abbiamo
già visto (a proposito del ruolo del nocumentum vitae nascituri nella
definizione della fornicatio simplex) che il respondeo iniziale
della Questione 154 propone una classificazione dei peccati venerei costruita
sulla base dei criteri fondamentali e con l’utilizzo degli elementi principali,
mentre poi nell’illustrazione analitica il discorso si fa più complesso e
articolato.
4. L’iniuria ipsi
Deo nei peccata contra naturam
Nei peccati che
costituiscono una variante della semplice fornicazione, l’elemento aggravante e
al contempo specificante è dunque costituito dall’offesa (e a volte anche dalla
violenza o dall’inganno) nei confronti di altre persone. La stessa fornicatio
simplex, a sua volta, contrasta con l’amore del prossimo, in quanto
«ripugna al bene della prole» futura. Ciò non vuol dire, si è visto, che la luxuria
si riduca a una forma di iniustitia, senza mantenere una propria
peculiarità. La sua ratio “allo stato puro”, tuttavia, si può cogliere
soltanto altrove, paradossalmente proprio lì dove un’opposizione non solo alla
«retta ragione» ma allo stesso «ordine naturale» le conferisce una specialis
ratio deformitatis (72)
e l’unica intenzione, per Tommaso, è quella della «dilettazione venerea» a tal
punto da escludere la possibilità stessa della generazione (73): nell’ambito cioè di quel vitium contra naturam che
viene trattato come se, per principio, i comportamenti anche assai diversi tra
di loro stigmatizzati con questa etichetta (74)
non potessero avere altri obiettivi oltre al piacere e non dipendessero mai nel
loro (dis)valore morale da un eventuale danno inferto ad altri.
Tommaso, proprio dal suo
punto di vista, non può certo ignorare che gli atti definiti come peccati
contro natura possono, in certi casi, avvenire con l’ingiuria o con la
violenza: l’amplesso eterosessuale che, in varie maniere, non segue il debitus
modus concumbendi può avvenire in una forma “ingiuriosa” di lussuria come
l’adulterio, o violenta come il ratto, ed un rapporto con una persona dello
stesso sesso può essere imposto con la seduzione o con la forza. Ma non è
questo, evidentemente, che interessa il maestro domenicano: il peccato contro
natura è tale, nella sua enorme gravità (gravissimum et turpissimum), e
tale gravità non dipende dall’eventuale offesa arrecata ad altre persone umane:
prova ne sia che lo stesso autoerotismo è considerato per sua essenza molto più
grave di tutti i peccati di fornicazione anche violenti (e su di esso, detto
per inciso, peserà nei secoli l’antica condanna e si tradurrà, nella prassi
educativa e medica (75), in violenze
fisiche e morali).
L’unico cenno in questa
direzione è rappresentato, significativamente, dal problema della “sporcizia” (pollutio)
prodotta su altri (del tutto a prescindere dalla consensualità del rapporto):
il partner viene inquinato in una maniera moralmente più grave nell’incesto o
nel peccato contro natura? Più in quest’ultimo, secondo Tommaso, perché chi lo
commette (non solo, s’intende, inquina l’altro come individuo, ma soprattutto)
opera contro la natura della specie umana, che gli è «congiunta» più
immediatamente di quanto gli sia congiunto qualsiasi membro della famiglia:
l’offesa maggiore, insomma, non è alla persona, ma alla natura universale (76). Che tuttavia si possa davvero polluere
la natura umana il maestro domenicano formalmente non lo dice: sarebbe quasi un
attribuire ai peccatori contro natura quella che fu una (triste) prerogativa di
Adamo (77).
Quest’assenza della iustitia
(sul piano filosofico) e (sul piano teologico) della caritas, sotto
forma di dilectio proximi, tra i valori direttamente calpestati dal vitium
contra naturam, può essere facilmente verificata tanto nella tipologia
quanto nella graduatoria interna di gravità che Tommaso propone. Il criterio
che presiede all’articolazione di quello è rappresentato infatti dalla
molteplicità dei modi in cui può venire violato l’«ordine naturale dell’atto
venereo che conviene alla specie umana» (e si noti che risultano contro natura
anche atti che di per sé non impediscono la generazione, sicché l’ordo
naturalis che si difende non è dato soltanto dalla finalità procreativa, ma
da certe regole di comportamento nella modalità del coito) (78). A determinare poi l’ordine di gravità – che ricalca quello
tradizionale dei Penitenziali (79)
– sono i tipi di abuso commessi: gli atti che non coinvolgono altre persone
costituiscono di fatto il più grave e il meno grave (quello cioè che non
rispetta la debita species e quello che si limita a omettere il concubitus
ad alterum), mentre i due intermedi sono (in ordine decrescente) il
rapporto che non mantiene il debitus sexus e quello che, in varia
misura, viola «la dovuta modalità dell’amplesso» (80). Non mi pare fondato sui testi il tentativo, che è stato
fatto, di riconoscere nel disprezzo del prossimo il criterio cui Tommaso si
atterrebbe nel formulare l’ordine di gravità fra i peccati contro natura (81).
Tali considerazioni
possono sembrare il frutto di una lettura arbitraria, suggerita da una cultura,
quale la nostra, che per lo più nei rapporti tra uomo e donna ritiene
fondamentali la lealtà e la non-violenza più che l’intenzione procreativa, e
tende a riconoscere valore (persino ormai sul piano giuridico) anche
all’omosessualità, segnata per secoli da uno stigma di tipo morale, e poi anche
di tipo medico. Ancora una volta, tuttavia, è Tommaso stesso che presenta la
mancanza di danno ad altri come una difficoltà da affrontare per difendere la
scala di (dis)valori morali da lui proposta. E, come a proposito della fornicatio
simplex si deve rispondere a chi non la ritiene perciò peccato mortale (82), qui si tratta di risolvere l’obiezione
secondo cui, a causa di tale assenza, quello contro natura non costituisce il
più grande tra i peccati di lussuria:
Videtur quod vitium contra
naturam non sit maximum peccatum inter species luxuriae. Tanto enim aliquod
peccatum est gravius, quanto magis contrariatur caritati. Sed magis videntur
contrariari caritati proximi adulterium et stuprum et raptus, quae vergunt in iniuriam
proximi, quam
peccata contra naturam, per quae nullus alteri iniuriatur. Ergo peccatum contra
naturam non est maximum inter species luxuriae (83).
L’obiezione non nega
dunque che quello contro natura sia peccato, e tuttavia propone un ordine di
gravità nel quale il fattore determinante sia dato dal livello di
allontanamento dalla carità, e perciò dalla presenza o meno di offese nei
confronti di altri. Diversamente dal caso della fornicazione semplice, a questo
proposito non troviamo alcun riscontro preciso nel sillabo del 1277: non mi
sembrerebbe infatti corretto avvicinare la posizione confutata da Tommaso alla
tesi, condannata da Tempier, secondo cui il peccato contro natura si oppone
alla natura della specie ma non a quella dell’individuo (problema di tipo
diverso, che Tommaso tocca in un’altra sede e con altri intendimenti, giungendo
a sostenere che il piacere omosessuale, contrario in assoluto alla natura della
specie, in certi individui diventa naturale «per consuetudine») (84). Questo argomento potrebbe semmai riecheggiare una certa
morale teologica, ormai desueta nel XIII secolo, rigida con l’adulterio, ma
relativamente più tollerante nei confronti della fornicazione anche se praticata
con persone dello stesso sesso (85).
La soluzione proposta
dal maestro domenicano merita un’attenzione particolare. Ci si potrebbe
aspettare un richiamo a quanto affermato nella prima parte del respondeo:
la corruzione peggiore è quella che riguarda il principio, e «i principi della
ragione sono quelli secondo natura» (86),
sicché offendere la specie è più grave che offendere un individuo. Una risposta
di questo tipo anticiperebbe in fondo quella (già esaminata) relativa al
confronto con la gravità dell’incesto, e sarebbe in sintonia con il passo della
Contra Gentiles in cui, a proposito della fornicazione semplice, si
considera insufficiente una prospettiva che ne fondi la colpevolezza
sull’offesa arrecata a Dio che la vieta o al prossimo che viene scandalizzato (87). Ma, come si è visto a proposito
dell’obiezione del secondo articolo riguardante la fornicatio simplex,
Tommaso nella Secunda Secundae non intende eludere il valore
teologicamente centrale della caritas (88)
e perciò l’imprescindibilità di un soggetto personale quale termine oggettivo
degli atti morali. D’altra parte non si affaccia, qui, l’idea di richiamarsi ad
un danno nei confronti di un bene umano altrui come quello della prole il cui
concepimento è reso impossibile nonostante l’emissione del seme (anche se, come
abbiamo visto, nelle Questioni De malo incidentalmente vengono giudicati
come rivolti in proximum, inteso come prole, tutti i peccati di
lussuria, compresi quelli che ne impediscono non l’educazione ma addirittura la
generazione). L’unica via d’uscita viene allora individuata nell’identificare i
peccati in questione con un’offesa diretta allo stesso Dio, in quanto ordinatore
della natura. Facendolo consistere in una gravissima violazione dell’amore di
Dio, Tommaso d’altra parte sembra implicitamente ammettere quanto sostenuto
dall’obiezione, e cioè che il vitium turpissimum non contrasta di per sé
con l’amore del prossimo:
Ad primum ergo dicendum
quod, sicut ordo rationis rectae est ab homine, ita ordo naturae est ab ipso
Deo. Et ideo in peccatis contra naturam, in quibus ipse ordo naturae violatur,
fit iniuria ipsi Deo, ordinatori naturae. Unde Augustinus dicit, III Confess.:
Flagitia quae sunt contra naturam, ubique ac semper detestanda atque punienda
sunt, qualia Sodomitarum fuerunt. [...] Violatur quippe ipsa
societas quae cum Deo nobis esse debet, cum eadem natura cuius ille auctor est,
libidinis perversitate polluitur (89).
La lunga citazione di
Sant’Agostino mi sembra molto significativa, come anche la soluzione
dell’argomento immediatamente seguente, dove i vizi contra naturam, nel
loro essere contra Deum, sono accostati addirittura al sacrilegio, del
quale anzi sono dichiarati più gravi, per il fatto che l’ordine della natura
umana ha un primato rispetto a qualsiasi altro ordine di realtà connesse con il
culto divino (90). Tommaso s’inserisce così a pieno titolo
in quella tradizione patristica e medievale, brillantemente studiata da Jacques
Chiffoleau, che a proposito dei peccati sodomitici continuamente riconduceva la
violazione della natura (naturata) ad un’offesa rivolta alla Summa
Natura (naturans) (91).
Per far ciò, tuttavia,
il maestro domenicano introduce una divaricazione tra «ordine della ragione
retta» e «ordine della natura», il primo derivante «dall’uomo» e il secondo
«dallo stesso Dio», che pone problemi notevoli se posta a confronto con i
fondamenti stessi della sua etica e della sua metafisica. Nella parte finale
del presente studio intendo perciò risalire ad alcuni aspetti generali del
discorso tommasiano sui rapporti fra Dio, natura e ragione, sulla lex
naturae e sull’offesa di Dio e del prossimo nella definizione dei peccati.
Lo scopo è quello di chiarire, all’interno di una cornice più ampia, i problemi
e le tensioni che abbiamo visto emergere esaminando la teoria della luxuria.
5. Ordo rationis
e ordo naturae: la legge naturale
In questa sede non è
possibile, ovviamente, affrontare in maniera analitica una tematica di tale
portata. Mi limiterò a proporre alcuni spunti problematici, così come a mio
giudizio emergono da diversi passi importanti della Summa theologiae,
che anche in questo caso rivela tutta la sua ricchezza speculativa e la sua
complessità, non scevra di istanze tra di loro contrastanti.
Il primo problema è la
netta distinzione, prospettata al termine delle due Questioni sulla lussuria,
tra l’ordine della ragione e l’ordine della natura, nel loro essere e nella
loro origine. In effetti il punto di vista costante dell’etica tommasiana
sembra essere, piuttosto, quello di una sostanziale coincidenza di questi due
ordini: natura e ragione derivano entrambe da Dio, chi viola la prima viola
anche la seconda, ma anche viceversa. Quello razionale è un ordine che la
ragione non “costruisce”, bensì “scopre”, insito per l’opera del creatore
nell’essenza di tutte le cose e nell’uomo stesso (92). Basti pensare al terzo libro della Contra Gentiles,
lì dove, per provare che la rettitudine degli atti umani dipende dalla loro
natura e non soltanto dalla legge positiva, Tommaso afferma che «gli uomini
ricevono dalla divina provvidenza il criterio naturale della ragione, quale
criterio delle proprie azioni», e «a ciascuno si addicono per natura quegli
atti con i quali tende al suo fine naturale», sicché ad esempio sono
«naturalmente cattivi» tutti gli atti che impediscono il giudizio della
ragione, così come quelli che si oppongono alla conoscenza e all’amore di Dio (93). E basti pensare come, all’inizio della
trattazione della Prima Secundae concernente vizi e virtù, il maestro
domenicano confuti l’opinione secondo cui, nella loro generalità, i vizi «non
sono contro la natura» bensì contro la legge di Dio, concepita come superiore
alla natura, e proponga viceversa una perfetta coincidenza, per l’uomo, tra
conformità alla natura e conformità alla ragione, ma anche tra conformità alla ragione
e conformità a Dio inteso come «legge eterna»:
Homo autem in specie
constituitur per animam rationalem. Et ideo id quod est contra
ordinem rationis, proprie est contra naturam hominis inquantum est homo; quod
autem est secundum rationem, est secundum naturam hominis inquantum est homo.
[...] Vitium autem intantum est contra naturam hominis, inquantum est contra
ordinem rationis. [...] Lex autem aeterna comparatur ad ordinem rationis
humanae sicut ars ad artificiatum. Unde eiusdem rationis est quod vitium et
peccatum sit contra ordinem rationis humanae, et quod sit contra legem aeternam
(94).
Un tentativo di risposta
a questo tipo di difficoltà si può di fatto individuare nei passi in cui
Tommaso prospetta e giustifica la distinzione tra ordo naturae e ordo
rationis non come la divaricazione di due ambiti diversi, bensì come
un’articolazione secondaria all’interno dell’ordine unitario, naturale e
razionale insieme, che partecipa dell’eterna ratio divina: mentre il
livello «naturale» comprende i principi posti direttamente da Dio con la
creazione, quello «razionale» verte su quanto, in virtù del lavoro discorsivo
umano, da tali principi (già appresi) viene fatto derivare. Così, nel respondeo
concernente la gravità del vitium contra naturam, dove si afferma
che «in qualsiasi genere la peggiore è la corruzione del principio», si
sostiene che «i principi della ragione sono dati da quanto è secondo natura: la
ragione infatti, presupposto ciò che è stato determinato dalla natura, dispone
il resto secondo quanto conviene». Si tratta di un “disporre” non arbitrario ma
consequenziale, che, nel campo pratico come in quello teoretico, rappresenta –
potremmo dire – la continuità ma nello stesso tempo la subordinazione del piano
dimostrativo rispetto al piano noetico: per questo in venereis il
peccato contro «ciò che è stabilito per natura» è il più grande, così come in
speculativis l’errore più grave è quello concernente ciò la cui cognizione
«est homini naturaliter indita» (95).
Tutti gli agenda,
insomma, derivano da Dio, ma immediatamente solo quelli appartenenti all’ordine
«della natura», con la mediazione invece dell’uomo quelli appartenenti
all’ordine «della ragione». Un quadro esplicativo di questo tipo, del resto, si
trova illustrato già nella Questione della Prima Secundae sulla «legge
naturale», dove Tommaso afferma che, se da un punto di vista generale tutti gli
atti virtuosi rientrano nella legge di natura, in quanto appartiene alla
«naturale inclinazione» di ogni uomo l’agire secondo ragione, d’altra parte
esulano da tale ambito le molte specie di atti virtuosi che non sono oggetto di
una primitiva inclinazione per natura, ma vengono «scoperti» per rationis
inquisitionem (96).
Ci sono, per la verità,
luoghi in cui il maestro domenicano sostiene che anche quanto deriva dai
principi comuni della legge di natura a modo di conclusione (e non a modo di
«determinazione» applicativa ai casi particolari) riceve vigore dalla legge
naturale (97), o addirittura – come si afferma nel
commentario all’Etica Nicomachea – è esso stesso iustum naturale (98): altrimenti un precetto come ‘non
esse occidendum’ esulerebbe dalla legge di natura, a differenza del
principio generale (‘nulli esse malum faciendum’) da cui deriva. In ogni
caso Tommaso si preoccupa di delineare i principi morali che la ragione
«apprende naturalmente» (prima di qualsiasi deduzione), vale a dire
l’articolazione di base dei precetti della legge naturale. Lo fa in relazione a
ciascuno dei tre elementi che costituiscono l’ordine discendente (dalla più
generale alla più specifica) delle inclinationes naturales rinvenibili
nell’essere umano: in quanto l’uomo comunica con tutte le sostanze, «pertinent
ad legem naturalem ea per quae vita hominis conservatur, et contrarium
impeditur»; in quanto comunica con tutti gli altri animali, «dicuntur ea esse
de lege naturali quae natura omnia naturalia docuit (99), ut est coniunctio maris et feminae, et educatio liberorum,
et similia»; in quanto, infine, possiede la propria specifica natura razionale,
l’uomo ha una naturale inclinazione alla conoscenza di Dio e alla vita sociale,
sicché appartiene alla legge naturale «quod homo ignorantiam vitet, quod alios
non offendat cum quibus debet conversari, et cetera huiusmodi quae ad hoc
spectant» (100).
Questa classificazione,
come è stato osservato da Michael Crowe, presenta evidenti affinità con
l’ordine gerarchico dei significati di ‘legge naturale’ proposto da vari
predecessori di Tommaso, decretisti e teologi, già nel corso del XII secolo (101). L’idea che la legge di natura (concetto
ereditato da Agostino, e per suo tramite, da Cicerone e dagli stoici) sia
quella comune a uomo e animali costituisce la celebre formula di Ulpiano, che
nella cultura medievale si coniuga con un notevole interesse verso il
comportamento sessuale animale, considerato esempio di naturalezza (anche se –
come è stato rilevato – bestiari ed enciclopedie, paradossalmente, denunciano
nello stesso tempo le aberrazioni di donnole, iene e lepri) (102). Tale formula di fatto non viene espunta da Tommaso (secondo
una tendenza ad enfatizzare la peculiarità umana che trova completa
espressione, invece, in Alberto Magno) (103)
ma neppure assolutizzata, bensì collocata come elemento di un quadro più ampio,
che trova il suo apice nel livello razionale (104).
La natura comune all’uomo e agli altri
animali (lo ius naturale dei giuristi) si integra così con la
natura propria dell’uomo (lo ius gentium) per definire l’ambito preciso
della legge di natura (ossia di quel «giusto naturale» che, aristotelicamente,
insieme con il «giusto legale» costituisce il «giusto politico») (105), e dunque anche l’ambito dei peccati che vi si oppongono. La
difficoltà sopra prospettata pare dunque comporsi: nell’etica c’è un piano
naturale in senso stretto, quello dei precetti inseriti direttamente da Dio
nella mente umana, e dovrebbe perciò essere ritenuta propriamente «contro
natura» ogni principii corruptio, tutti gli atti cioè che a tali
precetti si oppongono, nel campo riguardante la riproduzione come in tutti gli
altri.
Qui però si presenta un
ulteriore problema. Basta avere un minimo di familiarità con i testi tommasiani
per accorgersi che questo schema, in realtà, non opera in maniera univoca nella
classificazione dei peccati. Si pensi ad esempio a come nella Secunda
Secundae vengono moralmente qualificati suicidio e omicidio (contra
inclinationem naturalem il primo, e addirittura soltanto secundum se
malum il secondo) (106); ma – per
limitarsi ai vizi che abbiamo esaminato in questo studio – si pensi a tutti i
peccati venerei che Tommaso, nella Secunda Secundae, non inserisce
nell’ambito del vitium contra naturam: in conformità al quadro poco
sopra esposto, dovrebbero infatti opporsi direttamente alla legge naturale
anche la fornicatio simplex, che contrasta con l’educazione dei figli (e
dunque con la seconda inclinazione), e ancor di più tutte le sue aggravanti
come l’adulterio, che, oltre a ciò, presentano offesa nei confronti di altri
uomini (e contrastano così pure con la terza inclinazione, quella peculiare
dell’essere umano).
Si tengano presenti
anche talune sfumature linguistiche, le espressioni ‘contra bonum hominis’,
‘contra naturam hominis’ e simili, mai confuse con ‘contra naturam’
(e con il suo implicito, più ristretto referente ereditato da tutta una
tradizione teologica e giuridica) anche in contesti nei quali si insiste
sull’opposizione di ogni peccato alla natura e alla ragione, in quanto
violazione del fine stabilito da Dio (107).
A questo proposito Leo Elders osserva che «what is against the order of
reason is against human nature. Thomas
reserves the expression ‘against nature’ mainly to signify acts against the
animal nature of man» (108): e si noti che
neppure tutte le violazioni della natura animale sono classificate «contro
natura», essendone escluso quel vagus concubitus di cui d’altra parte si
riconosce il contrasto diretto con la seconda inclinazione fondamentale
dell’uomo.
Non è però necessario
“navigare” nella Secunda Secundae per rendersi conto che i «peccati
contro natura» possiedono un ambito molto più delimitato della «legge di
natura». Già trattando di quest’ultima, anche se incidentalmente, Tommaso è
molto esplicito nel riservare l’appellativo di ‘contra naturam’ agli
atti contrari alla legge naturale nel senso ulpianeo, anzi ad una loro parte.
L’occasione è fornita da un’obiezione secondo cui non è possibile collocare
tutte le virtù nell’ambito della legge naturale, in quanto ne conseguirebbe che
tutti i peccati sono contro natura, mentre questa espressione viene usata per
designare alcuni peccati particolari (109).
Nella soluzione il maestro domenicano precisa che, se ci si riferisce alla
natura propria dell’uomo, «tutti i peccati, in quanto sono contro ragione, sono
anche contro natura»; ma ammette che, se ci si riferisce invece alla natura
comune all’uomo e agli altri animali, «alcuni speciali peccati sono detti
essere contro natura»: natura, evidentemente, intesa non come principio di
operazione intraspecifico, ma come l’ordine creaturale per cui Dio è detto
ordinatore della natura, ed affine in qualche modo a quell’entità unitaria se
non addirittura ipostatizzata e mitologicamente espressa, la cui idea andò
affermandosi nel corso del XII secolo. Un’enfasi particolare è riservata qui (a
differenza che nella Questione 154) al concubitus masculorum, che funge
da (unico) esempio in quanto «vizio contro natura» per eccellenza, opposto a
quell’unione di maschio e femmina che viene indicata come «naturale per tutti
gli animali» (110).
Se si confronta questa
risposta con il respondeo generale dell’articolo (111), si può notare la significativa differenza che si cela sotto
un apparente parallelismo. Lì, come abbiamo visto, al piano generale dell’agire
«secondo ragione», che ingloba tutte le virtù nell’ambito della legge naturale,
si contrappone la suddivisione specifica delle virtù in immediate (ad quae
natura primo inclinat) e mediate (per rationis inquisitionem),
suddivisione che però interessa tutti i tipi di inclinazione cui le virtù si
riferiscono. Qui, invece, al piano generale per cui tutti i peccati, in quanto
contrari alla ragione, sono anche contrari alla natura si contrappone un
ristretto ambito di atti specifici (se non addirittura un elemento particolare
di tale ambito), riferito ad un tipo soltanto di inclinazione. In altre parole:
se, tra le virtù, appartengono in senso proprio alla legge naturale tutte
quelle che fungono da principi essendo oggetto di una tendenza primitiva, non
si può invece affermare che, tra i vizi, siano propriamente contro natura tutti
quelli che contrastano con una tendenza primitiva. Non sono detti contra
naturam tout court gli atti, come l’offesa ad altri uomini, che si
oppongono all’«inclinazione al bene secondo la natura della ragione» (che pure
è la più alta nell’uomo), e neanche gli atti contrari all’inclinazione naturale
nella quale l’uomo «comunica con tutte le sostanze», cioè l’appetito di
autoconservazione (che è il più universale); lo sono invece quelli che si
oppongono all’inclinazione conforme a ciò in cui l’uomo «comunica con gli altri
animali» a tal punto da impedire la generazione della prole.
È chiaro, a mio giudizio,
che proprio l’intento di colpire in una maniera del tutto singolare quella
determinata categoria di peccati può contribuire a risolvere il problema
sollevato da Crowe, vale a dire perché Tommaso, nonostante le premesse
metafisiche operanti nel suo pensiero, si rifiuti di seguire il proprio maestro
nell’abbandono della formula ulpianea (112).
6. Peccare in Deum, in proximum, in seipsum
Questa forte asimmetria
pare anzitutto confermare in pieno la qualificazione di biologismo attribuita
all’etica sessuale di Tommaso, interrogandosi sulla quale il presente studio ha
preso le mosse (anche se – si è visto – accanto alla preoccupazione di
salvaguardare la specie umana si può cogliere quella di consacrare, definendole
naturali, certe regole di comportamento). A questo proposito sarebbe
interessante analizzare, se questo non costituisse un excursus troppo lungo,
quei testi in cui Tommaso si colloca sulla difensiva all’interno della propria
stessa concezione della sessualità umana: quando ad esempio, nel solco della
tradizione teologica, difende la legittimità di rapporti matrimoniali anche
qualora si sappia positivamente che la donna è sterile, per vecchiaia o per
malattia (questi, per il maestro domenicano, sono meri accidenti, mentre la
legge è data secundum communem considerationem) (113); o quando assolve l’astinenza volontaria di chi si vota alla
verginità dall’accusa di «essere contraria al precetto della legge di natura»
(con motivazioni diverse nella Summa theologiae rispetto alle Quaestiones
De malo, sempre comunque nello sforzo – comune del resto a tutta la
tradizione ortodossa, in contrapposizione agli encratismi radicali – di
contemperare ascetismo e generazionismo) (114).
Ma lo squilibrio
rilevato nel paragrafo precedente sembra prospettare anche un peso morale
straordinario per un certo numero di peccati, quelli venerei «contro natura»,
designabili in quanto atti di lussuria come «carnali», e che perciò – in
sintonia con la tradizione teologica e con la stessa dottrina tommasiana –
sembrerebbero dover rivestire un’importanza non primaria (115). Qui però si apre un ulteriore problema interpretativo di
ampia portata, che riguarda appunto l’assoluta singolarità di tali peccati, la
cui riduzione ad una trasgressione meramente biologica (per quanto
fondamentale) può a mio giudizio essere messa in dubbio confrontando vari
elementi del discorso tommasiano.
Si è visto quanto poco
omogeneo si presenti il vitium contra naturam nei confronti di tutte
le altre forme di opposizione ai precetti «naturali». Ma si è visto anche lo
scarto che lo contraddistingue, in quanto atto rivolto direttamente contra
Deum, se paragonato a tutti gli altri peccati di lussuria. Tale scarto è
confermato da quanto Tommaso afferma, nella Prima Secundae, trattando
del livello di colpa dei peccati carnali rispetto a quelli spirituali:
Peccatum carnale, inquantum
huiusmodi, est in corpus proprium; quod est minus diligendum, secundum ordinem
caritatis, quam Deus et proximus, in quos peccatur per peccata spiritualia. Et
ideo peccata spiritualia, inquantum huiusmodi, sunt maioris culpae (116).
Certamente nella Secunda
Secundae il maestro domenicano sostiene e difende l’inserimento del «vizio
contro natura» nell’ambito della lussuria, che si configura come offesa al
proprio corpo (oltre che come dissoluzione del proprio animo) (117). È chiaro però che, qualificandolo come peccato che si oppone
direttamente a Dio, lo accosta di fatto ai peccati spirituali e lo differenzia
nettamente da tutti gli altri atti di dilettazione disordinata che
semplicemente inquinano il corpo di chi li commette: quasi fosse il volto
carnale di una radicale violazione del sacro (anche se, per la verità, per la
loro componente di offesa al prossimo persino la semplice fornicazione, o
quanto meno le sue aggravanti, dovrebbero rientrare tra i peccati spirituali).
Vari elementi, a mio
giudizio, confermano questo legame con il sacro, che del resto – come ha
mostrato Chiffoleau – caratterizza non solo tutta la letteratura ecclesiastica
medievale, ma la stessa legislazione imperiale della tarda antichità, la quale
associa alla blasfemia il nefas dei peccati contra naturam (118). «Iniuria ipsi Deo» (119), addirittura «graviora quam sacrilegii corruptela» (120), per Tommaso i peccati (o il vizio)
contro natura costituiscono, paolinamente, «conveniens poena peccati
idolatriae», in quanto chi ha pervertito l’ordine dell’onore divino, forgiando
un altro dio nel mondo, viene abbandonato ad una condizione nella quale subisce
«la vergognosa perversità della propria natura»: quasi la manifestazione nel
corpo del radicale sovvertimento in cui l’idolatria consiste (121). Sullo sfondo del discorso tommasiano facilmente
s’intravvede tutta la cultura teologica dei secoli XII e XIII (da Pier Damiani
ad Alano di Lilla, ad Alessandro Neckam) che nel vitium nefandum e ignominiosum
denuncia il crimen majestatis, avvicinandolo al delitto di eresia, e
induce Innocenzo IV a teorizzare l’universale giurisdizione del papa (regni non
cristiani compresi) per punire idolatri e sodomiti (122).
Pare dunque che, per
approfondire il significato morale del vizio contro natura, debbano costituire
un punto di riferimento imprescindibile quei passi in cui Tommaso, nella
cornice della tradizionale distinzione teologica tra «peccare in se, in Deum et
in proximum» (123), determina le caratteristiche dei
peccati rivolti direttamente contro il primo principio. In polemica con
l’opinione degli stoici secondo cui «tutti i peccati sono uguali» (124), il maestro domenicano stabilisce un
ordine di gravità in relazione alla dignità della persona nei cui confronti si
pecca, la quale costituisce in qualche modo l’oggetto del peccato (125): sicché non possono non essere i più
gravi (a loro volta con una scala interna di gravità, riferita al livello di
vicinanza a quanto è principale) quei peccati che vengono commessi
«immediatamente contro Dio» (126).
Come esempio vengono citati «infidelitas, blasphemia et huiusmodi»: sebbene non
nominato, dovrebbe potersi comprendere tra questi ultimi anche il vizio contro
natura, in quanto ingiuria diretta al supremo ordinatore.
Anche nell’articolo in
cui vengono esaminate le caratteristiche di ciascuno dei tre ordini di peccato,
non troviamo alcun riferimento esplicito a colui che pecca contro natura,
mentre, come esempio di chi si pone direttamente contro Dio, vengono ricordati
l’eretico, il sacrilego e il blasfemo (127).
Ma qualora (sotto la scorta di II.II. q.154 a.12 ad1) ritenessimo tale
riferimento sottinteso, finiremmo per attribuire al vizio venereo «più grave e
più turpe» alcuni tratti sorprendenti: le violazioni dell’ordine divino sono
infatti qui presentate come un qualche cosa di radicalmente trascendente
rispetto all’ordine della razionalità umana.
La gerarchia dei tre
ordini – spiega Tommaso – è tale per cui ognuno «contiene» ma nello stesso
tempo «eccede» quello inferiore. Così l’ordine (intermedio) secundum regulam
rationis per il quale siamo ordinati al prossimo (a cui si oppongono
peccati come il furto e l’omicidio) comprende e supera quello inferiore per il
quale la ragione ci dirige al rispetto di noi stessi (proibendo la gola, la
lussuria e la prodigalità). A sua volta il primo ordine (quello «dello stesso
Dio») per un verso contiene anche tutto quanto è inserito nell’ordine della
ragione, ma propriamente riguarda un ambito di atti rivolti direttamente contro
Dio «che eccedono la ragione umana, come quanto riguarda la fede ed è dovuto al
solo Dio, per cui chi pecca in ciò, come l’eretico, il sacrilego e il blasfemo,
viene detto peccare nei riguardi di Dio» (128).
«“Sicut” ea quae sunt fidei et debentur soli Deo»: dunque c’è spazio per altre
possibili offese dirette di Dio, e se anche il vitium contra naturam –
come sembra – può essere enumerato tra queste, finisce per riguardare cose
«quae excedunt rationem humanam».
Paradossalmente, allora,
ciò che per definizione contrasta con l’ordine naturale della riproduzione,
sembra violare in realtà un ambito di regole soprannaturali, che si colloca
allo stesso livello dei dogmi sovrarazionali da accettare per fede e degli atti
di culto comandati per divina rivelazione. Una conclusione di questo tipo,
tuttavia, se evidenzia le forti tensioni che percorrono l’etica tommasiana,
costituirebbe comunque a mio giudizio una forzatura: nella Questione 154 della Secunda
Secundae, pur affermando che «anche i vizi contro natura sono contro Dio»,
nel paragonarli al sacrilegio Tommaso precisa che sono più gravi in quanto
«ordo naturae humanae inditus est prior et stabilior quam quilibet alius ordo
superadditus» (129). Nonostante tutto, il peccato venereo
contro natura è fondamentalmente violazione di un ordine naturale e biologico
che si ritiene guidare persino l’istinto degli animali irrazionali, e non è
assimilabile del tutto a peccati come l’eresia, che contrasta con l’ordine
gratuito della rivelazione e la cui opposizione alla ragione naturale si
riduce, come spiega Tommaso, al fatto che appartiene alla «natura umana che la
mente dell’uomo non si opponga all’istinto interiore e alla predicazione
esteriore della verità» (130).
Rimane il fatto,
ciononostante, che il peccato venereo contro natura è presentato come l’unico
contro natura in assoluto, e in quanto tale si situa in un’opposizione diretta
e totale al supremo ordinatore, al pari dei peccati che violano l’ordine
soprannaturale promanante da Dio (e a differenza degli altri peccati contrari
alle inclinazioni della legge naturale): bisogna tener presente che la
teorizzazione dei legami morali tra sodomia ed eresia è anche avallo ideologico
di una prassi giuridica repressiva, che individua e accomuna le devianze più radicali
da estirpare come crimini nefandi (131).
E rimane, soprattutto,
il fatto che, in riferimento alla gerarchia dei tre ordini, ancora meno
pacificamente il peccato contro natura appare associabile ai peccati in se
ipsum, come invece a rigore dovrebbe essere, tenendo conto che si tratta di
un genere di lussuria.
La sodomia e gli altri
peccati a questo accomunati non trovano in definitiva alcuna precisa
collocazione in una casella predeterminata dell’universo morale. “Contro natura”,
sono anche, a vario titolo e in maniera non uniforme, “contro persone”.
Fondamentalmente esclusi, però, nella loro definizione, dall’ambito dei peccati
contro altri uomini (a differenza, come si è visto, di ogni altra specie di
lussuria, fornicazione semplice di fatto compresa per il suo impatto negativo
sui figli nascituri), sono enumerati come se la presenza o l’assenza di
violenza o di semplice danno non potessero entrare neppure nei criteri della
loro classificazione interna. Nel violare il più sacro degli ordini divinamente
stabiliti, quello della vita da perpetuare (o per lo meno le regole di ciò che
«est secundum naturam determinatum circa usum venereum»), tale tipo di atti
pare ondeggiare tra la (fondamentale e costitutiva) «spirituale» ingiuria blasfema
nei riguardi di Dio, condivisa con gli altri peccati in Deum – che
tuttavia infrangono un ordine propriamente soprannaturale –, e la (secondaria)
«carnale» ignominia del disonore verso il proprio corpo, condivisa con le altre
specie di lussuria; pare però anche passare, stando a un passo del De malo,
attraverso il danno radicale (più di quello prodotto dalla fornicatio
simplex) a quel «prossimo» di cui viene impedita la generazione. Questa
multiforme e contrastata fisionomia bene esprime le diverse istanze teologiche
e filosofiche operanti nell’etica tommasiana. Si cerca di costruire uno spazio
concettuale, invero assai complesso e problematico, perché le sacre proibizioni
dell’antico e del nuovo Testamento possano non solo adattarsi agli schemi classificatori
della tradizione morale cristiana, ma tradursi anche nel linguaggio della
natura e della ragione, prendendo come modello, per un verso, telos e logos
della filosofia aristotelica e, per un altro, la lex naturalis
della tradizione giuridica.
Note
(1) Cfr. M.D. Jordan, The Invention of Sodomy in Christian Theology, The University of
Chicago Press, Chicago, Ill. - London 1997, p. 156. Secondo l’autore
«for us, on the contrary, the category od the “erotic” or even the “sexual” is
constituted by the assertion of that there is a distinctive class of pleasures
whose members exceed – indeed, precede – the relation of the pleasuring organs to reproduction. [...] This
divergence between our terms and Thomas’ does confirm, in a small way,
Foucault’s assertion that our category of “sexuality” is itself a fairly recent
invention». back
(2) Non sarà, tuttavia, questo
l’oggetto del presente studio. Nel suo studio ormai classico sull’etica
matrimoniale dei pensatori medievali, C. Schahl rilevava, comunque, come
Tommaso – nel solco del pessimismo agostiniano – non ammetta che il bonum sacramenti possa costituire un
motivo onesto dell’atto coniugale (cfr. C.
Schahl, La doctrine des fins du mariage dans la théologie scolastique,
Editions franciscaines, Paris 1948, pp. 118-119). Diversa si presenta invece, a
questo riguardo, la posizione di Alberto Magno: cfr. L. Brandl, Die Sexualethik des heiligen Albertus Magnus,
Friedrich Pustet, Regensburg 1955, pp. 163-164, 172-174. back
(3)
Ovviamente è una domanda che, con i dovuti aggiustamenti, può riguardare tutti
i pensatori cristiani della tradizione ortodossa. Così, ad esempio, ci sono
state ampie discussioni (cfr. Samek
Lodovici, Sessualità, matrimonio e
concupiscenza in sant’Agostino, in Etica sessuale e matrimonio nel
cristianesimo delle origini, a
c. di R. Cantalamessa, Vita e
Pensiero, Milano 1976, pp. 212-272)
sul significato complessivo della concezione agostiniana del matrimonio, nella
quale un rigido generazionismo costituisce in ogni caso una componente
basilare: basti pensare all’affermazione del De Genesi ad litteram (IX,
3.5 e 5.9) secondo cui la donna fu fatta all’unico scopo di aiutare l’uomo
nella generazione di figli, giacché per qualsiasi altro motivo (lavoro,
convivenza e conversazione) sarebbe stato più conveniente se al primo uomo,
come aiuto, ne fosse stato affiancato un altro. back
(4)
Basti pensare a un documento ecclesiastico ufficiale come il Catechismo
della Chiesa cattolica, che, nell’articolo dedicato al sesto comandamento e
particolarmente a proposito di fornicazione, prostituzione, pornografia e
stupro, nel ribadire la dottrina tradizionale insiste sulla dignità della
persona umana quale valore fondamentale da difendere (Libreria editrice
vaticana, Città del Vaticano 1992, p. 570 ss.). back
(5) Thomas de Aquino, Contra Gentiles,
Lib. 3, cap. 122, tit. e n. 1 [26747-26748]: «Qua ratione fornicatio simplex secundum legem divinam sit
peccatum: et quod matrimonium sit naturale. Ex hoc autem
apparet vanam esse rationem quorundam dicentium fornicationem simplicem non
esse peccatum. Dicunt enim: sit aliqua mulier a viro soluta, quae sub nullius
potestate, ut patris vel alicuius alterius, existat. Si quis ad eam
accedat ea volente, non facit illi iniuriam: quia sibi placet, et sui corporis
habet potestatem. Alteri non facit iniuriam: quia sub nullius potestate ponitur
esse. Non videtur igitur esse peccatum». L’edizione cui si fa riferimento è
quella on-line del Corpus Thomisticum a cura di Enrique Alarcón: http://www.unav.es/filosofia/alarcon/amicis/ctcorpus.html
(Pampilonae ad Universitatis Studiorum Navarrensis aedes A. D.
MMII), per la quale sono state utilizzate le migliori edizioni correnti (in
particolare, per la Summa Contra Gentiles e per la Summa Theologiae Alarcón ha riveduto il testo leonino
ripreso dall’edizione su CD-ROM di Roberto Busa). Per i passi solo citati ma
non riportati nelle note del presente studio, ho ritenuto opportuno fornire il
relativo link. back
(6)
Ivi, n.12 [26759] : «Per haec autem excluditur error
dicentium in emissione seminis non esse maius peccatum quam in aliarum superfluitatum
emissione; et dicentium fornicationem non esse peccatum». Si noti la componente
naturalistica di questa posizione, ispirata all’idea aristotelica che il seme
non sia una parte bensì un residuo dell’animale: cfr. Aristoteles, De gen. an.
, I, 18, 724 b23 - 725 a21. back
(7) Cfr. R.
Hissette, Enquête sur les 219
articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Publications Universitaires -
Vander Oyez, Louvain-Paris 1977 pp. 294-296. Su Andrea il Cappellano e il Roman de la Rose
si può vedere anche D. Jacquart - C. Thomasset, Sexualité
et savoir médical au Moyen Age, Presses Universitaires de France, Paris
1981, p. 131 ss. back
(8) Thomas
de Aquino, Contra Gent., Lib. 3, cap. 122, n. 2 e
3 [26749-26750]: «Non
videtur autem esse responsio sufficiens si quis dicat quod facit iniuriam Deo.
Non enim Deus a nobis offenditur nisi ex eo quod contra nostrum bonum agimus ut
dictum est. Hoc autem non apparet esse contra hominis bonum. Unde ex hoc non
videtur Deo aliqua iniuria fieri. Similiter etiam non videtur sufficiens
responsio quod per hoc fiat iniuria proximo, qui scandalizatur. Contingit enim
de aliquo quod secundum se non est peccatum, aliquem scandalizari: et sic fit
peccatum per accidens. Nunc autem non agimus an fornicatio simplex sit peccatum
per accidens, sed per se». back
(9) Ivi, n. 4 [26751]:
«Oportet igitur ex superioribus solutionem quaerere. Dictum est enim quod Deus
uniuscuiusque curam habet secundum id quod est ei bonum. Est autem bonum
uniuscuiusque quod finem suum consequatur: malum autem eius est quod a debito
fine divertat. Sicut autem in toto, ita et in partibus hoc considerari oportet:
ut scilicet unaquaeque pars hominis, et quilibet actus eius, finem debitum sortiatur.
Semen autem, etsi sit superfluum quantum ad individui conservationem,
est tamen necessarium quantum ad propagationem speciei. Alia vero superflua, ut
egestio, urina, sudor, et similia, ad nihil necessaria sunt: unde ad bonum
hominis pertinet solum quod emittantur. Non hoc autem solum quaeritur in
semine, sed ut emittatur ad generationis utilitatem, ad quam coitus ordinatur
[…]». back
(10) Ivi, n. 5 [26752]: «Ex quo patet quod contra bonum hominis est omnis
emissio seminis tali modo quod generatio sequi non possit. Et si ex proposito
hoc agatur, oportet esse peccatum. Dico autem modum ex quo generatio sequi non
potest secundum se: sicut omnis emissio seminis sine naturali coniunctione
maris et feminae; propter quod huiusmodi peccata contra naturam dicuntur. Si
autem per accidens generatio ex emissione seminis sequi non possit, non propter
hoc est contra naturam, nec peccatum: sicut si contingat mulierem sterilem
esse». back
(11)
Ivi, n. 12 [26757]: «Haec autem quae praemissa sunt, divina auctoritate
firmantur. Quod enim emissio seminis ex qua proles sequi non potest, sit
illicita, patet. Dicitur enim Levit. 18-22 “cum masculo non commisceberis coitu
femineo”; et 23 “cum omni pecore non coibis”. Et I Cor. 6-10: ”neque molles,
neque masculorum concubitores, regnum Dei non possidebunt”». back
(12)
Questa è perlomeno l’accezione di ‘mollities’ che Tommaso – sulla scia
della Summa halensis – utilizza nella Summa Theologiae (cfr. infra,
nota 78), identificandola con l’immunditia, anche se nel suo commento
alla prima Lettera ai Corinti i molles (termine con cui la
Vulgata traduce il paolino ‘malakoi’) vengono identificati con i mares
muliebria patientes, cioè omosessuali passivi, e contrapposti ai concubitores
masculorum (arsenokoitai), cioè omosessuali attivi: cfr. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza,
omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo,
trad. E. Lauzi, (ed. or. Chicago 1980), Leonardo, Milano 1989, pp. 411-412. Sui problemi di
interpretazione del passo di san Paolo, cfr. D.S. Bailey, Homosexuality and the Western Christian
Tradition, Longmans, Green and Co., Ltd., London 1955, p. 37 ss. back
(13)
Si veda ad esempio Thomas de Aquino,
Super
Sent., Lib. 3, d. 3, q. 5, a. 1, resp. [7892]. Cfr. M.D. Jordan, Medicine
and Natural Philosophy in Aquinas, in Thomas von Aquin. Werk und Wirkung im Licht neuerer
Forschungen, hrsg. v. A. Zimmermann, Miscellanea Mediaevalia
19, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1988, pp. 233-246. back
(14)
V. infra, nota 78. back
(15)
Cfr. Jacquart-Thomasset, Sexualité
et savoir médical, pp. 213, 219; Bailey,
Homosexuality and the Western Christian Tradition, p. 163. Circa i
dibattiti medievali sullo sperma mulieris si può vedere R. Martorelli Vico, Medicina e
filosofia. Per una storia dell’embriologia medievale nel XIII e XIV secolo,
Guerini e associati, Milano 2002. back
(16)
Thomas de Aquino, Contra Gent., Lib. 3, cap. 122, n. 4 [26751]:
«[…] Frustra autem esset hominis generatio nisi et debita nutritio sequeretur:
quia generatum non permaneret, debita nutritione subtracta. Sic igitur ordinata
esse seminis debet emissio ut sequi possit et generatio conveniens, et geniti
educatio». back
(17)
Ivi, n. 6 [26753]: «Similiter etiam oportet contra bonum
hominis esse si semen taliter emittatur quod generatio sequi possit, sed
conveniens educatio impediatur. Est enim considerandum quod in animalibus in
quibus sola femina sufficit ad prolis educationem, mas et femina post coitum
nullo tempore commanent, sicut patet in canibus. Quaecumque vero animalia sunt
in quibus femina non sufficit ad educationem prolis, mas et femina simul post
coitum commanent quousque necessarium est ad prolis educationem et
instructionem: sicut patet in quibusdam avibus, quarum pulli non statim
postquam nati sunt possunt sibi cibum quaerere. Cum enim avis non nutriat lacte
pullos, quod in promptu est, velut a natura praeparatum, sicut in quadrupedibus
accidit, sed oportet quod cibum aliunde pullis quaerat, et praeter hoc,
incubando eos foveat: non sufficeret ad hoc sola femella. Unde ex divina
providentia est naturaliter inditum mari in talibus animalibus, ut commaneat
femellae ad educationem fetus. Manifestum est autem quod in specie humana
femina minime sufficeret sola ad prolis educationem: cum necessitas humanae
vitae multa requirat quae per unum solum parari non possunt. Est igitur
conveniens secundum naturam humanam ut homo post coitum mulieri commaneat, et
non statim abscedat, indifferenter ad quamcumque accedens, sicut apud
fornicantes accidit». back
(18)
Ivi, n. 7
[26754] e n. 8
[26755]. back
(19) Ivi, n. 11 [26758]: «Quod etiam
fornicatio, et omnis coitus praeter propriam uxorem, sit illicitus patet.
Dicitur enim Deut. 23-17: “non erit meretrix de filiabus Israel, nec scortator
de filiis Israel”. Et Tobiae 4-13: “attende tibi ab omni fornicatione, et
praeter uxorem tuam, non patiaris crimen scire”. Et I Cor. 6-18: “fugite
fornicationem”». back
(20) Ivi, n. 9 [26756]: «Nec tamen
oportet reputari leve peccatum esse si quis seminis emissionem procuret praeter
debitum generationis et educationis finem, propter hoc quod aut leve aut nullum
peccatum est si quis aliqua sui corporis parte utatur ad alium usum quam ad eum
ad quem est ordinata secundum naturam, ut si quis, verbi gratia, manibus
ambulet, aut pedibus aliquid operetur manibus operandum : quia per
huiusmodi inordinatos usus bonum hominis non multum impeditur; inordinata vero
seminis emissio repugnat bono naturae, quod est conservatio speciei. Unde post
peccatum homicidii, quo natura humana iam in actu existens destruitur,
huiusmodi genus peccati videtur secundum locum tenere, quo impeditur generatio
humanae naturae». back
(21)
Si veda ad esempio J. Chiffoleau,
Contra naturam. Pour une
approche casuistique et procédurale de la nature médiévale, «Micrologus» 4 (1996), pp. 265-311:
272-273. L’innominabilità dei peccati contro natura è affermata da
Tommaso già nelle Sentenze. Cfr.
Thomas de Aquino, IV Sent.,
d. 41, q. 1, a. 4, qc. 2, resp. [20895]
«Ad secundam quaestionem dicendum, quod species luxuriae distinguuntur
primo per concubitum secundum naturam et contra naturam. Sed quia luxuria
contra naturam innominabilis est, relinquatur. Si autem sit peccatum in
concubitu secundum naturam, tunc aut non addit aliquam deformitatem super
luxuriae genus, et sic est fornicatio: aut addit; et hoc dupliciter; quia vel
quantum ad modum agendi, et sic est raptus, qui violentiam importat; vel ex
conditione ejus cum qua luxuria committitur; et haec conditio vel est ipsius
absolute, sicut virginitas, et sic est stuprum; vel est ipsius in ordine ad
alterum; et hoc, vel ad concumbentem cum ea, sicut est conditio affinitatis vel
consanguinitatis, et sic est incestus; vel ad alium aliquem, sicut est
matrimonium; et sic est adulterium». back
(22)
Cfr. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità,
pp. 335-362, 413-415. Più recentemente, anche Robert Moore individuava nel
secolo XII una tappa fondamentale per la formazione – legata alla crisi del
mondo feudale – di una società persecutrice nei confronti di eretici, ebrei,
sodomiti ed altre forme di devianza: cfr. R.I.
Moore, The Formation of a Persecuting Society, Blackwell, Malden,
Massachusetts 1987, p. 91 ss. back
(23)
Cfr. infra, nota 40. back
(24) Cfr. Thomas de Aquino, Contra Gent., Lib. 3, cap. 128 [26808-26815]. back
(25)
D’altra parte è anche vero che nel cap. 123
n. 6 [26766] Tommaso individua nell’«amicizia
grandissima» tra marito e moglie, dovuta alla loro unione carnale e alla
comunanza di tutta la vita domestica, uno dei motivi che fondano
l’indissolubilità del matrimonio. back
(26)
Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 153, a. 1, resp., ad 1 [45092, 45093]: «Respondeo dicendum quod,
sicut Isidorus dicit, in libro Etymol., luxuriosus aliquis dicitur quasi
solutus in voluptates. Maxime autem voluptates venereae animum hominis solvunt.
Et ideo circa voluptates venereas maxime luxuria consideratur. […] Ad primum
ergo dicendum quod, sicut temperantia principaliter quidem et proprie est circa
delectationes tactus, dicitur autem ex consequenti et per similitudinem quandam
in quibusdam aliis materiis; ita etiam luxuria principaliter quidem est in
voluptatibus venereis, quae maxime et praecipue animum hominis resolvunt;
secundario aut dicitur in quibuscumque aliis ad excessum pertinentibus [...]».
Cfr. Isidorus Hispalensis, Etymologiae,
ad litt. L, PL 82, 384. La fortuna della categoria di ‘lussuria’ nelle dottrine
morali dell’Occidente cristiano è legato al fatto che Girolamo utilizzò questo
termine, attinto alla tradizione etica della Roma antica, per tradurre in
latino vari termini, tra di loro diversi, del Vecchio e del Nuovo Testamento:
cfr. Jordan, The Invention of Sodomy, p. 37 ss. back
(27) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 153, a. 3,
resp. [45109]: «Respondeo dicendum quod quanto
aliquid est magis necessarium, tanto magis oportet ut circa illud rationis ordo
servetur. Unde per consequens magis est vitiosum si ordo rationis
praetermittatur. Usus autem venereorum, sicut dictum est, est valde necessarius
ad bonum commune, quod est conservatio humani generis. Et ideo circa hoc maxime
attendi debet rationis ordo. Et per consequens, si quid circa hoc fiat praeter
id quod ordo rationis habet, vitiosum erit. Hoc autem pertinet ad rationem
luxuriae, ut ordinem et modum rationis excedat circa venerea. Et ideo absque
dubio luxuria est peccatum»; ivi, q. 154, a. 1, resp. [45139]:
«Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, peccatum luxuriae consistit
in hoc quod aliquis non secundum rectam rationem delectatione venerea utitur
[…]». back
(28) Ivi, q. 154, Prooemium [45131]: «Deinde considerandum est de luxuriae partibus. Et
circa hoc quaeruntur duodecim. Primo, de divisione partium luxuriae. Secundo,
utrum fornicatio simplex sit peccatum mortale. Tertio, utrum sit maximum peccatorum. Quarto, utrum in tactibus et osculis et
aliis huiusmodi illecebris consistat peccatum mortale. Quinto, utrum
nocturna pollutio sit peccatum. Sexto, de stupro. Septimo, de raptu. Octavo, de adulterio.
Nono, de incestu. Decimo, de sacrilegio. Undecimo, de peccato contra naturam.
Duodecimo, de ordine gravitatis in praedictis speciebus». Si noti che nel
quarto articolo si tratta della colpevolezza mortale di atti che non comportano
un’emissione di seme, e la risposta è positiva qualora «baci, abbracci e cose
di questo tipo» non avvengano absque libidine bensì propter
delectationem: ivi, q. 154,
a. 4, resp. [45175]. Cfr. Bailey, Homosexuality and the
Western Christian Tradition, pp. 117-118. back
(29) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2,
arg. 1 e ad 1 [45146, 45156]: «Ad secundum sic
proceditur. Videtur quod fornicatio simplex non sit peccatum mortale. Ea
enim quae simul connumerantur, videntur esse unius rationis. Sed fornicatio
connumeratur quibusdam quae non sunt peccata mortalia, dicitur enim Act. XV [29], “abstineatis vos ab immolatis
simulacrorum, et sanguine et suffocato, et fornicatione”; illorum autem usus
non est peccatum mortale, secundum illud I ad Tim. IV [4], “nihil
reiiciendum quod cum gratiarum actione percipitur”. Ergo fornicatio non est
peccatum mortale. […] Ad primum ergo dicendum quod fornicatio illis
connumeratur, non quia habeat eandem rationem culpae cum aliis, sed quantum ad
hoc, quod ex his quae ibi ponuntur similiter poterat dissidium generari inter
Iudaeos et gentiles, et eorum unanimis consensus impediri. Quia apud gentiles
fornicatio simplex non reputabatur illicita, propter corruptionem naturalis
rationis, Iudaei autem, ex lege divina instructi, eam illicitam reputabant.
Alia vero quae ibi ponuntur, Iudaei abominabantur propter consuetudinem legalis
conversationis. Unde apostoli ea gentilibus interdixerunt, non quasi secundum
se illicita, sed quasi Iudaeis abominabilia, ut etiam supra dictum est». Si
noti che in altri casi invece (lì dove, come a proposito del carattere penale
della morte, egli ritiene che solo la luce della rivelazione divina possa darci
una risposta certa) Tommaso giustifica i pagani, come Seneca, che non furono in
grado di approdare alla verità, mentre Bonaventura di fatto chiama in causa la
corruzione postlapsaria della ragione anche per il mancato riconoscimento
dell’esistenza di una colpa primitiva: cfr. L. Cova, «Morte e
immortalità del composto umano nella teologia francescana del XIII secolo»,
in C. Casagrande - S. Vecchio (ed.),
Anima e corpo nella cultura medievale,
SISMEL Edizioni del Galluzzo, Firenze 1999, p. 108; Id., Utrum peccatum originale sit. Le prove di una prima prevaricazione nella
riflessione di Bonaventura e nel pensiero francescano del XIII secolo,
«Doctor seraphicus» 45 (1998), pp. 63-97: 79. back
(30)
Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 154, a. 2, arg. 2 e ad 2 [45147, 45157]:
«Praeterea, nullum peccatum mortale cadit sub praecepto divino. Sed Osee I [2]
praecipitur a domino, “vade, sume tibi uxorem fornicationum, et fac filios
fornicationum”. Ergo fornicatio non est peccatum mortale. […] Ad secundum
dicendum quod fornicatio dicitur esse peccatum, inquantum est contra rationem
rectam. Ratio autem hominis recta est secundum quod regulatur voluntate divina,
quae est prima et summa regula. Et ideo quod homo facit ex voluntate Dei, eius
praecepto obediens, non est contra rationem rectam, quamvis videatur esse
contra communem ordinem rationis, sicut etiam non est contra naturam quod
miraculose fit virtute divina, quamvis sit contra communem cursum naturae. Et
ideo, sicut Abraham non peccavit filium innocentem volendo occidere, propter
hoc quod obedivit Deo, quamvis hoc, secundum se consideratum, sit communiter
contra rectitudinem rationis humanae; ita etiam Osee non peccavit fornicando ex
praecepto divino. Nec talis concubitus proprie fornicatio debet dici, quamvis
fornicatio nominetur referendo ad cursum communem […]». back
(31)
Ivi, arg. 6 e ad 6 [45151, 45161]: «Praeterea, sicut
Augustinus dicit, in libro de Bon. Coniug., “quod est cibus ad salutem corporis, hoc est concubitus ad
salutem generis”. Sed non
omnis inordinatus usus ciborum est peccatum mortale. Ergo nec omnis inordinatus
concubitus. Quod maxime videtur de fornicatione simplici, quae minima est inter
species enumeratas. […] Ad sextum dicendum quod ex uno concubitu potest unus
homo generari. Et ideo inordinatio concubitus, quae impedit bonum prolis
nasciturae, ex ipso genere actus est peccatum mortale, et non solum ex
inordinatione concupiscentiae. Ex una autem comestione non impeditur bonum
totius vitae unius hominis, et ideo actus gulae ex suo genere non est peccatum
mortale. Esset tamen si quis scienter cibum comederet qui totam conditionem
vitae eius immutaret, sicut patet de Adam. Nec tamen fornicatio est
minimum peccatorum quae sub luxuria continentur. Minus enim est concubitus cum uxore qui fit ex
libidine». Cfr. Augustinus, De
bono coniugali, 16 (PL 40, 385). back
(32)
Ivi, arg. 4 [45149]: «Praeterea, omne peccatum mortale
contrariatur caritati. Sed fornicatio simplex non contrariatur caritati, neque
quantum ad dilectionem Dei, quia non est directe peccatum contra Deum; nec
etiam quantum ad dilectionem proximi, quia per hoc homo nulli homini facit
iniuriam. Ergo fornicatio simplex non est peccatum mortale». back
(33)
Ivi, ad 4 [45159]: «Ad quartum dicendum quod fornicatio simplex contrariatur
dilectioni proximi quantum ad hoc, quod repugnat bono prolis nasciturae, ut
ostensum est, dum scilicet dat operam generationi non secundum quod convenit
proli nasciturae». Cfr. anche ivi, resp. [45155], il passo cui siriferisce la
nota 41. back
(34)
Mentre la Secunda Secundae fu redatta a Parigi tra il 1271 e il 1272, le
sedici Questioni De malo probabilmente furono disputate intorno al 1270,
e le prime quindici pubblicate prima del 1272: cfr. J. P. Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, trad. P. Giustiniani – G. Matera, (ed. or. Fribourg
1993), Edizioni Piemme, Casale Monferrato
1994, pp. 166-184, 228-233. back
(35) Thomas de Aquino, De malo, q.
15, a. 2, arg. 4 e ad 4 [63410-63431]: «Praeterea, omne
peccatum mortale contrariatur caritati, per quam est animae vita, secundum
illud I Ioan. III, 14: “translati sumus de morte ad vitam quoniam diligimus
fratres”. Sed simplex fornicatio non contrariatur neque dilectioni Dei, quia
non est peccatum in Deum, neque etiam dilectioni proximi, quia proximo non
facit iniuriam: mulier enim sui iuris existens quae in actum simplicis
fornicationis consentit, iniuriam non patitur, quia nullus patitur iniustum
volens, ut philosophus dicit in V Ethic. Ergo fornicatio secundum suum genus
non est peccatum mortale. […] Ad quartum dicendum, quod
omnes corruptiones luxuriae, quae sunt praeter legitimum matrimonii usum, sunt
peccata in proximum, in quantum sunt contra bonum prolis generandae et
educandae, sicut dictum est». back
(36) Nel recente libro dedicato
ai sette vizi capitali nel Medioevo, Carla Casagrande e Silvana Vecchio mettono
bene in luce come con questa posizione Tommaso esprima un sentire comune
nell’orizzonte culturale e religioso (teologi, predicatori e confessori)
all’interno del quale è situato: «La fornicazione semplice, un rapporto
sessuale tra persone libere da vincoli matrimoniali (solutus cum soluta)
non è infatti in linea di principio un impedimento alla generazione; non
esclude che l'uomo e la donna si congiungano carnalmente per procreare e
nemmeno che lo facciano con il freno della temperanza, così come accade tra coniugi
virtuosi; eppure, a differenza di quei coniugi, quell'uomo e quella donna, in
quanto soluti, peccano. La loro colpa sta nello spezzare non tanto il
legame tra sesso e generazione, quanto quello tra sesso e società. Uniti da un
rapporto occasionale non riconosciuto dalla legge, liberi da ogni obbligo di
fedeltà, generano figli dalla paternità incerta che non potranno per questo
ricevere dai padri l'educazione di cui hanno bisogno per entrare a far parte
della comunità sociale. La fornicazione semplice, spiega Tommaso, è un peccato
contro il nascituro, condannato, nel momento in cui viene concepito, a non
avere un padre e dunque a non essere da questi difeso, istruito e provvisto dei
necessari beni esteriori e interiori». C.
Casagrande - S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati
nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000, p. 177. back
(37) Cfr. Thomas de Aquino, Summa
theol., II.II., q. 153, a. 3, resp.;
q.
154, a. 2, resp.; q. 154,
a. 9, ad 3. I due aspetti, d’altra parte, si possono considerare
convergenti piuttosto che alternativi, se si tiene presente che il provvedere
agli altri (singoli) è avvicinabile, per Tommaso, al «provvedere alla natura
comune», in quanto contrapposti entrambi al mero «provvedere a se stessi» dell’autoconservazione
individuale. Cfr. Id., Contra
impugnantes, p. 2, c. 4, ad 1 [69424]: «[…] Sunt enim quaedam legis naturae
praecepta per quorum impletionem non providetur nisi implenti, sicut praeceptum
de manducando. […] Sunt etiam quaedam praecepta legis naturae quibus homo non
sibi providet, sed naturae communi: sicut praeceptum de actu generativae
virtutis, quo species humana multiplicatur et salvatur; vel etiam quibus homo
non soli sibi, sed aliis providere potest […]». Sulla centralità, in Tommaso, dell’idea
di ‘bonum commune’ (fondamentalmente Dio stesso e la comunità politica)
come superiore al bene individuale, si veda M.S.
Kempshall., The Common Good in Late Medieval Political
Thought, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 102 ss. back
(38)
Cfr. infra, note 78 e 80. back
(39)
Tommaso inizia la sua lunga conclusione rilevando come la fornicazione semplice
sia sempre peccato mortale, compreso il rapporto con prostitute, che non è venialis
bensì venalis. Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2,
resp. [45155]: «Respondeo dicendum quod absque
omni dubio tenendum est quod fornicatio simplex sit peccatum mortale, non
obstante quod Deut. XXIII [17], super illud, non erit meretrix etc., dicit
Glossa, “ad eas prohibet accedere quarum est venialis turpitudo”. Non enim
debet dici venialis, sed venalis, quod est proprium meretricum […]» (in De malo, q. 15, a. 2, arg. 11 e ad 11,
Tommaso rileva che il testo di tale glossa è corrotto). La glossa citata è
quella di Agostino: cfr. Augustinus, Quaestiones
in Heptat., V, q. 37, super Deut. 23, 17 (PL 34, 763), che anche
nell’edizione del Corpus Christianorum (CChL 33, 295) presenta ‘venalis’,
senza segnalazione di varianti nell’apparato critico. L’unico peccato veniale in
venereis è possibile, per Tommaso, all’interno del matrimonio, quando
l’atto coniugale, pur nel rispetto della finalità procreativa e con
l’intenzione di non violare l’ordine del fine ultimo, è compiuto ex libidine:
cfr. ivi,
resp. e Summa theol., II.II., q. 154, a. 2, ad 6. back
(40) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2,
resp. [45155]: «[…] Videmus enim in omnibus animalibus in
quibus ad educationem prolis requiritur cura maris et feminae, quod in eis non
est vagus concubitus, sed maris ad certam feminam, unam vel plures, sicut patet
in omnibus avibus. Secus autem est in animalibus in quibus sola femina sufficit
ad educationem fetus in quibus est vagus concubitus, ut patet in canibus et
aliis huiusmodi animalibus. Manifestum est autem quod ad educationem hominis
non solum requiritur cura matris, a qua nutritur, sed multo magis cura patris,
a quo est instruendus et defendendus, et in bonis tam interioribus quam
exterioribus promovendus. Et ideo contra naturam hominis est quod utatur vago
concubitu, sed oportet quod sit maris ad determinatam feminam, cum qua
permaneat, non per modicum tempus, sed diu, vel etiam per totam vitam. Et inde est quod naturaliter est maribus
in specie humana sollicitudo de certitudine prolis, quia eis imminet educatio
prolis. Haec autem certitudo tolleretur si esset vagus concubitus. Haec autem
determinatio certae feminae matrimonium vocatur. Et ideo dicitur esse de iure
naturali. Sed quia concubitus ordinatur ad bonum commune totius humani generis;
bona autem communia cadunt sub determinatione legis, ut supra habitum est,
consequens est quod ista coniunctio maris ad feminam, quae matrimonium dicitur,
lege aliqua determinetur. Qualiter autem sit apud nos determinatum, in tertia
parte huius operis agetur, cum de matrimonii sacramento tractabitur. Unde, cum
fornicatio sit concubitus vagus, utpote praeter matrimonium existens, est
contra bonum prolis educandae. Et ideo est peccatum mortale. Nec obstat si
aliquis fornicando aliquam cognoscens, sufficienter provideat proli de
educatione. Quia id quod cadit sub legis determinatione, iudicatur secundum id
quod communiter accidit, et non secundum id quod in aliquo casu potest
accidere». Si noti che l’espressione ‘vagus concubitus’ non è
usata nella Contra Gentiles. In De malo, q. 15,
a. 2, ad 12 [63439], Tommaso si richiama alla Politica di
Aristotele: «Ad duodecimum dicendum, quod actus generationis ordinatur ad bonum
speciei, quod est bonum commune. Bonum autem commune est ordinabile lege; sed
bonum privatum subiacet ordinationi uniuscuiusque. Et ideo quamvis in actu
nutritivae virtutis, quae ordinatur ad conservationem individui, unusquisque
possit sibi determinare cibum convenientem sibi; tamen determinare qualis
debeat esse generationis actus non pertinet ad unumquemque, sed ad
legislatorem, cuius est ordinare de propagatione filiorum, ut etiam philosophus
dicit in II Polit. Lex autem non considerat quid in aliquo casu accidere
possit, sed quid convenienter esse consuevit; et ideo licet in aliquo casu
possit salvari intentio naturae in actu fornicario quantum ad generationem
prolis et educationis; nihilominus actus est secundum se inordinatus, et
peccatum mortale». Nel II Libro della Politica Aristotele riferisce, tra
l’altro, la legislazione spartana (cap. 9, 1270 a39-b4) e quella tebana (cap.
12, 1274 b1-5) sulla procreazione dei figli. back
(41) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2,
resp. [45155]. back
(42) Ivi, a. 3, resp. [45166]: «Respondeo dicendum quod gravitas peccati alicuius
attendi potest dupliciter, uno modo, secundum se; alio modo, secundum accidens.
Secundum se quidem attenditur gravitas peccati ex ratione suae speciei, quae
consideratur secundum bonum cui peccatum opponitur. Fornicatio autem est contra
bonum hominis nascituri. Et ideo est gravius peccatum secundum speciem suam
peccatis quae sunt contra bona exteriora, sicut est furtum et alia huiusmodi,
minus autem peccatis quae sunt directe contra Deum, et peccato quod est contra
vitam hominis iam nati, sicut est homicidium». back
(43) Ivi, a. 1 (Utrum
convenienter assignentur sex species luxuriae), arg. 1, sed contra [45132, 45138]: «Ad primum sic proceditur. Videtur quod
inconvenienter assignentur sex species luxuriae, scilicet, fornicatio simplex,
adulterium, incestus, stuprum, raptus et vitium contra naturam. [...]
Sed contra est quod praedicta divisio ponitur in decretis, XXXVI Caus., qu. I».
Cfr. Gratianus, Decretum, II, 36,
1, 2 (ed. Richter-Friedberg I,
1288), che tuttavia distingue cinque tipi di illicitus coitus (i primi
cinque della lista presentata da Tommaso), così come fa poi anche Pietro
Lombardo in IV Sent., d. 41, cap. 5-9 (ed. Ad Claras Aquas,
Grottaferrata 1981, II, p. 500). Cfr. Jordan, The Invention of Sodomy, p. 144.
Tommaso, comunque, successivamente riconosce che l’inserimento del vitium
contra naturam costituisce un’integrazione del Decretum: cfr. Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 154, a. 11, arg. 1, ad 1 [45229, 45234]: «Ad
undecimum sic proceditur. Videtur quod vitium contra naturam non sit species
luxuriae. Quia in praedicta enumeratione specierum luxuriae nulla fit mentio de
vitio contra naturam. Ergo non est
species luxuriae. […] Ad primum ergo dicendum quod ibi enumerantur
species luxuriae quae non repugnant humanae naturae. Et ideo praetermittitur
vitium contra naturam». Nelle Quaestiones de malo il maestro domenicano,
per giustificare l’elenco, oltre a ricorre all’auctoritas del Magister,
presenta (in breve) una strutturazione sistematica che non coincide con quella
della Secunda Secundae. Cfr. Id.,
De malo, q. 15, a. 3, sed contra, resp. [63451, 63452]:
«Sed contra, est quod Magister in IV Sent., has species assignat. Respondeo. Dicendum quod sicut supra dictum est, peccatum
luxuriae dupliciter habet inordinationem. Uno quidem modo ex parte
concupiscentiae; et talis inordinatio non semper facit peccatum mortale. Alio modo ex parte ipsius actus, qui de se
est inordinatus; et sic semper est peccatum mortale. Et ideo ex hac parte, ex
qua est maior gravitas peccati, sumuntur species praedictae luxuriae. Est autem
actus luxuriae inordinatus aut ex hoc quod non potest sequi ex actu generatio
prolis: et sic est vitium contra naturam; aut ex eo quod non potest sequi
debita educatio, quia scilicet mulier non est determinata viro, ut sit sua
secundum legem matrimonii; et hoc quidem contingit tripliciter. Primo quia
simpliciter non est determinata, ut sit sua; et sic est fornicatio, quae est
concubitus soluti cum soluta; et sic dicitur a fornice, idest ab arcu
triumphali, quia ad huiusmodi spectacula conveniebant mulieres quae se
prostituebant. Secundo, quia non est determinabilis; et hoc vel propter
propinquitatem, ex qua reverentia quaedam debetur contraria tali actui; et sic
est incestus, qui est concubitus cum consanguinea, vel affini: aut propter
aliquam sanctitatem vel puritatem; et sic est stuprum, quae est illicita
defloratio virginum. Tertio, quia mulier est alterius, vel secundum legem
matrimonii, et sic est adulterium; vel secundum aliquem alium modum, et sic est
raptus, puta cum puella rapitur de domo patris, cuius curae subiacet». Già
nelle Sentenze Tommaso aveva difeso l’articolazione della lussuria in
sei specie. Cfr. il passo citato nella nota 21 e, limitatamente ai «concubiti
secondo natura», anche Id. IV Sent., d. 41, q. 1, a. 4, qc. 1, resp. [20892]: «Respondeo
dicendum ad primam quaestionem, quod sicut supra, dist. 16, qu. 3, art. 2, quaestiunc. 3, in corp., dictum
est, circumstantia peccatum in aliud genus mutat, quando alterius generis
peccati deformitatem addit; et secundum hoc, isti luxuriae modi qui hic
ponuntur, differunt specie; quia fornicatio non importat, quantum est de se,
aliam deformitatem nisi quae ad genus luxuriae pertinet, est enim soluti cum
soluta; et dicitur fornicatio a fornice, quia juxta fornices, idest arcus
triumphales, et in aliis locis ubi homines conveniebant, congregabantur
meretrices, et ibi polluebantur. Sed stuprum, quod est illicita virginum
defloratio, addit aliam deformitatem, scilicet damnificationem mulieris
violatae, quae non est ita apta ad nubendum sicut ante; et haec damnificatio
etiam per se specialem legis prohibitionem habet. Similiter etiam adulterium,
quod est alterius tori violatio, addit specialem deformitatem alterius generis,
quae est ex usu rei alienae illicito, quod pertinet ad genus injustitiae.
Similiter etiam incestus, qui est consanguinearum vel affinium abusus, ab
incendio nomen habens, vel a privatione castitatis, quasi antonomastice, quia
castitatem violat in illis qui maximo foedere conjunguntur, addit specialem
deformitatem, scilicet naturalis foederis violationem. Similiter etiam raptus,
qui committitur ex hoc quod puella a domo patris violenter abducitur, ut
corrupta in matrimonium habeatur, sive vis puellae seu parentibus illata
constiterit, patet quod alterius generis deformitatem addit, scilicet
violentiam, quam lex in quacumque re prohibet; et sic patet quod sunt diversae
species peccatorum; unde etiam circumstantiae quibus diversificantur, non sunt
in confessione omittendae». Sulla strutturazione della luxuria in
varie specie a partire dalla metà del XII secolo cfr. Casagrande -Vecchio, I sette vizi capitali, p. 176 ss.
back
(44) Cfr. infra,
note 48 e 49. back
(45)
Ciò, del resto, vale anche per gli altri peccati: sulla materia-oggetto come
criterio di classificazione dei peccati in generale, cfr. ad esempio Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., Prooem. [38736] : «[…] Ostensum est enim
supra quod vitia et peccata diversificantur specie secundum materiam vel
obiectum, non autem secundum alias differentias peccatorum, puta cordis, oris
et operis, vel secundum infirmitatem, ignorantiam et malitiam, et alias
huiusmodi differentias; est autem eadem materia circa quam et virtus recte
operatur et vitia opposita a rectitudine recedunt […]». back
(46) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 1,
resp. [45139]: «[…] Diversificantur autem istae
species magis ex parte feminae quam viri. Quia in actu venereo femina se habet
sicut patiens et per modum materiae, vir autem per modum agentis. Dictum est
autem quod praedictae species secundum differentiam materiae assignantur». back
(47) Ibid.: «Respondeo
dicendum quod, sicut dictum est, peccatum luxuriae consistit in hoc quod
aliquis non secundum rectam rationem delectatione venerea utitur. Quod
quidem contingit dupliciter, uno modo, secundum materiam in qua huiusmodi
delectationem quaerit; alio modo, secundum quod, materia debita existente, non
observantur aliae debitae conditiones. Et quia circumstantia, inquantum
huiusmodi, non dat speciem actui morali, sed eius species sumitur ab obiecto,
quod est materia actus; ideo oportuit species luxuriae assignari ex parte
materiae vel obiecti [...]»; ivi, ad 1 [45140]: «Ad primum ergo dicendum quod
praedicta diversitas materiae habet annexam diversitatem formalem obiecti, quae
accipitur secundum diversos modos repugnantiae ad rationem rectam, ut dictum
est». back
(48) Ivi, resp. [45139]: «[…] Quae quidem potest non convenire rationi rectae
dupliciter. Uno modo, quia habet repugnantiam ad finem venerei actus. Et sic,
inquantum impeditur generatio prolis, est vitium contra naturam, quod est in
omni actu venereo ex quo generatio sequi non potest. Inquantum autem impeditur
debita educatio et promotio prolis natae, est fornicatio simplex, quae est
soluti cum soluta […]». back
(49)
Ibid.: «Alio modo materia in qua exercetur actus venereus, potest esse
non conveniens rationi rectae per comparationem ad alios homines. Et hoc dupliciter. Primo quidem, ex
parte ipsius feminae cui aliquis commiscetur, quia ei debitus honor non
servatur. Et sic est incestus, qui
consistit in abusu mulierum consanguinitate vel affinitate iunctarum. Secundo,
ex parte eius in cuius potestate est femina. Quia si est in potestate viri, est
adulterium, si autem est in potestate patris, est stuprum, si non inferatur
violentia; raptus autem, si inferatur […]». back
(50)
Non mi sembra infatti che ‘abusus’ implichi un’idea di coazione. La
violazione, piuttosto, è quella del patto o vincolo naturale della
consanguineità: si veda il passo del commento alle Sentenze riportato
nella nota 43. back
(51)
Che ‘stupro’ significhi illeciti rapporti con una donna, senza necessariamente
comportare costrizione, è tradizione consolidata a partire dal diritto romano.
L’accezione attuale è invece debitrice del Codice napoleonico (quello stesso,
tra l’altro, che per primo espunse la «sodomia» dall’elenco dei reati), ed è
codificata persino in documenti ecclesiastici ufficiali: cfr. Catechismo
della Chiesa cattolica, p. 575. Dal 1996 nella legislazione italiana la
violenza sessuale è sanzionata nell’ambito dei diritti della persona umana, e
non appartiene più alla sfera generica della moralità e del buon costume: cfr. G. Ambrosini, Le nuove norme
sulla violenza sessuale, UTET, Torino 1997, p. 4. back
(52)
Spazio che si riduce all’«onore» della donna, a conferma del fatto che, anche a
proposito dell’incesto, il punto di vista è sempre quello dell’agens
maschile. back
(53)
Si tratta, come vedremo, di un’implicita ammissione che gli atti «contro
natura» non comportano di per sé ingiuria al prossimo, e d’altra parte di un
silenzio completo riguardo alle violenze che in certi casi di fatto li accompagnano.
back
(54)
Sulla polisemia e sulla complessa storia dei termini ‘sodomitico’ e ‘sodomia’
(al punto che lo stesso peccato biblico degli abitanti di Sodoma fu oggetto
nella tradizione cristiana occidentale di interpretazioni assai diverse,
inizialmente addirittura in chiave non sessuale) può essere sufficiente
rinviare agli studi già citati di Bailey, Boswell e Jordan. back
(55)
Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 154, a. 1, ad 2 [45141]: «Ad secundum
dicendum quod nihil prohibet in eodem actu diversorum vitiorum deformitates
concurrere, ut supra dictum est. Et
hoc modo adulterium continetur sub luxuria et sub iniustitia […]». back
(56)
Ivi, arg. 2 [45133]: «Praeterea, species vitii unius non
videntur diversificari per ea quae pertinent ad aliud vitium. Sed adulterium
non differt a simplici fornicatione nisi in hoc quod aliquis accedit ad eam
quae est alterius, et sic iniustitiam committit. Ergo videtur quod adulterium non
debet poni species luxuriae». back
(57)
Ivi, ad 2 [45141]: «[…] Nec deformitas iniustitiae
omnino per accidens se habet ad luxuriam. Ostenditur enim luxuria gravior quae
in tantum concupiscentiam sequitur quod etiam in iniustitiam ducat». back
(58)
Ivi, q.6, arg. 3 e ad 3 [45189, 45194]: «Praeterea,
inferre alicui iniuriam videtur magis ad iniustitiam quam ad luxuriam
pertinere. Sed ille qui stuprum committit, iniuriam facit alteri, scilicet
patri puellae quam corrumpit, qui potest ad animum suam iniuriam revocare, et
agere actione iniuriarum contra stupratorem. Ergo stuprum non debet poni
species luxuriae. […] Ad tertium dicendum quod nihil prohibet unum peccatum ex
adiunctione alterius deformius fieri. Fit autem deformius peccatum luxuriae ex
peccato iniustitiae, quia videtur concupiscentia esse inordinatior quae a
delectabili non abstinet ut iniuriam vitet […]». back
(59) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 153, a. 1,
arg. 1 [45088]: «Ad primum sic proceditur. Videtur quod
materia luxuriae non sit solum concupiscentiae et delectationes venereae […]»;
ivi, resp.: cfr. supra, nota 26. back
(60)
Ivi, q. 154, a. 9, resp. [45217] «Respondeo dicendum quod,
sicut dictum est, ibi necesse est inveniri determinatam speciem luxuriae, ubi
invenitur aliquid repugnans debito usui venereorum. In usu autem
consanguinearum vel affinium invenitur aliquid incongruum commixtioni venereae,
triplici ratione. Primo quidem, quia naturaliter homo debet quandam
honorificentiam parentibus, et per consequens aliis consanguineis, qui ex
eisdem parentibus de propinquo originem trahunt, in tantum quod apud antiquos,
ut Maximus Valerius refert, non erat fas filium simul cum patre balneari, ne
scilicet se invicem nudos conspicerent. Manifestum est autem secundum praedicta
quod in actibus venereis maxime consistit quaedam turpitudo honorificentiae
contraria, unde de his homines verecundantur. Et ideo incongruum est quod
commixtio venerea fiat talium personarum ad invicem. Et haec causa videtur exprimi Levit. XVIII [7],
ubi dicitur, “mater tua est, non revelabis turpitudinem eius”». Cfr. Valerius
Maximus, Factorum et dictorum memorabilium libri novem, II, 1, 7 (ed. C. Kempf, Teubner, Leipzig 1888; repr. Stuttgart
1966, p. 59). back
(61)
Si veda, a questo proposito, il contributo di Tiziana Suarez-Nani su questo
stesso numero di «Etica e politica». back
(62) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 10,
resp. [45225]: «Respondeo dicendum quod, sicut supra
dictum est, actus unius virtutis vel vitii ordinatus ad finem alterius, assumit
speciem illius, sicut furtum quod propter adulterium committitur, transit in
speciem adulterii. Manifestum
est autem quod observatio castitatis secundum quod ordinatur ad cultum Dei, sit
actus religionis, ut patet in illis qui vovent et servant virginitatem, ut
patet per Augustinum, in libro de virginitate. Unde manifestum est quod etiam
luxuria, secundum quod violat aliquid ad divinum cultum pertinens, pertinet ad
speciem sacrilegii. Et secundum hoc, sacrilegium potest poni species luxuriae».
Cfr. Augustinus, De sancta
virginitate, 8 (PL 40, 400). back
(63) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 10,
ad 2 [45227]: «Ad secundum dicendum quod ibi [in
Decretis] enumerantur illa quae sunt species luxuriae secundum seipsa,
sacrilegium autem est species luxuriae secundum quod ordinatur ad finem
alterius vitii. Et potest concurrere
cum diversis speciebus luxuriae». back
(64)
Ivi, ad 3 [45228]: «Ad tertium dicendum quod
sacrilegium committitur in re sacrata. Res autem sacrata est vel persona
sacrata quae concupiscitur ad concubitum, et sic pertinet ad luxuriam. Vel quae
concupiscitur ad possidendum, et sic pertinet ad iniustitiam. Potest etiam ad
iram pertinere sacrilegium, puta si aliquis ex ira iniuriam inferat personae
sacrae. Vel, si gulose cibum sacratum assumat, sacrilegium committit […]». back
(65)
Ivi, a. 12, resp. [45242] (e si veda supra, nota 21, il
passo delle Sentenze in cui si sostiene che la fornicazione addirittura
«non aggiunge una qualche deformità al genere della lussuria»). In questa conclusione (sulla quale avremo modo di ritornare) il
«vizio contro natura» viene contrapposto a tutti gli altri peccati venerei:
«[…] Per alias autem luxuriae species praeteritur solum id quod est
secundum rationem rectam determinatum, ex praesuppositione tamen naturalium
principiorum […]». Si noti comunque che, come Tommaso spiega altrove allargando
di fatto lo schema, meno grave ancora della fornicatio simplex, e a
determinate condizioni addirittura solo veniale, è il «concubitus cum uxore qui
fit ex libidine»: cfr. supra, nota 39. back
(66)
Ibid.: «[…] Maior autem iniuria est si quis abutatur muliere alterius
potestati subiecta ad usum generationis, quam ad solam custodiam. Et ideo adulterium est gravius quam
stuprum. Et utrumque aggravatur per violentiam. Propter quod, raptus virginis
est gravius quam stuprum, et raptus uxoris quam adulterium. Et haec etiam omnia
aggravantur secundum rationem sacrilegii, ut supra dictum est». back
(67) Ibid.: «[…] Post quod est
incestus, qui, sicut dictum est, est contra naturalem reverentiam quam personis
coniunctis debemus […]». Questo passo precede in realtà quelli citati
nelle note 65 e 66: si noti che l’incesto non è compreso in quell’elenco,
essendo stato indicato, alla fine della prima parte del respondeo,
dedicata al vitium contra naturam (cfr. infra, nota 86), come
quello che segue in ordine di gravità i «vitia quae sunt contra naturam». Esso
viene così a costuire una sorta di gradino intermedio tra il vizio contro
natura e le specie di lussuria in cui c’è invece «presupposizione dei principi
naturali»: tenendo conto anche della graduatoria stilata nell’ad 4 (cfr. infra,
nota 80), esso si colloca così tra l’immunditia e il raptus uxoris.
back
(68) Ivi, q. 7, resp. [45200]: «Respondeo dicendum quod raptus, prout nunc
de eo loquimur, est species luxuriae. Et quandoque quidem in idem concurrit cum
stupro; quandoque autem invenitur raptus sine stupro; quandoque vero stuprum
sine raptu. Concurrunt quidem in idem, quando aliquis violentiam infert ad
virginem illicite deflorandam. Quae quidem violentia quandoque infertur
tam ipsi virgini quam patri, quandoque autem infertur patri, sed non virgini,
puta cum ipsa consentit ut per violentiam de domo patris abstrahatur. Differt
etiam violentia raptus alio modo, quia quandoque puella violenter abducitur a
domo parentum et violenter corrumpitur; quandoque autem, etsi violenter
abducatur, non tamen violenter corrumpitur, sed de voluntate virginis, sive
corrumpatur fornicario concubitu, sive matrimoniali. Qualitercumque enim
violentia adsit, salvatur ratio raptus. Invenitur autem raptus sine stupro,
puta si aliquis rapiat viduam vel puellam corruptam. Unde Symmachus Papa dicit,
“raptores viduarum vel virginum, ob immanitatem facinoris tanti, detestamur”.
Stuprum vero sine raptu invenitur, quando aliquis absque violentiae illatione
virginem illicite deflorat». Cfr.
Symmachus, Epist. 5 Ad
Caesarium Episc. (Mansi
VIII, 212). back
(69)
Si tratta di un’assenza che, a mio giudizio, può porre dei problemi a chi
esamini l’etica sessuale di Tommaso con l’intento di esaltarne il valore. Mi
sembra significativo il fatto che, secondo Lorenzo Pozzi, nel ratto «Tommaso
considera implicitamente contenute tutte le violenze compiute contro una donna
al fine di costringerla a un atto sessuale». Cfr. L. Pozzi, Castità e lussuria in Tommaso d’Aquino,
«Philo-logica. Rassegna di analisi linguistica ed ironia culturale» 5, n. 9
(1996), p. 25. back
(70) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 6,
resp. [45191]: «Respondeo dicendum quod ubi circa
materiam alicuius vitii occurrit aliqua specialis deformitas, ibi debet poni
determinata species illius vitii. Luxuria autem est peccatum circa venerea existens,
ut supra dictum est. In virgine autem sub custodia patris existente quaedam
deformitas specialis occurrit si corrumpatur. Tum ex parte puellae, quae, ex
hoc quod violatur, nulla pactione coniugali praecedente, impeditur a legitimo
matrimonio consequendo et ponitur in via meretricandi, a quo retrahebatur ne
signaculum virginitatis amitteret. Tum etiam ex parte patris, qui de eius
custodia sollicitudinem gerit, secundum illud Eccli. XLII [11], “super filiam
luxuriosam confirma custodiam, nequando faciat te in opprobrium venire
inimicis”. Et ideo manifestum est quod stuprum, quod importat illicitam
virginum deflorationem sub cura parentum existentium, est determinate luxuriae
species». back
(71) Ivi, ad 3 [45194]:
«[…] Habet autem duplicem iniuriam annexam. Unam quidem ex parte
virginis, quam etsi non vi corrumpat, tamen eam seducit; et sic tenetur ei
satisfacere. Unde dicitur Exod. XXII [16-17], “si seduxerit quis virginem nondum desponsatam, dormieritque cum
ea, dotabit eam, et habebit uxorem. Si autem pater virginis dare noluerit,
reddet pecuniam iuxta modum dotis quam virgines accipere consueverunt”. Aliam vero iniuriam facit patri
puellae. Unde et ei secundum legem
tenetur ad poenam. Dicitur enim Deut. XXII [28-29], “si invenerit vir puellam virginem, quae non habet
sponsum, et apprehendens concubuerit cum illa, et res ad iudicium venerit,
dabit qui dormivit cum ea patri puellae quinquaginta siclos argenti, et habebit
eam uxorem, et quia humiliavit illam, non poterit dimittere eam cunctis diebus
vitae suae”. Et hoc ideo, ne videatur ludibrium fecisse, ut
Augustinus dicit». Cfr.
Augustinus, Quaest. in Heptat.,
V, 34 (PL 34, 762). back
(72)
Si veda infra la parte iniziale del testo riportato nella nota 78. back
(73) Anche se,
per Tommaso, ogni lussurioso tende non alla generazione bensì al piacere,
compreso chi, rispettando i «principi naturali», di fatto non pone ostacolo al
nesso tra atto sessuale e procreazione: sul piano dell’intentio non
sembra dunque sussistere quell’abisso tra i due tipi di violazione dell’ordine
morale che il maestro francescano teorizza in rapporto alle conseguenze
oggettive dal punto di vista della finalità biologica. Cfr. Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 154, a. 11, arg. 3 e ad 3 [45231, 45236]: «Praeterea,
luxuria consistit circa actus ad generationem humanam ordinatos, ut ex supra
dictis patet. Sed vitium contra naturam consistit circa actus ex quibus non
potest generatio sequi. Ergo vitium contra naturam non est species luxuriae.
[…] Ad tertium dicendum quod luxuriosus non intendit generationem humanam, sed
delectationem veneream, quam potest aliquis experiri sine actibus ex quibus
sequitur humana generatio. Et hoc
est quod quaeritur in vitio contra naturam». back
(74)
Cfr. infra, nota 78. back
(75)
Con ciò alludo, in particolare, alla feroce repressione praticata nel corso del
XIX secolo, frutto di quella psichiatrizzazione della masturbazione che, per
usare le parole di Thomas Szasz, «è semplicemente l’etica cristiana
tradizionale tradotta nel linguaggio della medicina moderna». Cfr. T. S. Szasz, I manipolatori della
pazzia, Feltrinelli, Milano 1972, p. 232. back
(76) Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 154, a. 12, arg. 3 e ad 3 [45239-45245]: «Praeterea,
tanto aliquod peccatum videtur esse gravius, quanto exercetur in personam quam
magis diligere debemus. Sed secundum ordinem caritatis magis debemus diligere
personas nobis coniunctas, quae polluuntur per incestum, quam personas
extraneas, quae interdum polluuntur per vitium contra naturam. Ergo incestus
est gravius peccatum quam vitium contra naturam. […] Ad tertium dicendum quod
unicuique individuo magis est coniuncta natura speciei quam quodcumque aliud
individuum. Et ideo peccata quae fiunt contra naturam speciei, sunt graviora».
In quest’ottica una pratica contraccettiva, anche all’interno del matrimonio,
viene ad essere moralmente più grave di un rapporto incestuoso che non viola la
modalità normale dell’amplesso. back
(77)
Anche se, per la verità, lo stesso Agostino – citato da Tommaso – usa proprio quest’espressione a
proposito dei «flagitia quae sunt contra naturam»: cfr. infra, nota 89. back
(78) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 11,
resp. [45233]: «Respondeo dicendum quod, sicut supra
dictum est, ibi est determinata luxuriae species ubi specialis ratio
deformitatis occurrit quae facit indecentem actum venereum. Quod quidem potest esse dupliciter. Uno
quidem modo, quia repugnat rationi rectae, quod est commune in omni vitio
luxuriae. Alio modo, quia etiam, super hoc, repugnat ipsi ordini naturali
venerei actus qui convenit humanae speciei, quod dicitur vitium contra naturam.
Quod quidem potest pluribus modis
contingere. Uno quidem modo, si absque omni concubitu, causa delectationis
venereae, pollutio procuretur, quod pertinet ad peccatum immunditiae, quam
quidam mollitiem vocant. Alio modo, si fiat per concubitum ad rem non
eiusdem speciei, quod vocatur bestialitas. Tertio modo, si fiat per concubitum
ad non debitum sexum, puta masculi ad masculum vel feminae ad feminam, ut
apostolus dicit, ad Rom. I [26-27], quod dicitur sodomiticum vitium. Quarto, si
non servetur naturalis modus concumbendi, aut quantum ad instrumentum non
debitum; aut quantum ad alios monstruosos et bestiales concumbendi modos». Se
si confronta questo passo con quello riportato nella nota 80, pare che, a
dispetto della definizione iniziale (cfr. supra, nota 48 – e si veda il
passo di De malo citato nella nota 43) e anche di successive
affermazioni (si veda la parte finale del passo citato nella nota 73), siano di
fatto inseriti tra quelli contro natura anche degli atti da cui una generazione
può seguire, in quanto, pur violando una posizione ritenuta canonica (con l’uso
di posizioni considerate proprie degli animali bruti, che in questo caso
cessano di costituire un modello di naturalezza), mantengono comunque il debitum
vas. Non vale, dunque, tout court l’equazione ‘atti contro natura = atti
sessuali che non possono causare un concepimento’. E in effetti il tono
complessivo dei due ultimi articoli della q. 154 è quello di chi difende non
solo la funzione biologica della generazione, ma un insieme di regole di
comportamento definite come «ciò che secondo natura è stato fissato riguardo
agli atti sessuali»: si veda infra il passo citato nella nota 86. back
(79) Cfr. Bailey, Homosexuality and the Western Christian Tradition,
pp. 116-117. back
(80) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, ad 4 [45246]: «Ad quartum dicendum quod gravitas in
peccato magis attenditur ex abusu alicuius rei quam ex omissione debiti usus. Et
ideo inter vitia contra naturam infimum locum tenet peccatum immunditiae, quod
consistit in sola omissione concubitus ad alterum. Gravissimum autem est
peccatum bestialitatis, ubi non servatur debita species. Unde super illud Gen.
XXXVII [2], “accusavit fratres suos crimine pessimo”, dicit Glossa, “quod cum
pecoribus miscebantur”. Post hoc autem est vitium sodomiticum, ubi non servatur
debitus sexus. Post hoc autem est peccatum ex eo quod non servatur debitus
modus concumbendi. Magis autem si non sit debitum vas, quam si sit inordinatio
secundum aliqua alia pertinentia ad modum concubitus». La Glossa ordinaria
a Gen. 37, 2 di PL 113, 164 (Walafridus
Strabo, Liber Genesis)
non riporta questa interpretazione; ma cfr. PL 131, 113 (Remigius Antissiodorensis, Comm. in
Gen.) e Nicolaus de Lyra, Postilla super totam Bibliam, I,
Straßburg 1492, ripr. Minerva GmbH.,
Frankfurt/Main 1971, f. hx rb. back
(81)
Secondo Pozzi «l’uomo nella sua unità sente la maggiore malvagità del proprio atto
quando esso è causato non solo dal disprezzo di Dio che segue dall’eccessivo
amore di sé, ma anche dal disprezzo del prossimo. Di conseguenza tra i vizi
contro natura <Tommaso> condanna la masturbazione e la bestialità, ma
condanna ancora di più il vizio sodomitico e i modi con cui si hanno rapporti
sessuali innaturali, poiché non si usa il debito “vaso”» (Cfr. Pozzi, Castità e lussuria, p.
31). Non è, però, questo l’ordine di gravità proposto da Tommaso (che pure
viene citato in nota): ordine tracciato – come nota Bailey – nel solco di una
tradizione che comprende i Penitenziali, Pier Damiani e Leone IX (cfr. Bailey, Homosexuality, pp.
116-117). A sua volta Jordan rileva il “secondo posto” della sodomia, che
sembra escludere una particolare enfasi per questo «peccato contro natura»
rispetto agli altri tre (cfr. Jordan,
The Invention of Sodomy, p. 145). Riguardo a quest’ultimo punto, si veda
però infra, nota 110. back
(82)
Cfr. supra, note 5 e 32. back
(83) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12,
arg. 1 [45237]. back
(84) Questo è l’articolo 206 del
sillabo parigino: «Quod peccatum contra naturam, utpote abusus in coitu, licet
sit contra naturam speciei, non tamen est contra naturam individui»: cfr. Hissette, Enquête sur les 219 articles,
pp. 296-297. Nella
Questione De delectatione della Prima Secundae Tommaso si propone
di difendere l’idea espressa nell’Etica Nicomachea (VII, 6, 1148 b18)
secondo cui ci possono essere dei piaceri morbosi e contro natura, anche se,
per lo stesso Aristotele, tutto ciò che è violento reca tristezza: ciò vale,
spiega Tommaso, non soltanto per i piaceri peculiari dell’uomo, ma anche per
quelli corporei, compresi quelli derivanti dall’usus venereorum (come
mangiare altri esseri umani, giacere con animali o con altri maschi). Simpliciter
loquendo queste dilettazioni sono innaturali, ma per una «qualche
corruzione della natura» che si trova in certi individui, succede che per
costoro divengano «connaturali»: succede dunque che «ciò che è contro la natura
della specie, diventi per accidente naturale per questo individuo». Questa
corruzione può derivare da una malattia corporea o da una cattiva complessione,
ma nei casi sopra citati dipende da una corruzione a livello dell’anima, propter
consuetudinem. Thomas de Aquino,
Summa theol., I.II., q. 31, a. 7, sed contra e resp. [34883, 34884]: «Sed contra est quod philosophus dicit, in
VII Ethic., quod quaedam delectationes sunt aegritudinales et contra naturam. Respondeo
dicendum quod naturale dicitur quod est secundum naturam, ut dicitur in II
Physic. Natura autem in homine dupliciter sumi potest. Uno modo, prout
intellectus et ratio est potissime hominis natura, quia secundum eam homo in
specie constituitur. Et secundum hoc, naturales delectationes hominum dici
possunt quae sunt in eo quod convenit homini secundum rationem, sicut delectari
in contemplatione veritatis, et in actibus virtutum, est naturale homini. Alio
modo potest sumi natura in homine secundum quod condividitur rationi, id
scilicet quod est commune homini et aliis, praecipue quod rationi non obedit.
Et secundum hoc, ea quae pertinent ad conservationem corporis, vel secundum
individuum, ut cibus, potus, lectus, et huiusmodi, vel secundum speciem, sicut
venereorum usus, dicuntur homini delectabilia naturaliter. Secundum utrasque
autem delectationes, contingit aliquas esse innaturales, simpliciter loquendo,
sed connaturales secundum quid. Contingit enim in aliquo individuo corrumpi aliquod
principiorum naturalium speciei; et sic id quod est contra naturam speciei,
fieri per accidens naturale huic individuo; sicut huic aquae calefactae est
naturale quod calefaciat. Ita igitur contingit quod id quod est contra naturam
hominis, vel quantum ad rationem, vel quantum ad corporis conservationem, fiat
huic homini connaturale, propter aliquam corruptionem naturae in eo existentem.
Quae quidem corruptio potest esse vel ex parte corporis, sive ex aegritudine,
sicut febricitantibus dulcia videntur amara et e converso; sive propter malam
complexionem, sicut aliqui delectantur in comestione terrae vel carbonum, vel
aliquorum huiusmodi, vel etiam ex parte animae, sicut propter consuetudinem
aliqui, delectantur in comedendo homines, vel in coitu bestiarum aut
masculorum, aut aliorum huiusmodi, quae non sunt secundum naturam humanam». Non
mi pare che Boswell colga nel segno, quando inferisce da questo testo
un’indifferenza morale degli atti omosessuali, sicché Tommaso finirebbe per
condannarli come innaturali solo come «concessione al sentimento e al
linguaggio popolare» (Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 393-395). Più calzanti, anche se
forse non tutte condivisibili, mi sembrano invece le osservazioni di Jordan,
per il quale Tommaso manifesta una forte tendenza a collegare vizio sodomitico,
cannibalismo e rapporti con animali, a tal punto che giungerebbe a raggrupparli
tutti sotto la nozione di bestialitas o disposizione bestiale (cfr.
II.II., q. 154, a. 11, arg. 2
e ad 2
[45230, 45235]), mentre Aristotele – come registra lo
stesso Tommaso nell’esposizione dell’Ethica – colloca il concubitus
masculorum tra i desideri innaturali dovuti a malattia o consuetudine: il
vantaggio (dal punto di vista del domenicano) di questa cattiva lettura
verrebbe ad essere quello di presentare tale comportamento come orripilante e
incorreggibile (Jordan, The Invention of Sodomy, pp. 149-150). Sul «pericoloso
vicinato» di omosessualità, cannibalismo e bestialità cfr. anche Jacquart-Thomasset, Sexualité et
savoir médical, p. 215. back
(85)
Si pensi, ad esempio, ai Decretorum libri XX di Burcardo di Worms,
citati da Boswell a sostegno della sua tesi secondo cui «l’atteggiamento verso
l’omosessualità fu costantemente più tollerante per tutto il primo Medio Evo».
Cfr. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 244-245. back
(86) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, resp. [45242]: «Respondeo
dicendum quod in quolibet genere pessima est principii corruptio, ex quo alia
dependent. Principia autem rationis sunt ea quae sunt secundum naturam, nam
ratio, praesuppositis his quae sunt a natura determinata, disponit alia
secundum quod convenit. Et hoc
apparet tam in speculativis quam in operativis. Et ideo, sicut in speculativis
error circa ea quorum cognitio est homini naturaliter indita, est gravissimus
et turpissimus; ita in agendis agere contra ea quae sunt secundum naturam
determinata, est gravissimum et turpissimum. Quia ergo in vitiis quae sunt
contra naturam transgreditur homo id quod est secundum naturam determinatum circa
usum venereum, inde est quod in tali materia hoc peccatum est gravissimum […]».
back
(87)
Cfr. supra, nota 8. back
(88)
Si veda ad esempio Thomas de Aquino,
Summa theol., I.II., q. 72, a. 5, resp. [36575]: «[…] Quando
anima deordinatur per peccatum usque ad aversionem ab ultimo fine, scilicet
Deo, cui unimur per caritatem, tunc est peccatum mortale, quando vero fit
deordinatio citra aversionem a Deo, tunc est peccatum veniale. Sicut enim in
corporalibus deordinatio mortis, quae est per remotionem principii vitae, est
irreparabilis secundum naturam; inordinatio autem aegritudinis reparari potest,
propter id quod salvatur principium vitae; similiter est in his quae pertinent
ad animam […]»; ivi, II.II., q. 59, a. 4, resp. [41550]: «Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est cum
de differentia peccatorum ageretur, peccatum mortale est quod contrariatur
caritati, per quam est animae vita. Omne autem nocumentum alteri illatum ex se
caritati repugnat, quae movet ad volendum bonum alterius. Et ideo, cum
iniustitia semper consistat in nocumento alterius, manifestum est quod facere
iniustum ex genere suo est peccatum mortale». back
(89) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12,
ad 1 [45243]. Cfr. Augustinus,
Confessiones, III, 8 (PL 32, 689). back
(90)
Ivi, arg. 2 e ad 2 [45238, 45244]: «Praeterea, illa
peccata videntur esse gravissima quae contra Deum committuntur. Sed sacrilegium
directe committitur contra Deum, quia vergit in iniuriam divini cultus. Ergo
sacrilegium est gravius peccatum quam vitium contra naturam. […] Ad secundum
dicendum quod etiam vitia contra naturam sunt contra Deum, ut dictum est. Et
tanto sunt graviora quam sacrilegii corruptela, quanto ordo naturae humanae
inditus est prior et stabilior quam quilibet alius ordo superadditus». back
(91) Cfr. Chiffoleau, Contra naturam, p. 284 ss. back
(92) Cfr. L.J. Elders, Nature as the Basis of Moral Actions,
Jacques Maritain Center: Thomistic Institute, http://www.nd.edu/Departments/Maritain/ti01/elders.htm, il passo del testo che rinvia alla nota 53.
back
(93) Cfr. Contra Gent., Lib. 3, cap. 129 [26816-26827]. back
(94) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 71, a. 2,
resp. e ad 4 [36495, 36499]: «Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, vitium
virtuti contrariatur. Virtus autem uniuscuiusque rei consistit in hoc
quod sit bene disposita secundum convenientiam suae naturae, ut supra dictum
est. Unde oportet quod in qualibet re vitium dicatur ex hoc quod est disposita
contra id quod convenit naturae. Unde et de hoc unaquaeque res vituperatur, “a
vitio autem nomen vituperationis tractum creditur”, ut Augustinus dicit, in III de Lib. Arb. Sed considerandum est
quod natura uniuscuiusque rei potissime est forma secundum quam res speciem
sortitur. Homo autem in specie constituitur per animam rationalem. Et ideo id quod est contra ordinem
rationis, proprie est contra naturam hominis inquantum est homo; quod autem est
secundum rationem, est secundum naturam hominis inquantum est homo. “Bonum
autem hominis est secundum rationem esse, et malum hominis est praeter rationem
esse”, ut Dionysius dicit, IV
cap. de Div. Nom. Unde virtus humana, quae hominem facit bonum, et opus ipsius
bonum reddit, intantum est secundum naturam hominis, inquantum convenit
rationi, vitium autem intantum est contra naturam hominis, inquantum est contra
ordinem rationis. […] Ad quartum dicendum quod quidquid
est contra rationem artificiati, est etiam contra naturam artis, qua
artificiatum producitur. Lex autem aeterna comparatur ad ordinem rationis
humanae sicut ars ad artificiatum. Unde eiusdem rationis est quod vitium et
peccatum sit contra ordinem rationis humanae, et quod sit contra legem
aeternam. Unde Augustinus dicit, in III de Lib. Arb., quod “a Deo habent omnes
naturae quod naturae sunt, et intantum sunt vitiosae, inquantum ab eius, qua
factae sunt, arte discedunt”». Cfr. Augustinus,
De libero arbitrio, 14, 15 (PL 32, 1291); Dionysius, De div. nom., 4, 32 (PG 3, 733). back
(95)
Cfr. supra, nota 86. back
(96) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 94, a. 3, resp. [37600]: «Respondeo
dicendum quod de actibus virtuosis dupliciter loqui possumus, uno modo,
inquantum sunt virtuosi; alio modo, inquantum sunt tales actus in propriis
speciebus considerati. Si igitur loquamur de actibus virtutum inquantum sunt
virtuosi, sic omnes actus virtuosi pertinent ad legem naturae. Dictum est enim
quod ad legem naturae pertinet omne illud ad quod homo inclinatur secundum suam
naturam. Inclinatur autem unumquodque naturaliter ad operationem sibi
convenientem secundum suam formam, sicut ignis ad calefaciendum. Unde cum anima
rationalis sit propria forma hominis, naturalis inclinatio inest cuilibet
homini ad hoc quod agat secundum rationem. Et hoc est agere secundum virtutem. Unde secundum hoc, omnes actus virtutum
sunt de lege naturali, dictat enim hoc naturaliter unicuique propria ratio, ut
virtuose agat. Sed si loquamur de actibus virtuosis secundum seipsos, prout
scilicet in propriis speciebus considerantur, sic non omnes actus virtuosi sunt
de lege naturae. Multa enim secundum virtutem fiunt, ad quae natura non
primo inclinat; sed per rationis inquisitionem ea homines adinvenerunt, quasi
utilia ad bene vivendum»; ivi, a. 2, resp. [37592]: «Respondeo
dicendum quod, sicut supra dictum est, praecepta legis naturae hoc modo se
habent ad rationem practicam, sicut principia prima demonstrationum se habent
ad rationem speculativam, utraque enim sunt quaedam principia per se nota […]».
back
(97) Ivi, q. 95, a. 2, resp. [37642]: «Respondeo dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in
I de Lib. Arb., “non videtur esse lex, quae iusta non fuerit”. Unde inquantum
habet de iustitia, intantum habet de virtute legis. In rebus autem humanis
dicitur esse aliquid iustum ex eo quod est rectum secundum regulam rationis. Rationis autem prima regula est lex
naturae, ut ex supradictis patet. Unde omnis lex humanitus posita intantum habet
de ratione legis, inquantum a lege naturae derivatur. Si vero in aliquo, a lege
naturali discordet, iam non erit lex sed legis corruptio. Sed sciendum
est quod a lege naturali dupliciter potest aliquid derivari, uno modo, sicut
conclusiones ex principiis; alio modo, sicut determinationes quaedam aliquorum
communium. Primus quidem modus est
similis ei quo in scientiis ex principiis conclusiones demonstrativae
producuntur. Secundo vero modo simile est quod in artibus formae
communes determinantur ad aliquid speciale, sicut artifex formam communem domus
necesse est quod determinet ad hanc vel illam domus figuram. Derivantur ergo
quaedam a principiis communibus legis naturae per modum conclusionum, sicut hoc
quod est non esse occidendum, ut conclusio quaedam derivari potest ab eo quod
est nulli esse malum faciendum. Quaedam vero per modum determinationis, sicut
lex naturae habet quod ille qui peccat, puniatur; sed quod tali poena puniatur,
hoc est quaedam determinatio legis naturae. Utraque igitur inveniuntur in lege
humana posita. Sed ea quae sunt primi modi, continentur lege humana non tanquam
sint solum lege posita, sed habent etiam aliquid vigoris ex lege naturali. Sed
ea quae sunt secundi modi, ex sola lege humana vigorem habent». Cfr. Augustinus, De libero arbitrio,
I, 5 (PL 32, 1227). back
(98)
Id., Sententia
Ethic., Lib. 5, l. 12, n. 8 [73727]: «Est autem hic considerandum,
quod iustum legale sive positivum oritur semper a naturali, ut Tullius dicit in
sua rhetorica. Dupliciter tamen aliquid potest oriri a iure naturali. Uno modo
sicut conclusio ex principiis; et sic ius positivum vel legale non potest oriri
a iure naturali; praemissis enim existentibus, necesse est conclusionem esse;
sed cum iustum naturale sit semper et ubique, ut dictum est, hoc non competit
iusto legali vel positivo. Et ideo necesse est quod quicquid ex iusto naturali
sequitur, quasi conclusio, sit iustum naturale; sicut ex hoc quod est nulli
esse iniuste nocendum, sequitur non esse furandum, quod item ad ius naturale
pertinet. Alio modo oritur aliquid ex iusto naturali per modum determinationis;
et sic omnia iusta positiva vel legalia ex iusto naturali oriuntur. Sicut furem
esse puniendum est iustum naturale, sed quod sit etiam puniendum tali vel tali
poena, hoc est lege positum». Cfr. Cicero,
Rhetor., II, 53 (DD I, 165). back
(99) Cfr. Corpus Iuris Civilis:
Inst. I, 1; Dig. I, 1, 3. back
(100) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 94, a. 2, resp. [37592]: «[…] Hoc est ergo primum praeceptum legis, quod
bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum. Et super hoc fundantur
omnia alia praecepta legis naturae, ut scilicet omnia illa facienda vel vitanda
pertineant ad praecepta legis naturae, quae ratio practica naturaliter
apprehendit esse bona humana. Quia vero bonum habet rationem finis, malum autem
rationem contrarii, inde est quod omnia illa ad quae homo habet naturalem
inclinationem, ratio naturaliter apprehendit ut bona, et per consequens ut opere
prosequenda, et contraria eorum ut mala et vitanda. Secundum igitur ordinem
inclinationum naturalium, est ordo praeceptorum legis naturae. Inest enim primo
inclinatio homini ad bonum secundum naturam in qua communicat cum omnibus
substantiis, prout scilicet quaelibet substantia appetit conservationem sui
esse secundum suam naturam. Et secundum hanc inclinationem, pertinent ad legem
naturalem ea per quae vita hominis conservatur, et contrarium impeditur.
Secundo inest homini inclinatio ad aliqua magis specialia, secundum naturam in
qua communicat cum ceteris animalibus. Et secundum hoc, dicuntur ea esse de
lege naturali quae natura omnia animalia docuit, ut est coniunctio maris et
feminae, et educatio liberorum, et similia. Tertio modo inest homini inclinatio
ad bonum secundum naturam rationis, quae est sibi propria, sicut homo habet
naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de Deo, et ad hoc quod
in societate vivat. Et secundum hoc, ad legem naturalem pertinent ea quae ad
huiusmodi inclinationem spectant, utpote quod homo ignorantiam vitet, quod
alios non offendat cum quibus debet conversari, et cetera huiusmodi quae ad hoc
spectant». Nel commento all’Ethica (di poco successivo alla Prima
Secundae) le inclinazioni fondamentali sono ridotte a due, quella della
«natura comune all’uomo e agli altri animali» e quella «propria della natura
umana, in quanto cioè l’uomo è animale razionale»: cfr. infra, nota 105.
back
(101) Cfr. M.B. Crowe, «Saint Thomas and Ulpian’s Natural Law», in St.
Thomas Aquinas 1274-1974. Commemorative Studies, Pontifical Institute of
Mediaeval Studies, Toronto 1974, pp. 261-282: 276. back
(102)
Cfr. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 376-387. back
(103) Cfr. Crowe, Saint Thomas and Ulpian’s Natural Law, pp.
271-272. Lo sforzo di Alberto è quello di conciliare, riguardo alla
legge naturale, gli approcci di Aristotele e di Cicerone, a proposito del quale
ultimo egli sottolinea che l’innata vis è riferita non alla natura
animale bensì a quella razionale dell’uomo (anche se per il suo commento all’Etica
Nicomachea si danno pure uno ius naturae comune a tutti gli esseri
ed uno comune a uomo e animali: cfr. L.
Sileo, «Natura e norma. Dalla “Summa Halensis” a Bonaventura», in Etica
e politica: le teorie dei frati mendicanti nel Due e Trecento, Centro
italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1999, pp. 29-58: 39). back
(104)
La tripartizione (o la bipartizione) delle «inclinazioni naturali» per
determinare l’ordine dei precetti è a mio giudizio di grande rilevanza nella
dottrina tommasiana della legge di natura, anche se c’è chi – come Ralph Mc
Inerny – l’ha decisamente trascurata, sottolineando viceversa il passo di I.II.
91 2 ad3 dove si afferma che le creature irrazionali partecipano della legge
eterna, ma nel loro caso si può parlare di lex solo per similitudine
(cfr. R. Mc Inerny, «The Meaning
of Naturalis in Aquinas’ Theory of Natural Law», in La filosofia della
natura nel Medioevo. Atti del terzo Congresso internazionale di Filosofia
medievale, Vita e Pensiero, Milano 1966, pp. 560-565). Lo stesso Odon
Lottin non concede ampio spazio al debito di Tommaso verso la formula di
Ulpiano (cfr. O. Lottin, «La loi
naturelle depuis le début du XIIe siècle jusqu’a Saint Thomas d’Aquin», in Id., Psychologie et morale aux XIIe
et XIIIe siècles, II, 1, Abbaye du Mont César - J. Duculot,
Louvain-Gembloux 1948, pp. 71-99: 96) e neppure, più recentemente, lo fa Pamela
Hall (cfr. P.M. Hall, Narrative
and the Natural Law. An
Interpretation of Thomistic Ethics, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana 1994, p. 32 ss.). Ciò
detto, non si può negare che Tommaso, in sintonia con i propri principi
filosofici, trovi modo anche di far valere in campo morale il primato della
dimensione peculiarmente umana: quando, ad esempio, ispirandosi all'Ethica
e alla Rhetorica di Aristotele, enfatizza il valore dei desideri propri
degli uomini, capaci di «pensare qualche cosa come buona e conveniente al di là
di quello che la natura (comune all'uomo e agli altri animali) richiede»: si
tratta di concupiscentiae cum ratione e supra naturales che, tra
l’altro, possono anch'esse –
come quelle irrationales e naturales – riguardare l'appetito sensitivo. Cfr. Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 30, a. 3, sed
contra, resp.
e ad 3
[34818, 34819, 34822] (dove, a mio giudizio, è notevole l’accezione non
teologica, e dunque non negativa di ‘concupiscenza’): testo cui, ovviamente,
Boswell attribuisce una notevole importanza (cfr. Boswell, Cristianesimo,
tolleranza, omosessualità,
pp. 392-394). back
(105)
Thomas de Aquino, Sententia Ethic., Lib. 5, l. 12, n. 4 [73723]: «Est
autem considerandum, quod iustum naturale est ad quod hominem natura inclinat. Attenditur autem in homine duplex natura.
Una quidem, secundum quod est animal, quae est sibi aliisque animalibus
communis; alia autem est natura hominis quae est propria sibi inquantum est
homo, prout scilicet secundum rationem discernit turpe et honestum. Iuristae
autem illud tantum dicunt ius naturale, quod consequitur inclinationem naturae
communis homini et aliis animalibus, sicut coniunctio maris et feminae,
educatio natorum, et alia huiusmodi. Illud autem ius, quod consequitur propriam
inclinationem naturae humanae, inquantum scilicet homo est rationale animal,
vocant ius gentium, quia eo omnes gentes utuntur, sicut quod pacta sint
servanda, quod legati etiam apud hostes sint tuti, et alia huiusmodi. Utrumque autem horum comprehenditur
sub iusto naturali, prout hic a philosopho accipitur». back
(106)
Cfr. Id., Summa theol., II.II.,
q. 64, a. 2, ad 3 [41761], e a. 5,
resp. [41784]]. Non è questo il luogo per un’analisi
dettagliata dell’uso dell’espressione ‘contra naturam’ lungo tutta
l’opera di Tommaso. Certamente non si tratta di un uso univoco e costante, e si
danno anche casi in cui vengono così chiamati peccati non appartenti all’ambito
degli atti venerei non procreativi: così ad esempio in IV Sent., d. 37, q. 2, a. 2, ad 2 [20392] il
maestro domenicano afferma che «gravius est occidere matrem, quam uxorem, et
magis contra naturam», e ivi, d. 31, q.
2, a. 3, expos. [19830] dice che è contro natura l’aborto (di un embrione
cui non sia stata ancora infusa l’anima razionale), pur dichiarandolo meno
grave dell’omicidio; per le Collationes
de decem praeceptis, a. 7 [86734] ogni omicidio non soltanto è contro la carità, ma
anche contro la natura, in quanto ogni animale ama il suo simile; e a sua volta
la menzogna è definita «innaturale» in II.II.,
q. 110, a. 3, resp. [43664]. Ciò non toglie, tuttavia, che la tendenza
largamente prevalente sia di riservare l’espressione alla sodomia e agli altri
peccati di lussuria a questa accomunati. back
(107)
Si vedano, ad esempio, il secondo passo citato nella nta 18 e il testo cui si
riferisce la nota 94. back
(108) Elders, Nature as the
Basis of Moral Actions, il passo che rinvia alle note 60 e 61. back
(109) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 94, a. 3, arg. 2 [37597]: «Praeterea, omnia peccata
aliquibus virtuosis actibus opponuntur. Si igitur omnes actus virtutum sint de
lege naturae, videtur ex consequenti quod omnia peccata sint contra naturam.
Quod tamen specialiter de quibusdam peccatis dicitur». back
(110) Ivi, ad 2 [37602]:
«Ad secundum dicendum quod natura hominis potest dici vel illa quae est
propria homini, et secundum hoc, omnia peccata, inquantum sunt contra rationem,
sunt etiam contra naturam, ut patet per Damascenum, in II libro. Vel illa quae
est communis homini et aliis animalibus, et secundum hoc, quaedam specialia
peccata dicuntur esse contra naturam; sicut contra commixtionem maris et
feminae, quae est naturalis omnibus animalibus, est concubitus masculorum, quod
specialiter dicitur vitium contra naturam». Cfr. Ioannes Damascenus, De fide orth., II, 4, 30 (PG, 94,
876 e 976), citato da Tommaso molte volte, anche se per lo più all’interno di
obiezioni. Si noti anche quanto Tommaso, nella Secunda Secundae,
sostiene alla fine della Questione sulle varie specie di lussuria, e cioè che,
«quia ergo in vitiis quae sunt contra naturam transgreditur homo id quod est
secundum naturam determinatum circa usum venereum, inde est quod in tali
materia hoc peccatum est gravissimum» (cfr. supra, nota 86): se
l’espressione limitativa ‘in tali materia’ sembra voler escludere che il vitium
contra naturam sia il peccato più grave in assoluto, la prima parte
conferma che i vitia contra naturam s’identificano con quelli che
violano le norme naturali in campo sessuale. back
(111)
Cfr. supra, nota 96. back
(112) Cfr. Crowe, Saint Thomas and Ulpian’s Natural Law, pp.
281-282. Ciò non vuol dire che in Alberto l’abbandono della formula
ulpianea comporti una forza minore nel condannare la sodomia, da lui più volte
stigmatizzata come contraria alla grazia, alla ragione e alla natura: cfr. Jordan, The Invention of Sodomy,
p. 125 ss. back
(113)
De malo, q. 15, a. 2, arg. 14 e ad 14 [63420, 63441]: «Praeterea,
manifestum est quod ex concubitu mulieris quae est sterilis vel vetula,
generatio prolis sequi non potest. Sed tamen hoc quandoque fieri potest sine
peccato mortali in statu matrimonii. Ergo etiam alii actus luxuriae ex quibus
non sequitur generatio et debita educatio prolis, possunt esse absque peccato
mortali. […] Ad decimumquartum dicendum, quod lex
communis datur non secundum particularia accidentia, sed secundum communem
considerationem; et ideo dicitur actus ille esse contra naturam in genere
luxuriae, ex quo non potest sequi generatio secundum communem speciem actus;
non autem ille ex quo non potest sequi propter aliquod particulare accidens,
sicut est senectus vel infirmitas». back
(114)
Cfr. ivi, q. 15, arg. 13
e ad 13
[63420, 63440]; Id., Summa
theol., II.II.,
q. 152, a.2 [45051] (Utrum virginitas sit illicita)
e a. 4
[45071] (Utrum virginitas sit excellentior matrimonio).
Mi sembra fuori strada Mark Jordan quando afferma (The Invention of Sodomy,
p. 157) che Tommaso, per ammettere la verginità come valore, dovette
ricorrere alla legge divina che sospende quella naturale: mi riferisco
soprattutto alla Summa Theologiae, dove invero la difficoltà non viene
risolta contrapponendo un «tempo della grazia» a quello in cui era umanamente e
divinamente doveroso per tutti provvedere alla moltiplicazione del genere
umano, bensì appellandosi all’Etica Nicomachea e al “naturale” primato
della contemplazione sugli altri beni dell’uomo, oltre che individuando, quale
destinatario del ‘Crescite et multiplicamini’, non ciascun individuo
bensì la «moltitudine degli uomini», con conseguente divisione delle funzioni.
Sul contemperamento di generazionismo e ascetismo nel pensiero cristiano dei
primi secoli, si possono, tra l’altro, consultare: La donna nel pensiero cristiano delle origini, a c. di U. Mattioli, Marietti, Genova 1992; P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi
secoli cristiani, (ed. or. New York 1988), Einaudi, Torino 1992; P.F. Beatrice, Tradux peccati. Alle fonti della dottrina agostiniana del peccato
originale, Vita e Pensiero, Milano 1978. back
(115) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 73, a. 5, resp. [36648]: «Respondeo
dicendum quod peccata spiritualia sunt maioris culpae quam peccata carnalia.
Quod non est sic intelligendum quasi quodlibet peccatum spirituale sit maioris
culpae quolibet peccato carnali, sed quia, considerata hac sola differentia
spiritualitatis et carnalitatis, graviora sunt quam cetera peccata, ceteris
paribus. Cuius ratio triplex potest assignari. Prima quidem ex parte subiecti.
Nam peccata spiritualia pertinent ad spiritum, cuius est converti ad Deum et ab
eo averti, peccata vero carnalia consummantur in delectatione carnalis
appetitus, ad quem principaliter pertinet ad bonum corporale converti. Et ideo
peccatum carnale, inquantum huiusmodi, plus habet de conversione, propter quod
etiam est maioris adhaesionis, sed peccatum spirituale habet plus de aversione,
ex qua procedit ratio culpae. Et ideo peccatum spirituale, inquantum huiusmodi,
est maioris culpae. Secunda ratio potest sumi ex parte eius in quem peccatur.
Nam peccatum carnale, inquantum huiusmodi, est in corpus proprium; quod est
minus diligendum, secundum ordinem caritatis, quam Deus et proximus, in quos
peccatur per peccata spiritualia. Et ideo peccata spiritualia, inquantum
huiusmodi, sunt maioris culpae. Tertia ratio potest sumi ex parte motivi. Quia
quanto est gravius impulsivum ad peccandum, tanto homo minus peccat, ut infra
dicetur. Peccata autem carnalia habent vehementius impulsivum, idest ipsam
concupiscentiam carnis nobis innatam. Et ideo peccata spiritualia, inquantum
huiusmodi, sunt maioris culpae». Si noti, tuttavia, che la graduatoria di
gravità tra peccati spirituali e carnali è presentata con una limitazione: ‘ceteris
paribus’, per cui ci possono essere di fatto peccati classificabili come
carnali più gravi di peccati classificabili come spirituali. Che in realtà, già
prima di Tommaso, sia entrata in crisi una netta divaricazione tra questi due
tipi di peccato, si può trovare illustrato nel contributo di Silvana Vecchio al
presente numero di «Etica e politica». back
(116)
Cfr. supra, nota 115. back
(117)
Cfr. supra, nota 26. back
(118) Cfr. Chiffoleau, Contra naturam, p. 272. back
(119)
Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 154, a. 12, ad 1 [45243]: si veda supra
il testo che rimanda all nota 89. back
(120)
Ivi, ad 2 [45244]: cfr. supra, nota 90. back
(121)
Thomas de Aquino, Summa theol.,
II.II., q. 94 a. 3 arg. 3, ad 3 [43027, 43034]: «Praeterea,
minora mala maioribus malis puniri videntur. Sed peccatum idololatriae punitum
est peccato contra naturam, ut dicitur Rom. I [23 ss:]. Ergo peccatum contra
naturam est gravius peccato idololatriae. […] Ad tertium dicendum quod quia de
ratione poenae est quod sit contra voluntatem, peccatum per quod aliud punitur
oportet esse magis manifestum, ut ex hoc homo sibi ipsi et aliis detestabilis
reddatur, non autem oportet quod sit gravius. Et secundum hoc, peccatum contra
naturam minus est quam peccatum idololatriae, sed quia est manifestius, ponitur
quasi conveniens poena peccati idololatriae, ut scilicet, sicut homo per
idololatriam pervertit ordinem divini honoris, ita per peccatum contra naturam
propriae naturae confusibilem perversitatem patiatur». Si noti che, di per sé,
il peccato contro natura rimane pur sempre meno grave del peccato di idolatria.
back
(122)
Cfr. Chiffoleau, Contra naturam, p. 292 e
passim. back
(123)
Si tratta di una distinzione che Tommaso attribuisce al De summo bono di
Isidoro (Summa
theol., I.II., q. 72, a. 4, sed contra [36566]. Sostenuta nel XII secolo dalla Summa Sententiarum,
tale classificazione – come nota Carla Casagrande nel suo contributo al
presente numero di «Etica e politica» –
viene utilizzata sempre più frequentemente nella trattazione dei diversi
peccati riconducibili a ciascuno dei vizi capitali. In Tommaso essa pare
rispondere al bisogno di centrare il discorso morale sulla carità e, in virtù
del fatto che nelle persone-oggetto del peccato vengono individuati i fini
degli atti umani (cfr. infra, nota 125), può comporsi con l’istanza,
decisamente più “filosofica”, di leggere vizi (e virtù) nell’ottica teleologica
di «ciò che (non) conviene alla natura» (cfr. il testo riportato supra,
nella nota 94). back
(124) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 73, a. 2, resp. [36624]: «Respondeo
dicendum quod opinio Stoicorum fuit, quam Tullius prosequitur in paradoxis,
quod omnia peccata sunt paria. Et ex hoc etiam derivatus est quorundam
haereticorum error, qui, ponentes omnia peccata esse paria, dicunt etiam omnes
poenas Inferni esse pares. Et quantum ex verbis Tullii perspici potest, Stoici
movebantur ex hoc quod considerabant peccatum ex parte privationis tantum,
prout scilicet est recessus a ratione, unde simpliciter aestimantes quod nulla
privatio susciperet magis et minus, posuerunt omnia peccata esse paria». Cfr. Cicero, Paradoxa, III (DD I,
545). back
(125) Ivi, q. 73, a. 9, resp. [36680]:
«Respondeo dicendum quod persona in quam peccatur, est quodammodo obiectum
peccati. Dictum est autem supra quod prima gravitas peccati attenditur ex parte
obiecti. Ex quo quidem tanto attenditur maior gravitas in peccato, quanto
obiectum eius est principalior finis. Fines autem principales humanorum actuum
sunt Deus, ipse homo, et proximus, quidquid enim facimus, propter aliquod horum
facimus; quamvis etiam horum trium unum sub altero ordinetur. Potest igitur ex
parte horum trium considerari maior vel minor gravitas in peccato secundum
conditionem personae in quam peccatur […]». back
(126) Ivi, q. 73, a. 3, resp. [36632]: «[…] Unde oportet etiam quod peccatum sit tanto
gravius, quanto deordinatio contingit circa aliquod principium quod est prius
in ordine rationis. Ratio autem ordinat omnia in agibilibus ex fine. Et
ideo quanto peccatum contingit in actibus humanis ex altiori fine, tanto
peccatum est gravius. Obiecta autem
actuum sunt fines eorum, ut ex supradictis patet. Et ideo secundum diversitatem
obiectorum attenditur diversitas gravitatis in peccatis. Sicut patet quod res
exteriores ordinantur ad hominem sicut ad finem; homo autem ordinatur ulterius
in Deum sicut in finem. Unde peccatum quod est circa ipsam substantiam hominis,
sicut homicidium est gravius peccato quod est circa res exteriores, sicut
furtum; et adhuc est gravius peccatum quod immediate contra Deum committitur,
sicut infidelitas, blasphemia et huiusmodi. Et in ordine quorumlibet horum
peccatorum unum peccatum est gravius altero, secundum quod est circa aliquid
principalius vel minus principale. Et quia peccata habent speciem ex obiectis,
differentia gravitatis quae attenditur penes obiecta, est prima et principalis,
quasi consequens speciem». back
(127) Ivi, q. 72, a. 4, resp. [36567]: «[…] Horum autem ordinum secundus continet primum, et
excedit ipsum. Quaecumque enim continentur sub ordine rationis, continentur sub
ordine ipsius Dei, sed quaedam continentur sub ordine ipsius Dei, quae excedunt
rationem humanam, sicut ea quae sunt fidei, et quae debentur soli Deo. Unde qui
in talibus peccat, dicitur in Deum peccare, sicut haereticus et sacrilegus et
blasphemus. Similiter etiam secundus ordo includit tertium, et excedit ipsum.
Quia in omnibus in quibus ordinamur ad proximum, oportet nos dirigi secundum
regulam rationis, sed in quibusdam dirigimur secundum rationem quantum ad nos
tantum, non autem quantum ad proximum. Et quando in his peccatur, dicitur homo
peccare in seipsum, sicut patet de guloso, luxurioso et prodigo. Quando vero
peccat homo in his quibus ad proximum ordinatur, dicitur peccare in proximum,
sicut patet de fure et homicida […]». back
(128)
Si veda il testo riportato nella nota 127. back
(129)
Cfr. supra, nota 90. back
(130)
Cfr. Thomas de Aquino, Summa
theol., II.II. q. 10, a. 1, ad 1 [39182]: «Ad primum
ergo dicendum quod habere fidem non est in natura humana, sed in natura humana
est ut mens hominis non repugnet interiori instinctui et exteriori veritatis
praedicationi. Unde infidelitas secundum hoc est contra naturam». back
(131) Cfr. supra,
nota 122. back