Etica & Politica / Ethics & Politics, 2002, 2
http://www.units.it/dipfilo/etic_e_politica/2002_2/indexcova.html

 

 

Natura e persona nell'etica sessuale di Tommaso d'Aquino

 

Luciano Cova

Università di Trieste

 

 

In un saggio dedicato all'invenzione del termine e del concetto di ‘sodomia’ nel corso del medioevo, Mark Jordan rileva l’assenza in Tommaso d’Aquino di una categorizzazione della sessualità che oltrepassi i limiti di una «teleologia animale»: la categoria di ‘lussuria’ si costituisce esclusivamente in rapporto alla finalità procreativa, con una restrizione che ai nostri occhi appare «at best quaint, at worse tyrannical» (1). È tuttavia lecito, a mio giudizio, chiedersi se la dottrina tommasiana riguardante l’usus venereorum sia sempre rigidamente coerente con questa impostazione biologica, o se invece altri criteri ed esigenze vi entrino, più o meno surrettiziamente. La domanda può riguardare, in positivo, ulteriori fini che eventualmente concorrano a giustificare l’atto coniugale (2) e, in negativo, tutte le proibizioni, i mille tabù teorizzati: se cioè siano effettivamente pensate e logicamente organizzate soltanto in relazione alla conservazione della specie umana, o se in qualche modo entri in gioco, quale limite, anche il bene dei singoli, e in particolare il rispetto delle persone (3).

Si tratta, per la verità, di una domanda pericolosa, in quanto potrebbe dare la stura a letture ideologiche e militanti, o perlomeno attualizzanti, della storia dottrinale: per un verso sforzandosi, con intento apologetico, di cercare in Tommaso le radici di quel tentativo di integrare il concetto di persona nei valori dell’etica sessuale che sembra contraddistinguere parte del pensiero cattolico contemporaneo (4); per un altro, al contrario, polemicamente limitandosi ad enfatizzare, senza sfumature problematiche, l’arcaicità di una dottrina morale che, nel rivendicare i diritti della “natura”, mira di fatto – da parte di chi oggi la ripropone – a perpetuare un modello educativo e sociale incapace di accogliere valori ormai largamente condivisi nella nostra cultura.

Tuttavia è una domanda lecita, nel limite in cui non è imposta dal di fuori, bensì sollecitata in qualche modo dai testi stessi di Tommaso: sin dalla Summa contra Gentiles (III, cap. 122) viene infatti affrontata in maniera esplicita l’obiezione di chi sembra muoversi nell’ottica di ridurre la ratio culpae dei peccati «venerei» all’offesa di un’altra persona. Chiedersi se la «fornicazione» (per continuare a usare la terminologia medievale) costituisca un disvalore anche quando non sia accompagnata da alcuna forma di violenza verso altri non è dunque una nostra indebita proiezione, ma rientra a pieno titolo nell’ambito della cultura medievale, per lo meno come provocazione di un’etica naturalistica, goliardica e libertina, contrapposta alla morale dominante e ufficiale, radicata nella sacra Scrittura e codificata nelle scuole teologiche.

Scopo del presente lavoro è, perciò, tentare una rilettura in quest'ottica dei più importanti testi tommasiani, dalla quale possano emergere spunti problematici per ulteriori approfondimenti. Per quanto concerne fonti, debiti e innovazioni di Tommaso nei riguardi della tradizione dottrinale del medioevo latino, mi limiterò in questo breve excursus ad alcune notazioni essenziali. Rinuncerò in particolare ad un confronto dettagliato con gli altri teologi parigini duecenteschi, soprattutto con Alberto Magno, che costituirebbe un elemento irrinunciabile se questo aspetto del pensiero tommasiano fosse oggetto di uno studio storico completo.

 

1. La fornicatio simplex nella Summa contra Gentiles

 

L’obiezione fondata sulla mancanza di un danno inferto ad altri viene riferita e confutata allo scopo di illustrare la ragione per la quale, secondo il maestro domenicano, deve venir considerata sempre peccato la fornicatio simplex (e cioè, come vedremo, il rapporto sessuale, praticato nelle modalità dovute ma al di fuori del matrimonio, tra un uomo e una donna liberi e consenzienti). Alcuni, dice Tommaso senza meglio precisare, ritengono non si tratti di peccato perché in tal caso non si fa ingiuria né alla donna né ad altri: ella infatti lo fa di sua volontà e gradimento, e d’altra parte non ci sono uomini (s’intende: il marito o il padre) che vengano offesi in quanto esercitanti una potestà nei suoi confronti (5). Secondo costoro nell’emissione del seme non vi è più peccato di quanto ve ne sia nell’emissione di altri umori superflui (6).

‘Quod simplex fornicatio, utpote soluti cum soluta, non est peccatum’ sarà anche una delle proposizioni (la n° 205) condannate da Stefano Tempier nel sillabo del 1277, la fonte o le fonti della quale non è però facile individuare. Roland Hissette (7) nota che idee di questo tipo sembrano estranee a Sigieri di Brabante e all’aristotelismo radicale, mentre solo in parte si possono richiamare al De amore di Andrea il Cappellano (il quale ammette la pratica dell’amore «misto», giudicandolo però inferiore all’amore «puro» e affermando che la fornicazione è lesiva del prossimo e del Re celeste): piuttosto, come fonte filosofica, si potrebbe pensare a Mosè Maimonide, cui Egidio Romano negli Errores philosophorum rimprovera di aver insegnato che la fornicazione è peccato ratione prohibitionis ma non jure naturali, mentre, a livello letterario, nel secondo Roman de la Rose (composto comunque negli anni immediatamente successivi alla morte di Tommaso) si lascia intendere che l’unione libera è degna di lode in quanto obbedisce alle leggi della natura.

Si noti in ogni caso che, mentre la proposizione condannata a Parigi si limita a negare il disvalore morale della fornicazione senza darne giustificazione alcuna, l’obiezione affrontata nella Contra Gentiles si fonda precisamente sull’assenza di iniuria (verso la donna, il padre o il marito). In un’ottica simile si collocano poi anche due possibili risposte, che il maestro domenicano formula ma respinge in quanto insufficienti: vale a dire che nella fornicatio simplex vi è perlomeno offesa a Dio (che la vieta), oppure al prossimo che viene scandalizzato. Solamente in quanto contrari al «bene dell’uomo», rileva Tommaso in coerenza con l’intonazione finalistica e naturale della sua etica, gli atti umani offendono Dio, e d’altra parte lo scandalo altrui, che di per sé può riguardare anche atti leciti, costituisce un elemento meramente accidentale (8): il problema dunque è di dimostrare che la fornicazione in se stessa è peccato, in quanto si oppone al fine stesso della natura umana.

A questo scopo (e perciò in una chiave nettamente contraria a integrare elementi personalistici, considerati del tutto estrinseci) viene delineato, in maniera sintetica ma chiarissima, il quadro di fondo di un’etica sessuale tutta centrata sulla finalizzazione naturale del seme non all’individuo ma alla conservazione della specie. Se il male è quanto allontana dal fine dovuto, ciò vale anche per ogni singola parte e per ogni singolo atto dell’uomo, e dunque anche per il seme e per la sua emissione. Ma mentre per il bene dell’uomo gli altri umori superflui devono semplicemente venire espulsi (in vista della conservazione dell’individuo), il seme dev’essere emesso soltanto ad generationis utilitatem (9).

Risulta perciò contraria al bene dell’uomo (e, se volontaria, peccato) ogni emissione di seme dalla quale «non possa seguire una generazione» (se non per motivi accidentali, come la sterilità della donna). Sino a questo punto del ragionamento, è chiaro, non sono ancora condannati gli atti di fornicatio simplex (e molti altri, come l’adulterio), bensì soltanto «omnis emissio seminis sine naturali coniunctione maris et feminae», i peccati che «contra naturam dicuntur» (10). Con quest’ultima espressione Tommaso dimostra di collegarsi ad una tradizione dottrinale e lessicale, su cui avrò modo di ritornare esaminando alcuni passi della Secunda Secundae. Nella Contra Gentiles si limita a proporre alcune esemplificazioni, lì dove vuole mostrare che comportamenti di questo tipo non sono soltanto contrari alla ragione, ma vengono anche condannati nelle Scritture (11).

Si noti che i passi citati (tratti dal Levitico e dalla prima Lettera ai Corinti) vietano gli accoppiamenti tra uomini e con gli animali, oltre a quella «mollezza» che Tommaso verisimilmente identifica con la masturbazione maschile (12). Forse non è casuale l’omissione dei luoghi in cui vengono divinitus proibite le pratiche omosessuali femminili, la cui inammissibilità non sembra risultare con evidenza dal quadro «razionale» sopra delineato, se si tiene presente che, nella prospettiva rigidamente aristotelica adottata dal maestro domenicano in campo biologico, le donne propriamente parlando non emettono seme (13). E in effetti (anche a prescindere dalla posizione di Tommaso, che comunque nella Somma teologica sarà esplicito nel condannare il «vizio sodomitico» al femminile, con l’opportuna citazione paolina tratta dalla Lettera ai Romani) (14) nella cultura medievale si possono trovare tracce di una parziale tolleranza nei confronti di comportamenti devianti, quali i rapporti sessuali tra donne e soprattutto l’autoerotismo femminile, che non comportano alcuna dispersione di seme maschile: questo rimane una sorta di sacrario privilegiato della natura umana anche lì dove, nel solco delle dottrine mediche di Galeno e di Avicenna, si riconosce l’esistenza di uno «sperma femminile» dotato di una certa virtù generativa (15).

Ritornando al filo del discorso tommasiano, perché l’emissione del seme sia completamente ordinata al bonum hominis non è però sufficiente che non venga impedita una possibile generazione, ma è necessario che inoltre possano seguire un’adeguata nutrizione e l’educazione della prole (16). A tale scopo, nel caso di molti animali (come ad esempio i cani) è sufficiente la femmina, ma in altri («alcuni uccelli», dato il modo in cui vengono nutriti i loro piccoli, e soprattutto l’uomo, date le molteplici necessità della vita umana) è necessario che il maschio continui a rimanere insieme con la femmina: «è dunque conforme alla natura umana che, dopo l’accoppiamento, l’uomo conviva con la donna, anziché allontanarsene subito per accostarsi indifferentemente a qualunque altra, come avviene nel caso di quelli che praticano la fornicazione» (17). Tommaso si dilunga nell’illustrare i motivi per i quali è necessaria la compresenza dell’uomo: si tratta non solo di nutrire il corpo, ma di educare l’anima attraverso un lungo processo di istruzione che, tra l’altro, al momento opportuno richiede anche adeguati interventi repressivi. In conclusione, è naturale per l’uomo quella «duratura società» che chiamiamo matrimonio, mentre è contrario al suo bene (ed è perciò peccato) il «coito fornicario» (18). Non mancano, com’è ovvio, i passi biblici per confermare l’illiceità di qualsiasi rapporto sessuale che non sia con la propria moglie (19).

Tommaso precisa che ogni emissione di seme disordinata, vale a dire praeter debitum generationis et educationis finem, è peccato grave, poiché arreca (a differenza di quanto avviene nell’uso improprio di altre parti del corpo umano) un forte impedimento al bene dell’uomo, contrastando con la finalità della conservazione della specie: in una scala di gravità, questo genere di peccati occupa il secondo posto dopo l’omicidio, che consiste nel distruggere una natura umana già esistente in atto (20).

Non viene invece qui proposta una graduatoria interna al genere, quale potremo trovare invece nella Somma teologica. È chiaro, comunque, che sono considerati più gravi i peccati lesivi della procreazione nel suo aspetto schiettamente biologico. Si possono, a questo proposito, notare alcune sfumature linguistiche con cui sembra affacciarsi una tensione che si avrà modo di rilevare nell’opera maggiore: se in qualche modo tutti i peccati, nell’ottica rigorosamente teleologica del maestro domenicano, dovrebbero essere considerati «contro natura», in quanto contrastano con il fine naturale dell’uomo, questa espressione viene accuratamente riservata ai peccati con i quali s’impedisce la finalizzazione del seme alla generazione, mentre ai peccati che si limitano ad impedire un’adeguata educazione della prole concepita (così come anche al peccato venereo nella sua generalità) viene imputato solamente di «essere contro il bene dell’uomo» o di «ripugnare al bene della natura (umana)». Ciò avviene, chiaramente, allo scopo di isolare alcuni comportamenti umani (masturbazione, omosessualità, «bestialità») in un’area di indicibile, «nefanda» gravità, nel solco – come si sostiene comunemente – di una tradizione religiosa, quella giudaico-cristiana, antica e consolidata (21), o – come vorrebbero alcuni studiosi – sotto la pressione di una svolta culturale abbastanza recente (22).

Si può ancora notare, a proposito del capitolo della Contra Gentiles preso in esame, quel riferimento al comportamento monogamo di «alcuni uccelli» («tutti gli uccelli» si dirà nella Secunda Secundae) (23) che rivela in Tommaso un interesse morale per il comportamento degli animali: atteggiamento diffuso nella cultura medievale e in sintonia, come avremo occasione di vedere, con la sua fedeltà alla formula di Ulpiano a proposito della «legge naturale», che accomuna uomini e bruti. E si può rilevare, in conclusione, la ferrea coerenza nella ricerca di una ratio propria e specifica per i peccati «venerei», del tutto distinta da quella che caratterizza i peccati contro le persone (contrari al bene dell’uomo in quanto lesivi non della specie ma dei singoli individui) (24). Lo stesso obiettivo di una cura adeguata della prole si situa nella prospettiva della conservatio speciei: per questo, come l’unica motivazione razionalmente valida per un atto sessuale è il concepimento, per la fedeltà di coppia sembra esserlo l’educazione dei figli (25). Si tratta adesso di appurare se la trattazione corrispondente della Summa theologiae (in particolare le due questioni De luxuria della Secunda Secundae, che costituiscono un vero e proprio trattato) possa, attraverso la sua ampia articolazione, manifestare qualche cambiamento di rotta, sia pure parziale. Ovviamente non sarà possibile, in questa sede, analizzare un testo di tale portata, ma mi limiterò a mettere a fuoco alcuni tra i passi più significativi nell’ottica del presente studio.

 

 

2. La fornicatio simplex e le altre specie di luxuria nella Summa theologiae

 

Nella Questione 153 della Secunda Secundae si tratta della lussuria in generale, intesa, sulla scia di Isidoro, come il vizio di chi è solutus in voluptates (venereas, precisa Tommaso) (26) e fa uso di questo tipo di dilettazione non secondo la retta ragione (27): la prospettiva psicologica, perlomeno a livello definitorio, integra manifestamente quella biologica, nel senso che si tratta di un abuso del piacere e non (solo) del seme. Nella Questione 154 vengono poi studiate le varie specie di lussuria, a partire dalla fornicatio simplex (28).

L’intento, ancora una volta, è di dimostrare che si tratta di un peccato mortale. Qui però (si tratta del secondo articolo) le obiezioni si moltiplicano, e la mancanza di iniuria costituisce soltanto una delle sei difficoltà affrontate, perdendo così forse parte della sua pregnanza etico-filosofica. Tra le rimanenti, fondate su varie «autorità» attinte alla Bibbia e alla tradizione patristica ed ecclesiastica, alcune si presentano di grande interesse perché consentono al maestro domenicano di sviluppare discorsi importanti: la contrapposizione tra l’etica giudaico-cristiana e quella greco-romana (che, a causa della «corruzione della ragione naturale», non considerava illecita la fornicazione semplice) (29); l’affermazione della volontà divina come «prima e somma regola» (per cui, se Dio impone a singoli uomini precetti contrari al «comune ordine della ragione», l’obbedienza non contrasta con la «retta ragione») (30); il confronto tra l’atto di gola e l’inordinatio concubitus (solo quest’ultima è sempre, ex suo genere, peccato mortale, in quanto la generazione di un uomo è possibile in virtù di un singolo atto venereo, mentre perlopiù a una singola assunzione di cibo non segue un impedimento alla vita intera di un individuo) (31). In questa sede, tuttavia, interessa soprattutto esaminare l’obiezione fondata sull’assenza di ingiuria ad altre persone e la relativa risposta, che presentano rilevanti novità rispetto al testo della Contra Gentiles.

L’argomento si sviluppa in un’ottica schiettamente teologica: ogni peccato mortale si oppone alla carità, ma questo non è il caso della fornicatio simplex, che non contrasta né con l’amore di Dio (non è direttamente peccato contro di lui) né con l’amore del prossimo (non fa ingiuria ad alcun uomo) (32). La soluzione accoglie implicitamente il principio secondo cui ogni colpa grave comporta un venir meno della dilectio Dei o della dilectio proximi, ma afferma che la fornicazione semplice, in particolare, costituisce offesa di altri uomini: essa infatti, dice Tommaso, «è in contrasto con l’amore del prossimo, in quanto ripugna al bene della prole nascitura» (33). Nella brevissima risposta a un’obiezione, simile a questa, della XV Questione disputata De malo concernente la lussuria (forse di poco precedente) (34), si sostiene addirittura che «sono peccati contro il prossimo tutte le corruzioni della lussuria che si situano al di fuori di un uso legittimo del matrimonio, in quanto sono contro il bene della prole da generare ed educare», comprendendo così implicitamente anche quegli atti «contro natura» che si oppongono direttamente al fine procreativo (35).

Si noti che nella Somma teologica il bene da salvaguardare non sembra più presentarsi solo come conservazione della specie umana nella sua generalità, bensì come «ciò che conviene» ai figli che possono nascere (36) (anche se in vari passi viene ribadita la finalizzazione dell’usus venereorum al «bonum commune quod est conservatio generis humani») (37). Detto per inciso, si tratta di una prospettiva che anche ai nostri giorni, mutatis mutandis, potrebbe incontrare il favore di molti dai quali, per il resto, l’etica sessuale tommasiana non è condivisa un granché: tradotto in termini moderni, è irresponsabile (fuori ma anche nel matrimonio) un rapporto potenzialmente fecondo laddove non ci sia la piena disponibilità a una presa in carico del nascituro da parte della coppia. Non avrebbe senso alcuno, tuttavia, forzare il pensiero di Tommaso in una direzione estranea ai suoi intendimenti (che sono, poi, gli stessi della cultura di cui tale pensiero è espressione altamente rappresentativa): per lui, ovviamente, non si tratta di essere disposti ai doveri della maternità e della paternità “nel caso si accetti” un tipo di rapporto potenzialmente fecondo e anche a prescindere dal quadro giuridico, bensì, data per scontata l’obbligatorietà della finalità procreativa (per cui qualsiasi forma di sessualità non conforme al normale amplesso eterosessuale è bollata come «contro natura») (38), si tratta di garantire con un’unione non solo duratura di fatto, ma legalmente valida, il bene della prole. Nel respondeo (39), infatti, non soltanto si afferma che il vagus concubitus è «contro la natura dell’uomo» (si noti: ancora una volta, non «contro natura» tout court) mentre il matrimonio è de iure naturali, ma si precisa che, trattandosi di un «bene comune a tutto il genere umano», è necessario che questa unione stabile sia determinata da qualche legge (positiva), per cui non è moralmente sufficiente se qualcuno, come «in qualche caso può accadere», provveda all’educazione della prole all’interno di un rapporto fornicario (40).

Che il danno inflitto ad altri, cioè al singolo nascituro, sia costitutivo della fornicatio simplex (nel senso che entra in maniera preminente nella ratio per cui essa è peccato mortale) non risulta soltanto dalla soluzione del quarto argomento, ma è affermato con chiarezza già nello stesso respondeo:

Considerandum est quod peccatum mortale est omne peccatum quod committitur directe contra vitam hominis. Fornicatio autem simplex importat inordinationem quae vergit in nocumentum vitae eius qui est ex tali concubitu nasciturus (41).

Ciò è confermato in pieno dall’articolo successivo, dove si confronta la fornicazione semplice con peccati di altro tipo: per il maestro domenicano essa è di per sé meno grave dei peccati rivolti contro Dio e anche di quelli rivolti contro la vita di un uomo già nato, ma è più grave di peccati, come il furto, che riguardano soltanto beni esteriori, proprio in quanto è contraria al «bene di un uomo che nascerà» (42).

Questa prospettiva, a mio giudizio, non soltanto modifica l’impostazione o per lo meno l’intonazione della Contra Gentiles, ma in parte sembra correggere alcune affermazioni del primo articolo, quello in cui Tommaso si sforza di giustificare una divisione della lussuria in sei specie (fornicatio simplex, adulterium, incestus, stuprum, raptus e vitium contra naturam), richiamandosi non del tutto correttamente al Decreto di Graziano e presentando di fatto una variante delle classificazioni correnti nella facoltà teologica di Parigi (Summa halensis e Summa de vitiis di Guglielmo Peraldo) (43). Infatti la fornicazione semplice viene qui formalmente esclusa dall’insieme dei peccati venerei la cui opposizione alla retta ragione si definisce «per comparazione ad altri uomini», ed inserita invece (enfatizzandone il contrasto diretto con il fine dell’atto sessuale) in quello contraddistinto da un impedimento nei confronti della finalità procreativa (44).

Bisogna tenere presente che, per Tommaso, la differenziazione dei peccati venerei avviene ex parte materiae (45), e il punto di vista, anche se non centrato esclusivamente sul seme, non può essere che quello del vir «agente» nei confronti della femina «paziente» (46). La materia tuttavia «ha annessa la diversità formale dell’oggetto», e questa dipende dai «diversi modi di ripugnanza alla ragione retta» (47). Nella lussuria i modi sono due: o in riferimento «al fine dell’atto venereo», o «per comparazione agli altri uomini». Nel primo ordine rientra non solo il vizio contro natura (che si ha «in omni actu venereo ex quo generatio sequi non potest»), ma anche la fornicazione semplice, in quanto impedisce la «debita educazione e promozione della prole nata» (48). Nel secondo rientrano invece i peccati che recano offesa o alla donna cui ci si unisce o all’uomo «sotto la cui potestà si trova la femmina» (49). Per quanto possa sembrare sorprendente (se si fa riferimento ai nostri schemi mentali e ai nostri valori), l’offesa alla donna sembra non avere a che fare per Tommaso con la violazione della sua volontà: si dà infatti nel caso dell’incesto (indipendentemente dalla consensualità, cui non si accenna) (50), in quanto «non si serba il dovuto onore» a donne cui si è congiunti per consanguineità o affinità, e viceversa vengono classificati come costituenti offesa al marito e al padre non soltanto l’adulterio e lo stuprum (inteso, secondo un’accezione completamente diversa da quella odierna, come violazione consensuale della verginità) (51), ma anche il «ratto», compresi i casi in cui alla donna viene inferta violenza.

In questo modo, a prescindere dal fatto che alla dignità della donna come elemento moralmente rilevante pare concesso uno spazio minimo (52), tra i peccati di lussuria si presentano di fatto esclusi da un ambito di «peccati contro il prossimo» solamente quelli che rientrano nella specie ‘vitium contra naturam’: ai quattro, infatti, che ripugnano alla retta ragione per comparationem ad alios homines (incesto, adulterio, stuprum, ratto) si può aggiungere la fornicatio simplex, che, forse anche per motivi di equilibrio nella classificazione, nel primo articolo viene inserita senz’altro all’interno del gruppo contraddistinto dall’opposizione al fine, e tuttavia nel secondo risulta essenzialmente contraria alla dilectio proximi.

Guardando al quadro sin qui emerso e agli ulteriori sviluppi della Questione, si affaccia, nella prospettiva che interessa il presente studio, tutta una serie di problemi, indicativi di tensioni all’interno del pensiero tommasiano. Vedremo, anzitutto, che si possono trovare passi in cui l’offesa ad altri uomini, lì dove se ne riconosce la presenza, si presenta come qualche cosa non di costitutivo del peccato sessuale come tale, bensì di “aggiunto”, una sorta di aggravante, pur risultando indispensabile per la determinazione delle varie specie. Appare così tutt’altro che sopita la preoccupazione di mantenere in tutti i casi una ratio propria, peculiare dei peccati (che noi chiameremmo) sessuali, quale si presenta precipuamente negli atti che si oppongono direttamente al fine procreativo. Mi sembra poi di grande rilevanza chiarire il senso esatto e l’articolazione di quella iniura proximi (oltraggio alla dignità, costrizione o inganno) la cui idea, in prima approssimazione (come abbiamo visto), sembra quasi trascurare l’aspetto di violentia assimilabile alla nostra nozione di rapporto imposto ad una persona con la forza, e tradurre piuttosto l’istanza di proteggere un preciso ordine sociale, fondato sulla predominanza assoluta del maschio, padre e marito, e sulla sottomissione della donna.

Infine ed è questo, forse, il problema decisivo, o piuttosto sempre lo stesso problema nella sua espressione più radicale , quando la classificazione delle varie specie di peccato venereo si traduce in un ordine di gravità, vengono collocate al vertice della malizia proprio quelle azioni che sono accusate di violare la natura, ma nelle quali si riconosce l’assenza (effettiva o per lo meno possibile) di offesa nei confronti di altre persone umane (53): e così comportamenti come l’immunditia o mollities (la masturbazione, che per definizione non implica rapporto ad alterum), o amplessi, anche se matrimoniali, che non rispettino il debitus modus concumbendi, o atti, anche se consensuali, che non serbino il debitus sexus (rapporti omosessuali, detti da Tommaso ‘sodomitici’ nella loro generalità) (54) sono considerati non solo peccati pur non comportando «ingiuria», ma peccati moralmente più gravi di tutte le altre forme di lussuria, compresi gli atti eterosessuali «secondo natura» imposti con la forza. La parte restante del presente studio si propone di affrontare questi problemi sotto la scorta dei testi tommasiani.

 

 

3. L’iniuria alterius personae nelle varie specie di lussuria

 

La preoccupazione di mantenere una ratio identica e peculiare per tutti i peccati di lussuria, distinta dalle altre, si manifesta già nel primo articolo, lì dove Tommaso afferma che le «deformità» di altri vizi «concorrono» in certi atti, dimodoché un peccato venereo come l’adulterio «è contenuto» sotto la lussuria ma anche sotto l’ingiustizia: è, potremmo dire, l’una e l’altra cosa insieme, in quanto presenta un duplice tipo di opposizione alla ragione (55). Si tratta della risposta a un’obiezione, secondo cui l’adulterio non dovrebbe essere considerato come una specie di lussuria, poiché differisce dalla semplice fornicazione (e la differenza, si sa, è costitutiva di ogni specie) soltanto nel fatto «che qualcuno accede ad una donna appartenente ad altri» (56). Per il maestro domenicano la deformitas iniustitiae non è certo accidentale bensì essenziale nel determinare come adulterio un atto di lussuria, e tuttavia questo rimane tale pur essendo reso «più grave»: si tratta di una lussuria che si lascia trascinare dalla concupiscenza a tal punto da sfociare in un atto (anche) di ingiustizia (57). E così, nell’articolo dedicato allo stuprum (inteso come «illicita virginum defloratio sub cura parentum existentium»), si sostiene che «appare più disordinata la concupiscenza che non si astiene dall’oggetto piacevole per evitare un’ingiuria»: anche in questo (come nel caso dell’adulterio) il peccato di ingiustizia rende più deforme il peccato di lussuria, giacché, in generale, «nulla proibisce che un peccato sia reso più deforme dall’aggiunta di un altro» (58).

Si dà dunque in vari casi, e in modi diversi determinati dai diversi tipi di ingiuria, uno stretto legame, addirittura un intreccio costitutivo, fra peccato sessuale e ingiustizia. Ma riduzione no. La lussuria mantiene sempre una ratio propria, che Tommaso a più riprese illustra. Formalmente (com’è spiegato nel primo e, con grande chiarezza, anche nell’ultimo articolo, che avremo modo di esaminare) si definisce per la sua opposizione alla finalità procreativa, presentandosi come vizio contro natura se impedisce direttamente la finalità generativa e come fornicazione semplice se contrasta solo con quella educativa senza inoltre comportare, a parte l’offesa alla prole potenziale, aggravanti dovute all’ingiuria nei confronti di altri. Il suo sostrato si configura invece come un cedimento al desiderio carnale: già nella Questione 153 si afferma che le concupiscenze e le dilettazioni veneree costituiscono la «materia» della lussuria (59). Nel corso della 154, poi, si possono trovare interessanti spunti di approfondimento in questa direzione, come quando, a proposito dell’incesto, si parla di una forte presenza negli atti venerei di una «certa turpitudine» contraria all’onore e di cui gli uomini provano vergogna (60). Ciò, tuttavia, riguarda non solo gli atti peccaminosi, ma – agostinianamente – investe tutta la sessualità decaduta dopo il peccato di Adamo, compresi gli atti coniugali onesti, e non è questo il luogo per approfondire tale aspetto (61).

Detto questo, mi sembra tuttavia degno di nota un fatto: nel discorso tommasiano della Secunda Secundae, a partire dalla classificazione delle varie forme di lussuria e poi, via via, nella loro illustrazione, le «deformità» che si sommano a quella del genere ‘luxuria’ al punto tale da articolarlo in specie distinte, quelle in altre parole che sono in grado di costituirne una differenza specifica, sono sempre e soltanto del tipo ‘iniuria alterius personae’. Ciò, per la verità, sembrerebbe smentito dal respondeo dell’articolo 10, dove, quasi a sorpresa, Tommaso concede (in sintonia con la tradizione agostiniana ed in particolare con la Summa halensis) che anche il sacrilegio possa essere considerato come una specie di lussuria, quando si tratti di una lussuria che viola qualche cosa di pertinente al culto divino (62). Tuttavia, subito dopo, si precisa che soltanto quelle enumerate all’inizio sulla falsariga del Decreto di Graziano sono «species luxuriae secundum seipsa», mentre il sacrilegio può essere considerato una specie di lussuria solo in quanto viene ordinato al fine di un altro vizio (63), e, di volta in volta, può essere invece di pertinenza della gola, dell’ira, ecc. (64) Mentre, insomma, l’essere una forma di lussuria è accidentale per il sacrilegio, l’essere insieme lussuria e ingiustizia è essenziale per peccati quali l’adulterio e lo stuprum.

L’ingiuria verso altri, nella sua varietà, concorre dunque sotto forme diverse a determinare la lussuria, costituendone le varie specie che rappresentano varianti moralmente più gravi della semplice fornicazione (mentre, come vedremo, sono altri i fattori che producono l’articolazione interna del «vizio contro natura»). Nell’articolo finale Tommaso delinea tra l’altro una graduatoria di crescente gravità, a partire appunto da quel tipo di lussuria che non solo non viola i «principi naturali», ma non reca neppure offesa ad altre persone (se si eccettua la mancanza di cura verso i nascituri, che costituisce – abbiamo visto – nocumentum nei confronti della loro vita):

Magis autem repugnat rationi quod aliquis venereis utatur non solum contra id quod convenit proli generandae, sed etiam cum iniuria alterius. Et ideo fornicatio simplex, quae committitur sine iniuria alterius personae, est minima inter species luxuriae (65).

Più gravi della semplice fornicazione sono lo stuprum e l’adulterio: di più quest’ultimo, in quanto maggiore è l’offesa che si reca al marito, alla cui potestà la donna è soggetta ad usum generationis, rispetto all’offesa che si reca al padre, incaricato soltanto della sua custodia. Ambedue i peccati sono aggravati quando, dice Tommaso, la violentia si aggiunge all’iniuria: è il caso del ratto di una vergine e del ratto di una donna maritata (66). Più grave ancora l’incesto, collocato (in un ordine decrescente) al secondo posto dopo i peccati contro natura, in quanto si oppone alla «naturale reverenza dovuta alle persone congiunte» (67).

Per quanto preziosa, questa classifica, nella sua formulazione sintetica, non ci consente di rispondere se non in parte ad uno dei quesiti sopra formulati. L’uso della forza, questo è chiaro, costituisce un’aggravante rispetto ad una semplice offesa, e pare chiaro anche che, se si eccettua il caso dell’incesto, a subire l’oltraggio non sia la donna, bensì il marito od il padre (sia pure in riferimento alla donna e alla sua funzione generativa): ma chi è il destinatario della violenza che rende più pesante l’offesa? La risposta, in realtà, Tommaso l’ha già data nel corso della Questione, ed in particolare negli articoli dedicati a stuprum e raptus. In quest’ultimo si precisa, tra l’altro, che quando una ragazza (puella) viene portata via con la forza dalla casa paterna, si dà comunque violenza nei confronti del padre, ma non sempre nei confronti della vergine, in quanto a volte quest’ultima è consenziente (68). La violenza inferta alla donna “può” concorrere con quella inferta al padre; ma da sola (pur essendo violenza fisica e carnale, a differenza di quella subita dal custode) non ha una sua ratio, e perciò neppure un nome nel ricco ventaglio dei peccati sessuali (69).

Il maestro domenicano, ancora una volta lucida espressione della cultura del suo tempo, attribuisce invece una maggiore importanza all’«ingiustizia» nei confronti della donna proprio lì dove si tratta di un rapporto non imposto con la forza: lo stuprum, vale a dire la deflorazione, illecita ma consensuale, di una donna ancora sotto tutela del padre, comporta sempre anche un’«ingiuria» nei confronti di lei. Tommaso dedica a quest’offesa un certo spazio, decisamente superiore anzi a quello riservato all’oltraggio nei confronti del padre. La ragazza, quando viene violata in assenza di un patto coniugale precedente, è impedita nel conseguimento di un legittimo matrimonio e indirizzata sulla via della prostituzione, «dal che era trattenuta per non perdere il segno distintivo della verginità» (70); vittima non di una costrizione ma comunque di una seduzione, ha diritto ad una soddisfazione da parte dell’uomo che l’ha offesa (71). Si può notare che invece, nel primo articolo, a proposito dello stuprum come a proposito dell’adulterio e del ratto, l’offesa nominata è soltanto quella arrecata all’uomo sotto la cui potestà la femmina si trova. Ma abbiamo già visto (a proposito del ruolo del nocumentum vitae nascituri nella definizione della fornicatio simplex) che il respondeo iniziale della Questione 154 propone una classificazione dei peccati venerei costruita sulla base dei criteri fondamentali e con l’utilizzo degli elementi principali, mentre poi nell’illustrazione analitica il discorso si fa più complesso e articolato.

 

 

4. L’iniuria ipsi Deo nei peccata contra naturam

 

Nei peccati che costituiscono una variante della semplice fornicazione, l’elemento aggravante e al contempo specificante è dunque costituito dall’offesa (e a volte anche dalla violenza o dall’inganno) nei confronti di altre persone. La stessa fornicatio simplex, a sua volta, contrasta con l’amore del prossimo, in quanto «ripugna al bene della prole» futura. Ciò non vuol dire, si è visto, che la luxuria si riduca a una forma di iniustitia, senza mantenere una propria peculiarità. La sua ratio “allo stato puro”, tuttavia, si può cogliere soltanto altrove, paradossalmente proprio lì dove un’opposizione non solo alla «retta ragione» ma allo stesso «ordine naturale» le conferisce una specialis ratio deformitatis (72) e l’unica intenzione, per Tommaso, è quella della «dilettazione venerea» a tal punto da escludere la possibilità stessa della generazione (73): nell’ambito cioè di quel vitium contra naturam che viene trattato come se, per principio, i comportamenti anche assai diversi tra di loro stigmatizzati con questa etichetta (74) non potessero avere altri obiettivi oltre al piacere e non dipendessero mai nel loro (dis)valore morale da un eventuale danno inferto ad altri.

Tommaso, proprio dal suo punto di vista, non può certo ignorare che gli atti definiti come peccati contro natura possono, in certi casi, avvenire con l’ingiuria o con la violenza: l’amplesso eterosessuale che, in varie maniere, non segue il debitus modus concumbendi può avvenire in una forma “ingiuriosa” di lussuria come l’adulterio, o violenta come il ratto, ed un rapporto con una persona dello stesso sesso può essere imposto con la seduzione o con la forza. Ma non è questo, evidentemente, che interessa il maestro domenicano: il peccato contro natura è tale, nella sua enorme gravità (gravissimum et turpissimum), e tale gravità non dipende dall’eventuale offesa arrecata ad altre persone umane: prova ne sia che lo stesso autoerotismo è considerato per sua essenza molto più grave di tutti i peccati di fornicazione anche violenti (e su di esso, detto per inciso, peserà nei secoli l’antica condanna e si tradurrà, nella prassi educativa e medica (75), in violenze fisiche e morali).

L’unico cenno in questa direzione è rappresentato, significativamente, dal problema della “sporcizia” (pollutio) prodotta su altri (del tutto a prescindere dalla consensualità del rapporto): il partner viene inquinato in una maniera moralmente più grave nell’incesto o nel peccato contro natura? Più in quest’ultimo, secondo Tommaso, perché chi lo commette (non solo, s’intende, inquina l’altro come individuo, ma soprattutto) opera contro la natura della specie umana, che gli è «congiunta» più immediatamente di quanto gli sia congiunto qualsiasi membro della famiglia: l’offesa maggiore, insomma, non è alla persona, ma alla natura universale (76). Che tuttavia si possa davvero polluere la natura umana il maestro domenicano formalmente non lo dice: sarebbe quasi un attribuire ai peccatori contro natura quella che fu una (triste) prerogativa di Adamo (77).

Quest’assenza della iustitia (sul piano filosofico) e (sul piano teologico) della caritas, sotto forma di dilectio proximi, tra i valori direttamente calpestati dal vitium contra naturam, può essere facilmente verificata tanto nella tipologia quanto nella graduatoria interna di gravità che Tommaso propone. Il criterio che presiede all’articolazione di quello è rappresentato infatti dalla molteplicità dei modi in cui può venire violato l’«ordine naturale dell’atto venereo che conviene alla specie umana» (e si noti che risultano contro natura anche atti che di per sé non impediscono la generazione, sicché l’ordo naturalis che si difende non è dato soltanto dalla finalità procreativa, ma da certe regole di comportamento nella modalità del coito) (78). A determinare poi l’ordine di gravità – che ricalca quello tradizionale dei Penitenziali (79) – sono i tipi di abuso commessi: gli atti che non coinvolgono altre persone costituiscono di fatto il più grave e il meno grave (quello cioè che non rispetta la debita species e quello che si limita a omettere il concubitus ad alterum), mentre i due intermedi sono (in ordine decrescente) il rapporto che non mantiene il debitus sexus e quello che, in varia misura, viola «la dovuta modalità dell’amplesso» (80). Non mi pare fondato sui testi il tentativo, che è stato fatto, di riconoscere nel disprezzo del prossimo il criterio cui Tommaso si atterrebbe nel formulare l’ordine di gravità fra i peccati contro natura (81).

Tali considerazioni possono sembrare il frutto di una lettura arbitraria, suggerita da una cultura, quale la nostra, che per lo più nei rapporti tra uomo e donna ritiene fondamentali la lealtà e la non-violenza più che l’intenzione procreativa, e tende a riconoscere valore (persino ormai sul piano giuridico) anche all’omosessualità, segnata per secoli da uno stigma di tipo morale, e poi anche di tipo medico. Ancora una volta, tuttavia, è Tommaso stesso che presenta la mancanza di danno ad altri come una difficoltà da affrontare per difendere la scala di (dis)valori morali da lui proposta. E, come a proposito della fornicatio simplex si deve rispondere a chi non la ritiene perciò peccato mortale (82), qui si tratta di risolvere l’obiezione secondo cui, a causa di tale assenza, quello contro natura non costituisce il più grande tra i peccati di lussuria:

Videtur quod vitium contra naturam non sit maximum peccatum inter species luxuriae. Tanto enim aliquod peccatum est gravius, quanto magis contrariatur caritati. Sed magis videntur contrariari caritati proximi adulterium et stuprum et raptus, quae vergunt in iniuriam proximi, quam peccata contra naturam, per quae nullus alteri iniuriatur. Ergo peccatum contra naturam non est maximum inter species luxuriae (83).

L’obiezione non nega dunque che quello contro natura sia peccato, e tuttavia propone un ordine di gravità nel quale il fattore determinante sia dato dal livello di allontanamento dalla carità, e perciò dalla presenza o meno di offese nei confronti di altri. Diversamente dal caso della fornicazione semplice, a questo proposito non troviamo alcun riscontro preciso nel sillabo del 1277: non mi sembrerebbe infatti corretto avvicinare la posizione confutata da Tommaso alla tesi, condannata da Tempier, secondo cui il peccato contro natura si oppone alla natura della specie ma non a quella dell’individuo (problema di tipo diverso, che Tommaso tocca in un’altra sede e con altri intendimenti, giungendo a sostenere che il piacere omosessuale, contrario in assoluto alla natura della specie, in certi individui diventa naturale «per consuetudine») (84). Questo argomento potrebbe semmai riecheggiare una certa morale teologica, ormai desueta nel XIII secolo, rigida con l’adulterio, ma relativamente più tollerante nei confronti della fornicazione anche se praticata con persone dello stesso sesso (85).

La soluzione proposta dal maestro domenicano merita un’attenzione particolare. Ci si potrebbe aspettare un richiamo a quanto affermato nella prima parte del respondeo: la corruzione peggiore è quella che riguarda il principio, e «i principi della ragione sono quelli secondo natura» (86), sicché offendere la specie è più grave che offendere un individuo. Una risposta di questo tipo anticiperebbe in fondo quella (già esaminata) relativa al confronto con la gravità dell’incesto, e sarebbe in sintonia con il passo della Contra Gentiles in cui, a proposito della fornicazione semplice, si considera insufficiente una prospettiva che ne fondi la colpevolezza sull’offesa arrecata a Dio che la vieta o al prossimo che viene scandalizzato (87). Ma, come si è visto a proposito dell’obiezione del secondo articolo riguardante la fornicatio simplex, Tommaso nella Secunda Secundae non intende eludere il valore teologicamente centrale della caritas (88) e perciò l’imprescindibilità di un soggetto personale quale termine oggettivo degli atti morali. D’altra parte non si affaccia, qui, l’idea di richiamarsi ad un danno nei confronti di un bene umano altrui come quello della prole il cui concepimento è reso impossibile nonostante l’emissione del seme (anche se, come abbiamo visto, nelle Questioni De malo incidentalmente vengono giudicati come rivolti in proximum, inteso come prole, tutti i peccati di lussuria, compresi quelli che ne impediscono non l’educazione ma addirittura la generazione). L’unica via d’uscita viene allora individuata nell’identificare i peccati in questione con un’offesa diretta allo stesso Dio, in quanto ordinatore della natura. Facendolo consistere in una gravissima violazione dell’amore di Dio, Tommaso d’altra parte sembra implicitamente ammettere quanto sostenuto dall’obiezione, e cioè che il vitium turpissimum non contrasta di per sé con l’amore del prossimo:

Ad primum ergo dicendum quod, sicut ordo rationis rectae est ab homine, ita ordo naturae est ab ipso Deo. Et ideo in peccatis contra naturam, in quibus ipse ordo naturae violatur, fit iniuria ipsi Deo, ordinatori naturae. Unde Augustinus dicit, III Confess.: Flagitia quae sunt contra naturam, ubique ac semper detestanda atque punienda sunt, qualia Sodomitarum fuerunt. [...] Violatur quippe ipsa societas quae cum Deo nobis esse debet, cum eadem natura cuius ille auctor est, libidinis perversitate polluitur (89).

La lunga citazione di Sant’Agostino mi sembra molto significativa, come anche la soluzione dell’argomento immediatamente seguente, dove i vizi contra naturam, nel loro essere contra Deum, sono accostati addirittura al sacrilegio, del quale anzi sono dichiarati più gravi, per il fatto che l’ordine della natura umana ha un primato rispetto a qualsiasi altro ordine di realtà connesse con il culto divino (90). Tommaso s’inserisce così a pieno titolo in quella tradizione patristica e medievale, brillantemente studiata da Jacques Chiffoleau, che a proposito dei peccati sodomitici continuamente riconduceva la violazione della natura (naturata) ad un’offesa rivolta alla Summa Natura (naturans) (91).

Per far ciò, tuttavia, il maestro domenicano introduce una divaricazione tra «ordine della ragione retta» e «ordine della natura», il primo derivante «dall’uomo» e il secondo «dallo stesso Dio», che pone problemi notevoli se posta a confronto con i fondamenti stessi della sua etica e della sua metafisica. Nella parte finale del presente studio intendo perciò risalire ad alcuni aspetti generali del discorso tommasiano sui rapporti fra Dio, natura e ragione, sulla lex naturae e sull’offesa di Dio e del prossimo nella definizione dei peccati. Lo scopo è quello di chiarire, all’interno di una cornice più ampia, i problemi e le tensioni che abbiamo visto emergere esaminando la teoria della luxuria.

 

 

5. Ordo rationis e ordo naturae: la legge naturale

 

In questa sede non è possibile, ovviamente, affrontare in maniera analitica una tematica di tale portata. Mi limiterò a proporre alcuni spunti problematici, così come a mio giudizio emergono da diversi passi importanti della Summa theologiae, che anche in questo caso rivela tutta la sua ricchezza speculativa e la sua complessità, non scevra di istanze tra di loro contrastanti.

Il primo problema è la netta distinzione, prospettata al termine delle due Questioni sulla lussuria, tra l’ordine della ragione e l’ordine della natura, nel loro essere e nella loro origine. In effetti il punto di vista costante dell’etica tommasiana sembra essere, piuttosto, quello di una sostanziale coincidenza di questi due ordini: natura e ragione derivano entrambe da Dio, chi viola la prima viola anche la seconda, ma anche viceversa. Quello razionale è un ordine che la ragione non “costruisce”, bensì “scopre”, insito per l’opera del creatore nell’essenza di tutte le cose e nell’uomo stesso (92). Basti pensare al terzo libro della Contra Gentiles, lì dove, per provare che la rettitudine degli atti umani dipende dalla loro natura e non soltanto dalla legge positiva, Tommaso afferma che «gli uomini ricevono dalla divina provvidenza il criterio naturale della ragione, quale criterio delle proprie azioni», e «a ciascuno si addicono per natura quegli atti con i quali tende al suo fine naturale», sicché ad esempio sono «naturalmente cattivi» tutti gli atti che impediscono il giudizio della ragione, così come quelli che si oppongono alla conoscenza e all’amore di Dio (93). E basti pensare come, all’inizio della trattazione della Prima Secundae concernente vizi e virtù, il maestro domenicano confuti l’opinione secondo cui, nella loro generalità, i vizi «non sono contro la natura» bensì contro la legge di Dio, concepita come superiore alla natura, e proponga viceversa una perfetta coincidenza, per l’uomo, tra conformità alla natura e conformità alla ragione, ma anche tra conformità alla ragione e conformità a Dio inteso come «legge eterna»:

Homo autem in specie constituitur per animam rationalem. Et ideo id quod est contra ordinem rationis, proprie est contra naturam hominis inquantum est homo; quod autem est secundum rationem, est secundum naturam hominis inquantum est homo. [...] Vitium autem intantum est contra naturam hominis, inquantum est contra ordinem rationis. [...] Lex autem aeterna comparatur ad ordinem rationis humanae sicut ars ad artificiatum. Unde eiusdem rationis est quod vitium et peccatum sit contra ordinem rationis humanae, et quod sit contra legem aeternam (94).

Un tentativo di risposta a questo tipo di difficoltà si può di fatto individuare nei passi in cui Tommaso prospetta e giustifica la distinzione tra ordo naturae e ordo rationis non come la divaricazione di due ambiti diversi, bensì come un’articolazione secondaria all’interno dell’ordine unitario, naturale e razionale insieme, che partecipa dell’eterna ratio divina: mentre il livello «naturale» comprende i principi posti direttamente da Dio con la creazione, quello «razionale» verte su quanto, in virtù del lavoro discorsivo umano, da tali principi (già appresi) viene fatto derivare. Così, nel respondeo concernente la gravità del vitium contra naturam, dove si afferma che «in qualsiasi genere la peggiore è la corruzione del principio», si sostiene che «i principi della ragione sono dati da quanto è secondo natura: la ragione infatti, presupposto ciò che è stato determinato dalla natura, dispone il resto secondo quanto conviene». Si tratta di un “disporre” non arbitrario ma consequenziale, che, nel campo pratico come in quello teoretico, rappresenta – potremmo dire – la continuità ma nello stesso tempo la subordinazione del piano dimostrativo rispetto al piano noetico: per questo in venereis il peccato contro «ciò che è stabilito per natura» è il più grande, così come in speculativis l’errore più grave è quello concernente ciò la cui cognizione «est homini naturaliter indita» (95).

Tutti gli agenda, insomma, derivano da Dio, ma immediatamente solo quelli appartenenti all’ordine «della natura», con la mediazione invece dell’uomo quelli appartenenti all’ordine «della ragione». Un quadro esplicativo di questo tipo, del resto, si trova illustrato già nella Questione della Prima Secundae sulla «legge naturale», dove Tommaso afferma che, se da un punto di vista generale tutti gli atti virtuosi rientrano nella legge di natura, in quanto appartiene alla «naturale inclinazione» di ogni uomo l’agire secondo ragione, d’altra parte esulano da tale ambito le molte specie di atti virtuosi che non sono oggetto di una primitiva inclinazione per natura, ma vengono «scoperti» per rationis inquisitionem (96).

Ci sono, per la verità, luoghi in cui il maestro domenicano sostiene che anche quanto deriva dai principi comuni della legge di natura a modo di conclusione (e non a modo di «determinazione» applicativa ai casi particolari) riceve vigore dalla legge naturale (97), o addirittura – come si afferma nel commentario all’Etica Nicomachea – è esso stesso iustum naturale (98): altrimenti un precetto come ‘non esse occidendum’ esulerebbe dalla legge di natura, a differenza del principio generale (‘nulli esse malum faciendum’) da cui deriva. In ogni caso Tommaso si preoccupa di delineare i principi morali che la ragione «apprende naturalmente» (prima di qualsiasi deduzione), vale a dire l’articolazione di base dei precetti della legge naturale. Lo fa in relazione a ciascuno dei tre elementi che costituiscono l’ordine discendente (dalla più generale alla più specifica) delle inclinationes naturales rinvenibili nell’essere umano: in quanto l’uomo comunica con tutte le sostanze, «pertinent ad legem naturalem ea per quae vita hominis conservatur, et contrarium impeditur»; in quanto comunica con tutti gli altri animali, «dicuntur ea esse de lege naturali quae natura omnia naturalia docuit (99), ut est coniunctio maris et feminae, et educatio liberorum, et similia»; in quanto, infine, possiede la propria specifica natura razionale, l’uomo ha una naturale inclinazione alla conoscenza di Dio e alla vita sociale, sicché appartiene alla legge naturale «quod homo ignorantiam vitet, quod alios non offendat cum quibus debet conversari, et cetera huiusmodi quae ad hoc spectant» (100).

Questa classificazione, come è stato osservato da Michael Crowe, presenta evidenti affinità con l’ordine gerarchico dei significati di ‘legge naturale’ proposto da vari predecessori di Tommaso, decretisti e teologi, già nel corso del XII secolo (101). L’idea che la legge di natura (concetto ereditato da Agostino, e per suo tramite, da Cicerone e dagli stoici) sia quella comune a uomo e animali costituisce la celebre formula di Ulpiano, che nella cultura medievale si coniuga con un notevole interesse verso il comportamento sessuale animale, considerato esempio di naturalezza (anche se – come è stato rilevato – bestiari ed enciclopedie, paradossalmente, denunciano nello stesso tempo le aberrazioni di donnole, iene e lepri) (102). Tale formula di fatto non viene espunta da Tommaso (secondo una tendenza ad enfatizzare la peculiarità umana che trova completa espressione, invece, in Alberto Magno) (103) ma neppure assolutizzata, bensì collocata come elemento di un quadro più ampio, che trova il suo apice nel livello razionale (104).

 La natura comune all’uomo e agli altri animali (lo ius naturale dei giuristi) si integra così con la natura propria dell’uomo (lo ius gentium) per definire l’ambito preciso della legge di natura (ossia di quel «giusto naturale» che, aristotelicamente, insieme con il «giusto legale» costituisce il «giusto politico») (105), e dunque anche l’ambito dei peccati che vi si oppongono. La difficoltà sopra prospettata pare dunque comporsi: nell’etica c’è un piano naturale in senso stretto, quello dei precetti inseriti direttamente da Dio nella mente umana, e dovrebbe perciò essere ritenuta propriamente «contro natura» ogni principii corruptio, tutti gli atti cioè che a tali precetti si oppongono, nel campo riguardante la riproduzione come in tutti gli altri.

Qui però si presenta un ulteriore problema. Basta avere un minimo di familiarità con i testi tommasiani per accorgersi che questo schema, in realtà, non opera in maniera univoca nella classificazione dei peccati. Si pensi ad esempio a come nella Secunda Secundae vengono moralmente qualificati suicidio e omicidio (contra inclinationem naturalem il primo, e addirittura soltanto secundum se malum il secondo) (106); ma – per limitarsi ai vizi che abbiamo esaminato in questo studio – si pensi a tutti i peccati venerei che Tommaso, nella Secunda Secundae, non inserisce nell’ambito del vitium contra naturam: in conformità al quadro poco sopra esposto, dovrebbero infatti opporsi direttamente alla legge naturale anche la fornicatio simplex, che contrasta con l’educazione dei figli (e dunque con la seconda inclinazione), e ancor di più tutte le sue aggravanti come l’adulterio, che, oltre a ciò, presentano offesa nei confronti di altri uomini (e contrastano così pure con la terza inclinazione, quella peculiare dell’essere umano).

Si tengano presenti anche talune sfumature linguistiche, le espressioni ‘contra bonum hominis’, ‘contra naturam hominis’ e simili, mai confuse con ‘contra naturam’ (e con il suo implicito, più ristretto referente ereditato da tutta una tradizione teologica e giuridica) anche in contesti nei quali si insiste sull’opposizione di ogni peccato alla natura e alla ragione, in quanto violazione del fine stabilito da Dio (107). A questo proposito Leo Elders osserva che «what is against the order of reason is against human nature. Thomas reserves the expression ‘against nature’ mainly to signify acts against the animal nature of man» (108): e si noti che neppure tutte le violazioni della natura animale sono classificate «contro natura», essendone escluso quel vagus concubitus di cui d’altra parte si riconosce il contrasto diretto con la seconda inclinazione fondamentale dell’uomo.

Non è però necessario “navigare” nella Secunda Secundae per rendersi conto che i «peccati contro natura» possiedono un ambito molto più delimitato della «legge di natura». Già trattando di quest’ultima, anche se incidentalmente, Tommaso è molto esplicito nel riservare l’appellativo di ‘contra naturam agli atti contrari alla legge naturale nel senso ulpianeo, anzi ad una loro parte. L’occasione è fornita da un’obiezione secondo cui non è possibile collocare tutte le virtù nell’ambito della legge naturale, in quanto ne conseguirebbe che tutti i peccati sono contro natura, mentre questa espressione viene usata per designare alcuni peccati particolari (109). Nella soluzione il maestro domenicano precisa che, se ci si riferisce alla natura propria dell’uomo, «tutti i peccati, in quanto sono contro ragione, sono anche contro natura»; ma ammette che, se ci si riferisce invece alla natura comune all’uomo e agli altri animali, «alcuni speciali peccati sono detti essere contro natura»: natura, evidentemente, intesa non come principio di operazione intraspecifico, ma come l’ordine creaturale per cui Dio è detto ordinatore della natura, ed affine in qualche modo a quell’entità unitaria se non addirittura ipostatizzata e mitologicamente espressa, la cui idea andò affermandosi nel corso del XII secolo. Un’enfasi particolare è riservata qui (a differenza che nella Questione 154) al concubitus masculorum, che funge da (unico) esempio in quanto «vizio contro natura» per eccellenza, opposto a quell’unione di maschio e femmina che viene indicata come «naturale per tutti gli animali» (110).

Se si confronta questa risposta con il respondeo generale dell’articolo (111), si può notare la significativa differenza che si cela sotto un apparente parallelismo. Lì, come abbiamo visto, al piano generale dell’agire «secondo ragione», che ingloba tutte le virtù nell’ambito della legge naturale, si contrappone la suddivisione specifica delle virtù in immediate (ad quae natura primo inclinat) e mediate (per rationis inquisitionem), suddivisione che però interessa tutti i tipi di inclinazione cui le virtù si riferiscono. Qui, invece, al piano generale per cui tutti i peccati, in quanto contrari alla ragione, sono anche contrari alla natura si contrappone un ristretto ambito di atti specifici (se non addirittura un elemento particolare di tale ambito), riferito ad un tipo soltanto di inclinazione. In altre parole: se, tra le virtù, appartengono in senso proprio alla legge naturale tutte quelle che fungono da principi essendo oggetto di una tendenza primitiva, non si può invece affermare che, tra i vizi, siano propriamente contro natura tutti quelli che contrastano con una tendenza primitiva. Non sono detti contra naturam tout court gli atti, come l’offesa ad altri uomini, che si oppongono all’«inclinazione al bene secondo la natura della ragione» (che pure è la più alta nell’uomo), e neanche gli atti contrari all’inclinazione naturale nella quale l’uomo «comunica con tutte le sostanze», cioè l’appetito di autoconservazione (che è il più universale); lo sono invece quelli che si oppongono all’inclinazione conforme a ciò in cui l’uomo «comunica con gli altri animali» a tal punto da impedire la generazione della prole.

È chiaro, a mio giudizio, che proprio l’intento di colpire in una maniera del tutto singolare quella determinata categoria di peccati può contribuire a risolvere il problema sollevato da Crowe, vale a dire perché Tommaso, nonostante le premesse metafisiche operanti nel suo pensiero, si rifiuti di seguire il proprio maestro nell’abbandono della formula ulpianea (112).

 

 

6. Peccare in Deum, in proximum, in seipsum

 

Questa forte asimmetria pare anzitutto confermare in pieno la qualificazione di biologismo attribuita all’etica sessuale di Tommaso, interrogandosi sulla quale il presente studio ha preso le mosse (anche se – si è visto – accanto alla preoccupazione di salvaguardare la specie umana si può cogliere quella di consacrare, definendole naturali, certe regole di comportamento). A questo proposito sarebbe interessante analizzare, se questo non costituisse un excursus troppo lungo, quei testi in cui Tommaso si colloca sulla difensiva all’interno della propria stessa concezione della sessualità umana: quando ad esempio, nel solco della tradizione teologica, difende la legittimità di rapporti matrimoniali anche qualora si sappia positivamente che la donna è sterile, per vecchiaia o per malattia (questi, per il maestro domenicano, sono meri accidenti, mentre la legge è data secundum communem considerationem) (113); o quando assolve l’astinenza volontaria di chi si vota alla verginità dall’accusa di «essere contraria al precetto della legge di natura» (con motivazioni diverse nella Summa theologiae rispetto alle Quaestiones De malo, sempre comunque nello sforzo – comune del resto a tutta la tradizione ortodossa, in contrapposizione agli encratismi radicali – di contemperare ascetismo e generazionismo) (114).

Ma lo squilibrio rilevato nel paragrafo precedente sembra prospettare anche un peso morale straordinario per un certo numero di peccati, quelli venerei «contro natura», designabili in quanto atti di lussuria come «carnali», e che perciò – in sintonia con la tradizione teologica e con la stessa dottrina tommasiana – sembrerebbero dover rivestire un’importanza non primaria (115). Qui però si apre un ulteriore problema interpretativo di ampia portata, che riguarda appunto l’assoluta singolarità di tali peccati, la cui riduzione ad una trasgressione meramente biologica (per quanto fondamentale) può a mio giudizio essere messa in dubbio confrontando vari elementi del discorso tommasiano.

Si è visto quanto poco omogeneo si presenti il vitium contra naturam nei confronti di tutte le altre forme di opposizione ai precetti «naturali». Ma si è visto anche lo scarto che lo contraddistingue, in quanto atto rivolto direttamente contra Deum, se paragonato a tutti gli altri peccati di lussuria. Tale scarto è confermato da quanto Tommaso afferma, nella Prima Secundae, trattando del livello di colpa dei peccati carnali rispetto a quelli spirituali:

Peccatum carnale, inquantum huiusmodi, est in corpus proprium; quod est minus diligendum, secundum ordinem caritatis, quam Deus et proximus, in quos peccatur per peccata spiritualia. Et ideo peccata spiritualia, inquantum huiusmodi, sunt maioris culpae (116).

Certamente nella Secunda Secundae il maestro domenicano sostiene e difende l’inserimento del «vizio contro natura» nell’ambito della lussuria, che si configura come offesa al proprio corpo (oltre che come dissoluzione del proprio animo) (117). È chiaro però che, qualificandolo come peccato che si oppone direttamente a Dio, lo accosta di fatto ai peccati spirituali e lo differenzia nettamente da tutti gli altri atti di dilettazione disordinata che semplicemente inquinano il corpo di chi li commette: quasi fosse il volto carnale di una radicale violazione del sacro (anche se, per la verità, per la loro componente di offesa al prossimo persino la semplice fornicazione, o quanto meno le sue aggravanti, dovrebbero rientrare tra i peccati spirituali).

Vari elementi, a mio giudizio, confermano questo legame con il sacro, che del resto – come ha mostrato Chiffoleau – caratterizza non solo tutta la letteratura ecclesiastica medievale, ma la stessa legislazione imperiale della tarda antichità, la quale associa alla blasfemia il nefas dei peccati contra naturam (118). «Iniuria ipsi Deo» (119), addirittura «graviora quam sacrilegii corruptela» (120), per Tommaso i peccati (o il vizio) contro natura costituiscono, paolinamente, «conveniens poena peccati idolatriae», in quanto chi ha pervertito l’ordine dell’onore divino, forgiando un altro dio nel mondo, viene abbandonato ad una condizione nella quale subisce «la vergognosa perversità della propria natura»: quasi la manifestazione nel corpo del radicale sovvertimento in cui l’idolatria consiste (121). Sullo sfondo del discorso tommasiano facilmente s’intravvede tutta la cultura teologica dei secoli XII e XIII (da Pier Damiani ad Alano di Lilla, ad Alessandro Neckam) che nel vitium nefandum e ignominiosum denuncia il crimen majestatis, avvicinandolo al delitto di eresia, e induce Innocenzo IV a teorizzare l’universale giurisdizione del papa (regni non cristiani compresi) per punire idolatri e sodomiti (122).

Pare dunque che, per approfondire il significato morale del vizio contro natura, debbano costituire un punto di riferimento imprescindibile quei passi in cui Tommaso, nella cornice della tradizionale distinzione teologica tra «peccare in se, in Deum et in proximum» (123), determina le caratteristiche dei peccati rivolti direttamente contro il primo principio. In polemica con l’opinione degli stoici secondo cui «tutti i peccati sono uguali» (124), il maestro domenicano stabilisce un ordine di gravità in relazione alla dignità della persona nei cui confronti si pecca, la quale costituisce in qualche modo l’oggetto del peccato (125): sicché non possono non essere i più gravi (a loro volta con una scala interna di gravità, riferita al livello di vicinanza a quanto è principale) quei peccati che vengono commessi «immediatamente contro Dio» (126). Come esempio vengono citati «infidelitas, blasphemia et huiusmodi»: sebbene non nominato, dovrebbe potersi comprendere tra questi ultimi anche il vizio contro natura, in quanto ingiuria diretta al supremo ordinatore.

Anche nell’articolo in cui vengono esaminate le caratteristiche di ciascuno dei tre ordini di peccato, non troviamo alcun riferimento esplicito a colui che pecca contro natura, mentre, come esempio di chi si pone direttamente contro Dio, vengono ricordati l’eretico, il sacrilego e il blasfemo (127). Ma qualora (sotto la scorta di II.II. q.154 a.12 ad1) ritenessimo tale riferimento sottinteso, finiremmo per attribuire al vizio venereo «più grave e più turpe» alcuni tratti sorprendenti: le violazioni dell’ordine divino sono infatti qui presentate come un qualche cosa di radicalmente trascendente rispetto all’ordine della razionalità umana.

La gerarchia dei tre ordini – spiega Tommaso – è tale per cui ognuno «contiene» ma nello stesso tempo «eccede» quello inferiore. Così l’ordine (intermedio) secundum regulam rationis per il quale siamo ordinati al prossimo (a cui si oppongono peccati come il furto e l’omicidio) comprende e supera quello inferiore per il quale la ragione ci dirige al rispetto di noi stessi (proibendo la gola, la lussuria e la prodigalità). A sua volta il primo ordine (quello «dello stesso Dio») per un verso contiene anche tutto quanto è inserito nell’ordine della ragione, ma propriamente riguarda un ambito di atti rivolti direttamente contro Dio «che eccedono la ragione umana, come quanto riguarda la fede ed è dovuto al solo Dio, per cui chi pecca in ciò, come l’eretico, il sacrilego e il blasfemo, viene detto peccare nei riguardi di Dio» (128). «“Sicut” ea quae sunt fidei et debentur soli Deo»: dunque c’è spazio per altre possibili offese dirette di Dio, e se anche il vitium contra naturam – come sembra – può essere enumerato tra queste, finisce per riguardare cose «quae excedunt rationem humanam».

Paradossalmente, allora, ciò che per definizione contrasta con l’ordine naturale della riproduzione, sembra violare in realtà un ambito di regole soprannaturali, che si colloca allo stesso livello dei dogmi sovrarazionali da accettare per fede e degli atti di culto comandati per divina rivelazione. Una conclusione di questo tipo, tuttavia, se evidenzia le forti tensioni che percorrono l’etica tommasiana, costituirebbe comunque a mio giudizio una forzatura: nella Questione 154 della Secunda Secundae, pur affermando che «anche i vizi contro natura sono contro Dio», nel paragonarli al sacrilegio Tommaso precisa che sono più gravi in quanto «ordo naturae humanae inditus est prior et stabilior quam quilibet alius ordo superadditus» (129). Nonostante tutto, il peccato venereo contro natura è fondamentalmente violazione di un ordine naturale e biologico che si ritiene guidare persino l’istinto degli animali irrazionali, e non è assimilabile del tutto a peccati come l’eresia, che contrasta con l’ordine gratuito della rivelazione e la cui opposizione alla ragione naturale si riduce, come spiega Tommaso, al fatto che appartiene alla «natura umana che la mente dell’uomo non si opponga all’istinto interiore e alla predicazione esteriore della verità» (130).

Rimane il fatto, ciononostante, che il peccato venereo contro natura è presentato come l’unico contro natura in assoluto, e in quanto tale si situa in un’opposizione diretta e totale al supremo ordinatore, al pari dei peccati che violano l’ordine soprannaturale promanante da Dio (e a differenza degli altri peccati contrari alle inclinazioni della legge naturale): bisogna tener presente che la teorizzazione dei legami morali tra sodomia ed eresia è anche avallo ideologico di una prassi giuridica repressiva, che individua e accomuna le devianze più radicali da estirpare come crimini nefandi (131).

E rimane, soprattutto, il fatto che, in riferimento alla gerarchia dei tre ordini, ancora meno pacificamente il peccato contro natura appare associabile ai peccati in se ipsum, come invece a rigore dovrebbe essere, tenendo conto che si tratta di un genere di lussuria.

La sodomia e gli altri peccati a questo accomunati non trovano in definitiva alcuna precisa collocazione in una casella predeterminata dell’universo morale. “Contro natura”, sono anche, a vario titolo e in maniera non uniforme, “contro persone”. Fondamentalmente esclusi, però, nella loro definizione, dall’ambito dei peccati contro altri uomini (a differenza, come si è visto, di ogni altra specie di lussuria, fornicazione semplice di fatto compresa per il suo impatto negativo sui figli nascituri), sono enumerati come se la presenza o l’assenza di violenza o di semplice danno non potessero entrare neppure nei criteri della loro classificazione interna. Nel violare il più sacro degli ordini divinamente stabiliti, quello della vita da perpetuare (o per lo meno le regole di ciò che «est secundum naturam determinatum circa usum venereum»), tale tipo di atti pare ondeggiare tra la (fondamentale e costitutiva) «spirituale» ingiuria blasfema nei riguardi di Dio, condivisa con gli altri peccati in Deum – che tuttavia infrangono un ordine propriamente soprannaturale –, e la (secondaria) «carnale» ignominia del disonore verso il proprio corpo, condivisa con le altre specie di lussuria; pare però anche passare, stando a un passo del De malo, attraverso il danno radicale (più di quello prodotto dalla fornicatio simplex) a quel «prossimo» di cui viene impedita la generazione. Questa multiforme e contrastata fisionomia bene esprime le diverse istanze teologiche e filosofiche operanti nell’etica tommasiana. Si cerca di costruire uno spazio concettuale, invero assai complesso e problematico, perché le sacre proibizioni dell’antico e del nuovo Testamento possano non solo adattarsi agli schemi classificatori della tradizione morale cristiana, ma tradursi anche nel linguaggio della natura e della ragione, prendendo come modello, per un verso, telos e logos della filosofia aristotelica e, per un altro, la lex naturalis della tradizione giuridica.

 

 

 

 

Note

 

 

(1) Cfr. M.D. Jordan, The Invention of Sodomy in Christian Theology, The University of Chicago Press, Chicago, Ill. - London 1997, p. 156. Secondo l’autore «for us, on the contrary, the category od the “erotic” or even the “sexual” is constituted by the assertion of that there is a distinctive class of pleasures whose members exceed indeed, precede the relation of the pleasuring organs to reproduction. [...] This divergence between our terms and Thomas’ does confirm, in a small way, Foucault’s assertion that our category of “sexuality” is itself a fairly recent invention». back

(2) Non sarà, tuttavia, questo l’oggetto del presente studio. Nel suo studio ormai classico sull’etica matrimoniale dei pensatori medievali, C. Schahl rilevava, comunque, come Tommaso – nel solco del pessimismo agostiniano non ammetta che il bonum sacramenti possa costituire un motivo onesto dell’atto coniugale (cfr. C. Schahl, La doctrine des fins du mariage dans la théologie scolastique, Editions franciscaines, Paris 1948, pp. 118-119). Diversa si presenta invece, a questo riguardo, la posizione di Alberto Magno: cfr. L. Brandl, Die Sexualethik des heiligen Albertus Magnus, Friedrich Pustet, Regensburg 1955, pp. 163-164, 172-174. back

(3) Ovviamente è una domanda che, con i dovuti aggiustamenti, può riguardare tutti i pensatori cristiani della tradizione ortodossa. Così, ad esempio, ci sono state ampie discussioni (cfr. Samek Lodovici, Sessualità, matrimonio e concupiscenza in sant’Agostino, in Etica sessuale e matrimonio nel cristianesimo delle origini, a c. di R. Cantalamessa, Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 212-272) sul significato complessivo della concezione agostiniana del matrimonio, nella quale un rigido generazionismo costituisce in ogni caso una componente basilare: basti pensare all’affermazione del De Genesi ad litteram (IX, 3.5 e 5.9) secondo cui la donna fu fatta all’unico scopo di aiutare l’uomo nella generazione di figli, giacché per qualsiasi altro motivo (lavoro, convivenza e conversazione) sarebbe stato più conveniente se al primo uomo, come aiuto, ne fosse stato affiancato un altro. back

(4) Basti pensare a un documento ecclesiastico ufficiale come il Catechismo della Chiesa cattolica, che, nell’articolo dedicato al sesto comandamento e particolarmente a proposito di fornicazione, prostituzione, pornografia e stupro, nel ribadire la dottrina tradizionale insiste sulla dignità della persona umana quale valore fondamentale da difendere (Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1992, p. 570 ss.). back

(5) Thomas de Aquino, Contra Gentiles, Lib. 3, cap. 122, tit. e n. 1 [26747-26748]: «Qua ratione fornicatio simplex secundum legem divinam sit peccatum: et quod matrimonium sit naturale. Ex hoc autem apparet vanam esse rationem quorundam dicentium fornicationem simplicem non esse peccatum. Dicunt enim: sit aliqua mulier a viro soluta, quae sub nullius potestate, ut patris vel alicuius alterius, existat. Si quis ad eam accedat ea volente, non facit illi iniuriam: quia sibi placet, et sui corporis habet potestatem. Alteri non facit iniuriam: quia sub nullius potestate ponitur esse. Non videtur igitur esse peccatum». L’edizione cui si fa riferimento è quella on-line del Corpus Thomisticum a cura di Enrique Alarcón: http://www.unav.es/filosofia/alarcon/amicis/ctcorpus.html (Pampilonae ad Universitatis Studiorum Navarrensis aedes A. D. MMII), per la quale sono state utilizzate le migliori edizioni correnti (in particolare, per la Summa Contra Gentiles e per la Summa Theologiae Alarcón ha riveduto il testo leonino ripreso dall’edizione su CD-ROM di Roberto Busa). Per i passi solo citati ma non riportati nelle note del presente studio, ho ritenuto opportuno fornire il relativo link. back

(6) Ivi, n.12 [26759] : «Per haec autem excluditur error dicentium in emissione seminis non esse maius peccatum quam in aliarum superfluitatum emissione; et dicentium fornicationem non esse peccatum». Si noti la componente naturalistica di questa posizione, ispirata all’idea aristotelica che il seme non sia una parte bensì un residuo dell’animale: cfr. Aristoteles, De gen. an. , I, 18, 724 b23 - 725 a21. back

(7) Cfr. R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277, Publications Universitaires - Vander Oyez, Louvain-Paris 1977 pp. 294-296. Su Andrea il Cappellano e il Roman de la Rose si può vedere anche D. Jacquart - C. Thomasset, Sexualité et savoir médical au Moyen Age, Presses Universitaires de France, Paris 1981, p. 131 ss. back

(8) Thomas de Aquino, Contra Gent., Lib. 3, cap. 122, n. 2 e 3 [26749-26750]: «Non videtur autem esse responsio sufficiens si quis dicat quod facit iniuriam Deo. Non enim Deus a nobis offenditur nisi ex eo quod contra nostrum bonum agimus ut dictum est. Hoc autem non apparet esse contra hominis bonum. Unde ex hoc non videtur Deo aliqua iniuria fieri. Similiter etiam non videtur sufficiens responsio quod per hoc fiat iniuria proximo, qui scandalizatur. Contingit enim de aliquo quod secundum se non est peccatum, aliquem scandalizari: et sic fit peccatum per accidens. Nunc autem non agimus an fornicatio simplex sit peccatum per accidens, sed per se». back

(9) Ivi, n. 4 [26751]: «Oportet igitur ex superioribus solutionem quaerere. Dictum est enim quod Deus uniuscuiusque curam habet secundum id quod est ei bonum. Est autem bonum uniuscuiusque quod finem suum consequatur: malum autem eius est quod a debito fine divertat. Sicut autem in toto, ita et in partibus hoc considerari oportet: ut scilicet unaquaeque pars hominis, et quilibet actus eius, finem debitum sortiatur. Semen autem, etsi sit superfluum quantum ad individui conservationem, est tamen necessarium quantum ad propagationem speciei. Alia vero superflua, ut egestio, urina, sudor, et similia, ad nihil necessaria sunt: unde ad bonum hominis pertinet solum quod emittantur. Non hoc autem solum quaeritur in semine, sed ut emittatur ad generationis utilitatem, ad quam coitus ordinatur […]».  back

(10) Ivi, n. 5 [26752]: «Ex quo patet quod contra bonum hominis est omnis emissio seminis tali modo quod generatio sequi non possit. Et si ex proposito hoc agatur, oportet esse peccatum. Dico autem modum ex quo generatio sequi non potest secundum se: sicut omnis emissio seminis sine naturali coniunctione maris et feminae; propter quod huiusmodi peccata contra naturam dicuntur. Si autem per accidens generatio ex emissione seminis sequi non possit, non propter hoc est contra naturam, nec peccatum: sicut si contingat mulierem sterilem esse». back

(11) Ivi, n. 12 [26757]: «Haec autem quae praemissa sunt, divina auctoritate firmantur. Quod enim emissio seminis ex qua proles sequi non potest, sit illicita, patet. Dicitur enim Levit. 18-22 “cum masculo non commisceberis coitu femineo”; et 23 “cum omni pecore non coibis”. Et I Cor. 6-10: ”neque molles, neque masculorum concubitores, regnum Dei non possidebunt”». back

(12) Questa è perlomeno l’accezione di ‘mollities’ che Tommaso – sulla scia della Summa halensis – utilizza nella Summa Theologiae (cfr. infra, nota 78), identificandola con l’immunditia, anche se nel suo commento alla prima Lettera ai Corinti i molles (termine con cui la Vulgata traduce il paolino ‘malakoi’) vengono identificati con i mares muliebria patientes, cioè omosessuali passivi, e contrapposti ai concubitores masculorum (arsenokoitai), cioè omosessuali attivi: cfr. J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo, trad. E. Lauzi, (ed. or. Chicago 1980), Leonardo, Milano 1989, pp. 411-412. Sui problemi di interpretazione del passo di san Paolo, cfr. D.S. Bailey, Homosexuality and the Western Christian Tradition, Longmans, Green and Co., Ltd., London 1955, p. 37 ss. back

(13) Si veda ad esempio Thomas de Aquino, Super Sent., Lib. 3, d. 3, q. 5, a. 1, resp. [7892]. Cfr. M.D. Jordan, Medicine and Natural Philosophy in Aquinas, in Thomas von Aquin. Werk und Wirkung im Licht neuerer Forschungen, hrsg. v. A. Zimmermann, Miscellanea Mediaevalia 19, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1988, pp. 233-246. back

(14) V. infra, nota 78. back

(15) Cfr. Jacquart-Thomasset, Sexualité et savoir médical, pp. 213, 219; Bailey, Homosexuality and the Western Christian Tradition, p. 163. Circa i dibattiti medievali sullo sperma mulieris si può vedere R. Martorelli Vico, Medicina e filosofia. Per una storia dell’embriologia medievale nel XIII e XIV secolo, Guerini e associati, Milano 2002. back

(16) Thomas de Aquino, Contra Gent., Lib. 3, cap. 122, n. 4 [26751]: «[…] Frustra autem esset hominis generatio nisi et debita nutritio sequeretur: quia generatum non permaneret, debita nutritione subtracta. Sic igitur ordinata esse seminis debet emissio ut sequi possit et generatio conveniens, et geniti educatio». back

(17) Ivi, n. 6 [26753]: «Similiter etiam oportet contra bonum hominis esse si semen taliter emittatur quod generatio sequi possit, sed conveniens educatio impediatur. Est enim considerandum quod in animalibus in quibus sola femina sufficit ad prolis educationem, mas et femina post coitum nullo tempore commanent, sicut patet in canibus. Quaecumque vero animalia sunt in quibus femina non sufficit ad educationem prolis, mas et femina simul post coitum commanent quousque necessarium est ad prolis educationem et instructionem: sicut patet in quibusdam avibus, quarum pulli non statim postquam nati sunt possunt sibi cibum quaerere. Cum enim avis non nutriat lacte pullos, quod in promptu est, velut a natura praeparatum, sicut in quadrupedibus accidit, sed oportet quod cibum aliunde pullis quaerat, et praeter hoc, incubando eos foveat: non sufficeret ad hoc sola femella. Unde ex divina providentia est naturaliter inditum mari in talibus animalibus, ut commaneat femellae ad educationem fetus. Manifestum est autem quod in specie humana femina minime sufficeret sola ad prolis educationem: cum necessitas humanae vitae multa requirat quae per unum solum parari non possunt. Est igitur conveniens secundum naturam humanam ut homo post coitum mulieri commaneat, et non statim abscedat, indifferenter ad quamcumque accedens, sicut apud fornicantes accidit». back

(18) Ivi, n. 7 [26754] e n. 8 [26755]. back

(19) Ivi, n. 11 [26758]: «Quod etiam fornicatio, et omnis coitus praeter propriam uxorem, sit illicitus patet. Dicitur enim Deut. 23-17: “non erit meretrix de filiabus Israel, nec scortator de filiis Israel”. Et Tobiae 4-13: “attende tibi ab omni fornicatione, et praeter uxorem tuam, non patiaris crimen scire”. Et I Cor. 6-18: “fugite fornicationem”». back

(20) Ivi, n. 9 [26756]: «Nec tamen oportet reputari leve peccatum esse si quis seminis emissionem procuret praeter debitum generationis et educationis finem, propter hoc quod aut leve aut nullum peccatum est si quis aliqua sui corporis parte utatur ad alium usum quam ad eum ad quem est ordinata secundum naturam, ut si quis, verbi gratia, manibus ambulet, aut pedibus aliquid operetur manibus operandum : quia per huiusmodi inordinatos usus bonum hominis non multum impeditur; inordinata vero seminis emissio repugnat bono naturae, quod est conservatio speciei. Unde post peccatum homicidii, quo natura humana iam in actu existens destruitur, huiusmodi genus peccati videtur secundum locum tenere, quo impeditur generatio humanae naturae». back

(21) Si veda ad esempio J. Chiffoleau, Contra naturam. Pour une approche casuistique et procédurale de la nature médiévale, «Micrologus» 4 (1996), pp. 265-311: 272-273. L’innominabilità dei peccati contro natura è affermata da Tommaso già nelle Sentenze. Cfr. Thomas de Aquino, IV Sent., d. 41, q. 1, a. 4, qc. 2, resp. [20895] «Ad secundam quaestionem dicendum, quod species luxuriae distinguuntur primo per concubitum secundum naturam et contra naturam. Sed quia luxuria contra naturam innominabilis est, relinquatur. Si autem sit peccatum in concubitu secundum naturam, tunc aut non addit aliquam deformitatem super luxuriae genus, et sic est fornicatio: aut addit; et hoc dupliciter; quia vel quantum ad modum agendi, et sic est raptus, qui violentiam importat; vel ex conditione ejus cum qua luxuria committitur; et haec conditio vel est ipsius absolute, sicut virginitas, et sic est stuprum; vel est ipsius in ordine ad alterum; et hoc, vel ad concumbentem cum ea, sicut est conditio affinitatis vel consanguinitatis, et sic est incestus; vel ad alium aliquem, sicut est matrimonium; et sic est adulterium». back

(22) Cfr. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 335-362, 413-415. Più recentemente, anche Robert Moore individuava nel secolo XII una tappa fondamentale per la formazione – legata alla crisi del mondo feudale – di una società persecutrice nei confronti di eretici, ebrei, sodomiti ed altre forme di devianza: cfr. R.I. Moore, The Formation of a Persecuting Society, Blackwell, Malden, Massachusetts 1987, p. 91 ss. back

(23) Cfr. infra, nota 40. back

(24) Cfr. Thomas de Aquino, Contra Gent., Lib. 3, cap. 128 [26808-26815]. back

(25) D’altra parte è anche vero che nel cap. 123 n. 6 [26766] Tommaso individua nell’«amicizia grandissima» tra marito e moglie, dovuta alla loro unione carnale e alla comunanza di tutta la vita domestica, uno dei motivi che fondano l’indissolubilità del matrimonio. back

(26) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 153, a. 1, resp., ad 1 [45092, 45093]: «Respondeo dicendum quod, sicut Isidorus dicit, in libro Etymol., luxuriosus aliquis dicitur quasi solutus in voluptates. Maxime autem voluptates venereae animum hominis solvunt. Et ideo circa voluptates venereas maxime luxuria consideratur. […] Ad primum ergo dicendum quod, sicut temperantia principaliter quidem et proprie est circa delectationes tactus, dicitur autem ex consequenti et per similitudinem quandam in quibusdam aliis materiis; ita etiam luxuria principaliter quidem est in voluptatibus venereis, quae maxime et praecipue animum hominis resolvunt; secundario aut dicitur in quibuscumque aliis ad excessum pertinentibus [...]». Cfr. Isidorus Hispalensis, Etymologiae, ad litt. L, PL 82, 384. La fortuna della categoria di ‘lussuria’ nelle dottrine morali dell’Occidente cristiano è legato al fatto che Girolamo utilizzò questo termine, attinto alla tradizione etica della Roma antica, per tradurre in latino vari termini, tra di loro diversi, del Vecchio e del Nuovo Testamento: cfr. Jordan, The Invention of Sodomy, p. 37 ss. back

(27) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 153, a. 3, resp. [45109]: «Respondeo dicendum quod quanto aliquid est magis necessarium, tanto magis oportet ut circa illud rationis ordo servetur. Unde per consequens magis est vitiosum si ordo rationis praetermittatur. Usus autem venereorum, sicut dictum est, est valde necessarius ad bonum commune, quod est conservatio humani generis. Et ideo circa hoc maxime attendi debet rationis ordo. Et per consequens, si quid circa hoc fiat praeter id quod ordo rationis habet, vitiosum erit. Hoc autem pertinet ad rationem luxuriae, ut ordinem et modum rationis excedat circa venerea. Et ideo absque dubio luxuria est peccatum»; ivi, q. 154, a. 1, resp. [45139]: «Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, peccatum luxuriae consistit in hoc quod aliquis non secundum rectam rationem delectatione venerea utitur […]». back

(28) Ivi, q. 154, Prooemium [45131]: «Deinde considerandum est de luxuriae partibus. Et circa hoc quaeruntur duodecim. Primo, de divisione partium luxuriae. Secundo, utrum fornicatio simplex sit peccatum mortale. Tertio, utrum sit maximum peccatorum. Quarto, utrum in tactibus et osculis et aliis huiusmodi illecebris consistat peccatum mortale. Quinto, utrum nocturna pollutio sit peccatum. Sexto, de stupro. Septimo, de raptu. Octavo, de adulterio. Nono, de incestu. Decimo, de sacrilegio. Undecimo, de peccato contra naturam. Duodecimo, de ordine gravitatis in praedictis speciebus». Si noti che nel quarto articolo si tratta della colpevolezza mortale di atti che non comportano un’emissione di seme, e la risposta è positiva qualora «baci, abbracci e cose di questo tipo» non avvengano absque libidine bensì propter delectationem: ivi, q. 154, a. 4, resp. [45175]. Cfr. Bailey, Homosexuality and the Western Christian Tradition, pp. 117-118. back

(29) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2, arg. 1 e ad 1 [45146, 45156]: «Ad secundum sic proceditur. Videtur quod fornicatio simplex non sit peccatum mortale. Ea enim quae simul connumerantur, videntur esse unius rationis. Sed fornicatio connumeratur quibusdam quae non sunt peccata mortalia, dicitur enim Act. XV [29], “abstineatis vos ab immolatis simulacrorum, et sanguine et suffocato, et fornicatione”; illorum autem usus non est peccatum mortale, secundum illud I ad Tim. IV [4], “nihil reiiciendum quod cum gratiarum actione percipitur”. Ergo fornicatio non est peccatum mortale. […] Ad primum ergo dicendum quod fornicatio illis connumeratur, non quia habeat eandem rationem culpae cum aliis, sed quantum ad hoc, quod ex his quae ibi ponuntur similiter poterat dissidium generari inter Iudaeos et gentiles, et eorum unanimis consensus impediri. Quia apud gentiles fornicatio simplex non reputabatur illicita, propter corruptionem naturalis rationis, Iudaei autem, ex lege divina instructi, eam illicitam reputabant. Alia vero quae ibi ponuntur, Iudaei abominabantur propter consuetudinem legalis conversationis. Unde apostoli ea gentilibus interdixerunt, non quasi secundum se illicita, sed quasi Iudaeis abominabilia, ut etiam supra dictum est». Si noti che in altri casi invece (lì dove, come a proposito del carattere penale della morte, egli ritiene che solo la luce della rivelazione divina possa darci una risposta certa) Tommaso giustifica i pagani, come Seneca, che non furono in grado di approdare alla verità, mentre Bonaventura di fatto chiama in causa la corruzione postlapsaria della ragione anche per il mancato riconoscimento dell’esistenza di una colpa primitiva: cfr. L. Cova, «Morte e immortalità del composto umano nella teologia francescana del XIII secolo», in C. Casagrande - S. Vecchio (ed.), Anima e corpo nella cultura medievale, SISMEL Edizioni del Galluzzo, Firenze 1999, p. 108; Id., Utrum peccatum originale sit. Le prove di una prima prevaricazione nella riflessione di Bonaventura e nel pensiero francescano del XIII secolo, «Doctor seraphicus» 45 (1998), pp. 63-97: 79. back

(30) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2, arg. 2 e ad 2 [45147, 45157]: «Praeterea, nullum peccatum mortale cadit sub praecepto divino. Sed Osee I [2] praecipitur a domino, “vade, sume tibi uxorem fornicationum, et fac filios fornicationum”. Ergo fornicatio non est peccatum mortale. […] Ad secundum dicendum quod fornicatio dicitur esse peccatum, inquantum est contra rationem rectam. Ratio autem hominis recta est secundum quod regulatur voluntate divina, quae est prima et summa regula. Et ideo quod homo facit ex voluntate Dei, eius praecepto obediens, non est contra rationem rectam, quamvis videatur esse contra communem ordinem rationis, sicut etiam non est contra naturam quod miraculose fit virtute divina, quamvis sit contra communem cursum naturae. Et ideo, sicut Abraham non peccavit filium innocentem volendo occidere, propter hoc quod obedivit Deo, quamvis hoc, secundum se consideratum, sit communiter contra rectitudinem rationis humanae; ita etiam Osee non peccavit fornicando ex praecepto divino. Nec talis concubitus proprie fornicatio debet dici, quamvis fornicatio nominetur referendo ad cursum communem […]». back

(31) Ivi, arg. 6 e ad 6 [45151, 45161]: «Praeterea, sicut Augustinus dicit, in libro de Bon. Coniug., “quod est cibus ad salutem corporis, hoc est concubitus ad salutem generis”. Sed non omnis inordinatus usus ciborum est peccatum mortale. Ergo nec omnis inordinatus concubitus. Quod maxime videtur de fornicatione simplici, quae minima est inter species enumeratas. […] Ad sextum dicendum quod ex uno concubitu potest unus homo generari. Et ideo inordinatio concubitus, quae impedit bonum prolis nasciturae, ex ipso genere actus est peccatum mortale, et non solum ex inordinatione concupiscentiae. Ex una autem comestione non impeditur bonum totius vitae unius hominis, et ideo actus gulae ex suo genere non est peccatum mortale. Esset tamen si quis scienter cibum comederet qui totam conditionem vitae eius immutaret, sicut patet de Adam. Nec tamen fornicatio est minimum peccatorum quae sub luxuria continentur. Minus enim est concubitus cum uxore qui fit ex libidine». Cfr. Augustinus, De bono coniugali, 16 (PL 40, 385). back

(32) Ivi, arg. 4 [45149]: «Praeterea, omne peccatum mortale contrariatur caritati. Sed fornicatio simplex non contrariatur caritati, neque quantum ad dilectionem Dei, quia non est directe peccatum contra Deum; nec etiam quantum ad dilectionem proximi, quia per hoc homo nulli homini facit iniuriam. Ergo fornicatio simplex non est peccatum mortale». back

(33) Ivi, ad 4 [45159]: «Ad quartum dicendum quod fornicatio simplex contrariatur dilectioni proximi quantum ad hoc, quod repugnat bono prolis nasciturae, ut ostensum est, dum scilicet dat operam generationi non secundum quod convenit proli nasciturae». Cfr. anche ivi, resp. [45155], il passo cui siriferisce la nota 41. back

(34) Mentre la Secunda Secundae fu redatta a Parigi tra il 1271 e il 1272, le sedici Questioni De malo probabilmente furono disputate intorno al 1270, e le prime quindici pubblicate prima del 1272: cfr. J. P. Torrell, Tommaso d’Aquino. L’uomo e il teologo, trad. P. Giustiniani – G. Matera, (ed. or. Fribourg 1993), Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 166-184, 228-233. back

(35) Thomas de Aquino, De malo, q. 15, a. 2, arg. 4 e ad 4 [63410-63431]: «Praeterea, omne peccatum mortale contrariatur caritati, per quam est animae vita, secundum illud I Ioan. III, 14: “translati sumus de morte ad vitam quoniam diligimus fratres”. Sed simplex fornicatio non contrariatur neque dilectioni Dei, quia non est peccatum in Deum, neque etiam dilectioni proximi, quia proximo non facit iniuriam: mulier enim sui iuris existens quae in actum simplicis fornicationis consentit, iniuriam non patitur, quia nullus patitur iniustum volens, ut philosophus dicit in V Ethic. Ergo fornicatio secundum suum genus non est peccatum mortale. […] Ad quartum dicendum, quod omnes corruptiones luxuriae, quae sunt praeter legitimum matrimonii usum, sunt peccata in proximum, in quantum sunt contra bonum prolis generandae et educandae, sicut dictum est». back

(36) Nel recente libro dedicato ai sette vizi capitali nel Medioevo, Carla Casagrande e Silvana Vecchio mettono bene in luce come con questa posizione Tommaso esprima un sentire comune nell’orizzonte culturale e religioso (teologi, predicatori e confessori) all’interno del quale è situato: «La fornicazione semplice, un rapporto sessuale tra persone libere da vincoli matrimoniali (solutus cum soluta) non è infatti in linea di principio un impedimento alla generazione; non esclude che l'uomo e la donna si congiungano carnalmente per procreare e nemmeno che lo facciano con il freno della temperanza, così come accade tra coniugi virtuosi; eppure, a differenza di quei coniugi, quell'uomo e quella donna, in quanto soluti, peccano. La loro colpa sta nello spezzare non tanto il legame tra sesso e generazione, quanto quello tra sesso e società. Uniti da un rapporto occasionale non riconosciuto dalla legge, liberi da ogni obbligo di fedeltà, generano figli dalla paternità incerta che non potranno per questo ricevere dai padri l'educazione di cui hanno bisogno per entrare a far parte della comunità sociale. La fornicazione semplice, spiega Tommaso, è un peccato contro il nascituro, condannato, nel momento in cui viene concepito, a non avere un padre e dunque a non essere da questi difeso, istruito e provvisto dei necessari beni esteriori e interiori». C. Casagrande - S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000, p. 177. back

(37) Cfr. Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 153, a. 3, resp.; q. 154, a. 2, resp.; q. 154, a. 9, ad 3. I due aspetti, d’altra parte, si possono considerare convergenti piuttosto che alternativi, se si tiene presente che il provvedere agli altri (singoli) è avvicinabile, per Tommaso, al «provvedere alla natura comune», in quanto contrapposti entrambi al mero «provvedere a se stessi» dell’autoconservazione individuale. Cfr. Id., Contra impugnantes, p. 2, c. 4, ad 1 [69424]: «[…] Sunt enim quaedam legis naturae praecepta per quorum impletionem non providetur nisi implenti, sicut praeceptum de manducando. […] Sunt etiam quaedam praecepta legis naturae quibus homo non sibi providet, sed naturae communi: sicut praeceptum de actu generativae virtutis, quo species humana multiplicatur et salvatur; vel etiam quibus homo non soli sibi, sed aliis providere potest […]». Sulla centralità, in Tommaso, dell’idea di ‘bonum commune’ (fondamentalmente Dio stesso e la comunità politica) come superiore al bene individuale, si veda M.S. Kempshall., The Common Good in Late Medieval Political Thought, Clarendon Press, Oxford 1999, p. 102 ss. back

(38) Cfr. infra, note 78 e 80. back

(39) Tommaso inizia la sua lunga conclusione rilevando come la fornicazione semplice sia sempre peccato mortale, compreso il rapporto con prostitute, che non è venialis bensì venalis. Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2, resp. [45155]: «Respondeo dicendum quod absque omni dubio tenendum est quod fornicatio simplex sit peccatum mortale, non obstante quod Deut. XXIII [17], super illud, non erit meretrix etc., dicit Glossa, “ad eas prohibet accedere quarum est venialis turpitudo”. Non enim debet dici venialis, sed venalis, quod est proprium meretricum […]» (in De malo, q. 15, a. 2, arg. 11 e ad 11, Tommaso rileva che il testo di tale glossa è corrotto). La glossa citata è quella di Agostino: cfr. Augustinus, Quaestiones in Heptat., V, q. 37, super Deut. 23, 17 (PL 34, 763), che anche nell’edizione del Corpus Christianorum (CChL 33, 295) presenta ‘venalis’, senza segnalazione di varianti nell’apparato critico. L’unico peccato veniale in venereis è possibile, per Tommaso, all’interno del matrimonio, quando l’atto coniugale, pur nel rispetto della finalità procreativa e con l’intenzione di non violare l’ordine del fine ultimo, è compiuto ex libidine: cfr. ivi, resp. e Summa theol., II.II., q. 154, a. 2, ad 6. back

(40) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2, resp. [45155]: «[…] Videmus enim in omnibus animalibus in quibus ad educationem prolis requiritur cura maris et feminae, quod in eis non est vagus concubitus, sed maris ad certam feminam, unam vel plures, sicut patet in omnibus avibus. Secus autem est in animalibus in quibus sola femina sufficit ad educationem fetus in quibus est vagus concubitus, ut patet in canibus et aliis huiusmodi animalibus. Manifestum est autem quod ad educationem hominis non solum requiritur cura matris, a qua nutritur, sed multo magis cura patris, a quo est instruendus et defendendus, et in bonis tam interioribus quam exterioribus promovendus. Et ideo contra naturam hominis est quod utatur vago concubitu, sed oportet quod sit maris ad determinatam feminam, cum qua permaneat, non per modicum tempus, sed diu, vel etiam per totam vitam. Et inde est quod naturaliter est maribus in specie humana sollicitudo de certitudine prolis, quia eis imminet educatio prolis. Haec autem certitudo tolleretur si esset vagus concubitus. Haec autem determinatio certae feminae matrimonium vocatur. Et ideo dicitur esse de iure naturali. Sed quia concubitus ordinatur ad bonum commune totius humani generis; bona autem communia cadunt sub determinatione legis, ut supra habitum est, consequens est quod ista coniunctio maris ad feminam, quae matrimonium dicitur, lege aliqua determinetur. Qualiter autem sit apud nos determinatum, in tertia parte huius operis agetur, cum de matrimonii sacramento tractabitur. Unde, cum fornicatio sit concubitus vagus, utpote praeter matrimonium existens, est contra bonum prolis educandae. Et ideo est peccatum mortale. Nec obstat si aliquis fornicando aliquam cognoscens, sufficienter provideat proli de educatione. Quia id quod cadit sub legis determinatione, iudicatur secundum id quod communiter accidit, et non secundum id quod in aliquo casu potest accidere». Si noti che l’espressione ‘vagus concubitus’ non è usata nella Contra Gentiles. In De malo, q. 15, a. 2, ad 12 [63439], Tommaso si richiama alla Politica di Aristotele: «Ad duodecimum dicendum, quod actus generationis ordinatur ad bonum speciei, quod est bonum commune. Bonum autem commune est ordinabile lege; sed bonum privatum subiacet ordinationi uniuscuiusque. Et ideo quamvis in actu nutritivae virtutis, quae ordinatur ad conservationem individui, unusquisque possit sibi determinare cibum convenientem sibi; tamen determinare qualis debeat esse generationis actus non pertinet ad unumquemque, sed ad legislatorem, cuius est ordinare de propagatione filiorum, ut etiam philosophus dicit in II Polit. Lex autem non considerat quid in aliquo casu accidere possit, sed quid convenienter esse consuevit; et ideo licet in aliquo casu possit salvari intentio naturae in actu fornicario quantum ad generationem prolis et educationis; nihilominus actus est secundum se inordinatus, et peccatum mortale». Nel II Libro della Politica Aristotele riferisce, tra l’altro, la legislazione spartana (cap. 9, 1270 a39-b4) e quella tebana (cap. 12, 1274 b1-5) sulla procreazione dei figli. back

(41) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 2, resp. [45155]. back

(42) Ivi, a. 3, resp. [45166]: «Respondeo dicendum quod gravitas peccati alicuius attendi potest dupliciter, uno modo, secundum se; alio modo, secundum accidens. Secundum se quidem attenditur gravitas peccati ex ratione suae speciei, quae consideratur secundum bonum cui peccatum opponitur. Fornicatio autem est contra bonum hominis nascituri. Et ideo est gravius peccatum secundum speciem suam peccatis quae sunt contra bona exteriora, sicut est furtum et alia huiusmodi, minus autem peccatis quae sunt directe contra Deum, et peccato quod est contra vitam hominis iam nati, sicut est homicidium». back

(43) Ivi, a. 1 (Utrum convenienter assignentur sex species luxuriae), arg. 1, sed contra [45132, 45138]: «Ad primum sic proceditur. Videtur quod inconvenienter assignentur sex species luxuriae, scilicet, fornicatio simplex, adulterium, incestus, stuprum, raptus et vitium contra naturam. [...] Sed contra est quod praedicta divisio ponitur in decretis, XXXVI Caus., qu. I». Cfr. Gratianus, Decretum, II, 36, 1, 2 (ed. Richter-Friedberg I, 1288), che tuttavia distingue cinque tipi di illicitus coitus (i primi cinque della lista presentata da Tommaso), così come fa poi anche Pietro Lombardo in IV Sent., d. 41, cap. 5-9 (ed. Ad Claras Aquas, Grottaferrata 1981, II, p. 500). Cfr. Jordan, The Invention of Sodomy, p. 144. Tommaso, comunque, successivamente riconosce che l’inserimento del vitium contra naturam costituisce un’integrazione del Decretum: cfr. Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 11, arg. 1, ad 1 [45229, 45234]: «Ad undecimum sic proceditur. Videtur quod vitium contra naturam non sit species luxuriae. Quia in praedicta enumeratione specierum luxuriae nulla fit mentio de vitio contra naturam. Ergo non est species luxuriae. […] Ad primum ergo dicendum quod ibi enumerantur species luxuriae quae non repugnant humanae naturae. Et ideo praetermittitur vitium contra naturam». Nelle Quaestiones de malo il maestro domenicano, per giustificare l’elenco, oltre a ricorre all’auctoritas del Magister, presenta (in breve) una strutturazione sistematica che non coincide con quella della Secunda Secundae. Cfr. Id., De malo, q. 15, a. 3, sed contra, resp. [63451, 63452]: «Sed contra, est quod Magister in IV Sent., has species assignat. Respondeo. Dicendum quod sicut supra dictum est, peccatum luxuriae dupliciter habet inordinationem. Uno quidem modo ex parte concupiscentiae; et talis inordinatio non semper facit peccatum mortale. Alio modo ex parte ipsius actus, qui de se est inordinatus; et sic semper est peccatum mortale. Et ideo ex hac parte, ex qua est maior gravitas peccati, sumuntur species praedictae luxuriae. Est autem actus luxuriae inordinatus aut ex hoc quod non potest sequi ex actu generatio prolis: et sic est vitium contra naturam; aut ex eo quod non potest sequi debita educatio, quia scilicet mulier non est determinata viro, ut sit sua secundum legem matrimonii; et hoc quidem contingit tripliciter. Primo quia simpliciter non est determinata, ut sit sua; et sic est fornicatio, quae est concubitus soluti cum soluta; et sic dicitur a fornice, idest ab arcu triumphali, quia ad huiusmodi spectacula conveniebant mulieres quae se prostituebant. Secundo, quia non est determinabilis; et hoc vel propter propinquitatem, ex qua reverentia quaedam debetur contraria tali actui; et sic est incestus, qui est concubitus cum consanguinea, vel affini: aut propter aliquam sanctitatem vel puritatem; et sic est stuprum, quae est illicita defloratio virginum. Tertio, quia mulier est alterius, vel secundum legem matrimonii, et sic est adulterium; vel secundum aliquem alium modum, et sic est raptus, puta cum puella rapitur de domo patris, cuius curae subiacet». Già nelle Sentenze Tommaso aveva difeso l’articolazione della lussuria in sei specie. Cfr. il passo citato nella nota 21 e, limitatamente ai «concubiti secondo natura», anche Id. IV Sent., d. 41, q. 1, a. 4, qc. 1, resp. [20892]: «Respondeo dicendum ad primam quaestionem, quod sicut supra, dist. 16, qu. 3, art. 2, quaestiunc. 3, in corp., dictum est, circumstantia peccatum in aliud genus mutat, quando alterius generis peccati deformitatem addit; et secundum hoc, isti luxuriae modi qui hic ponuntur, differunt specie; quia fornicatio non importat, quantum est de se, aliam deformitatem nisi quae ad genus luxuriae pertinet, est enim soluti cum soluta; et dicitur fornicatio a fornice, quia juxta fornices, idest arcus triumphales, et in aliis locis ubi homines conveniebant, congregabantur meretrices, et ibi polluebantur. Sed stuprum, quod est illicita virginum defloratio, addit aliam deformitatem, scilicet damnificationem mulieris violatae, quae non est ita apta ad nubendum sicut ante; et haec damnificatio etiam per se specialem legis prohibitionem habet. Similiter etiam adulterium, quod est alterius tori violatio, addit specialem deformitatem alterius generis, quae est ex usu rei alienae illicito, quod pertinet ad genus injustitiae. Similiter etiam incestus, qui est consanguinearum vel affinium abusus, ab incendio nomen habens, vel a privatione castitatis, quasi antonomastice, quia castitatem violat in illis qui maximo foedere conjunguntur, addit specialem deformitatem, scilicet naturalis foederis violationem. Similiter etiam raptus, qui committitur ex hoc quod puella a domo patris violenter abducitur, ut corrupta in matrimonium habeatur, sive vis puellae seu parentibus illata constiterit, patet quod alterius generis deformitatem addit, scilicet violentiam, quam lex in quacumque re prohibet; et sic patet quod sunt diversae species peccatorum; unde etiam circumstantiae quibus diversificantur, non sunt in confessione omittendae». Sulla strutturazione della luxuria in varie specie a partire dalla metà del XII secolo cfr. Casagrande -Vecchio, I sette vizi capitali, p. 176 ss. back

(44) Cfr. infra, note 48 e 49. back

(45) Ciò, del resto, vale anche per gli altri peccati: sulla materia-oggetto come criterio di classificazione dei peccati in generale, cfr. ad esempio Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., Prooem. [38736] : «[…] Ostensum est enim supra quod vitia et peccata diversificantur specie secundum materiam vel obiectum, non autem secundum alias differentias peccatorum, puta cordis, oris et operis, vel secundum infirmitatem, ignorantiam et malitiam, et alias huiusmodi differentias; est autem eadem materia circa quam et virtus recte operatur et vitia opposita a rectitudine recedunt […]». back

(46) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 1, resp. [45139]: «[…] Diversificantur autem istae species magis ex parte feminae quam viri. Quia in actu venereo femina se habet sicut patiens et per modum materiae, vir autem per modum agentis. Dictum est autem quod praedictae species secundum differentiam materiae assignantur». back

(47) Ibid.: «Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, peccatum luxuriae consistit in hoc quod aliquis non secundum rectam rationem delectatione venerea utitur. Quod quidem contingit dupliciter, uno modo, secundum materiam in qua huiusmodi delectationem quaerit; alio modo, secundum quod, materia debita existente, non observantur aliae debitae conditiones. Et quia circumstantia, inquantum huiusmodi, non dat speciem actui morali, sed eius species sumitur ab obiecto, quod est materia actus; ideo oportuit species luxuriae assignari ex parte materiae vel obiecti [...]»; ivi, ad 1 [45140]: «Ad primum ergo dicendum quod praedicta diversitas materiae habet annexam diversitatem formalem obiecti, quae accipitur secundum diversos modos repugnantiae ad rationem rectam, ut dictum est». back

(48) Ivi, resp. [45139]: «[…] Quae quidem potest non convenire rationi rectae dupliciter. Uno modo, quia habet repugnantiam ad finem venerei actus. Et sic, inquantum impeditur generatio prolis, est vitium contra naturam, quod est in omni actu venereo ex quo generatio sequi non potest. Inquantum autem impeditur debita educatio et promotio prolis natae, est fornicatio simplex, quae est soluti cum soluta […]». back

(49) Ibid.: «Alio modo materia in qua exercetur actus venereus, potest esse non conveniens rationi rectae per comparationem ad alios homines. Et hoc dupliciter. Primo quidem, ex parte ipsius feminae cui aliquis commiscetur, quia ei debitus honor non servatur. Et sic est incestus, qui consistit in abusu mulierum consanguinitate vel affinitate iunctarum. Secundo, ex parte eius in cuius potestate est femina. Quia si est in potestate viri, est adulterium, si autem est in potestate patris, est stuprum, si non inferatur violentia; raptus autem, si inferatur […]». back

(50) Non mi sembra infatti che ‘abusus’ implichi un’idea di coazione. La violazione, piuttosto, è quella del patto o vincolo naturale della consanguineità: si veda il passo del commento alle Sentenze riportato nella nota 43. back

(51) Che ‘stupro’ significhi illeciti rapporti con una donna, senza necessariamente comportare costrizione, è tradizione consolidata a partire dal diritto romano. L’accezione attuale è invece debitrice del Codice napoleonico (quello stesso, tra l’altro, che per primo espunse la «sodomia» dall’elenco dei reati), ed è codificata persino in documenti ecclesiastici ufficiali: cfr. Catechismo della Chiesa cattolica, p. 575. Dal 1996 nella legislazione italiana la violenza sessuale è sanzionata nell’ambito dei diritti della persona umana, e non appartiene più alla sfera generica della moralità e del buon costume: cfr. G. Ambrosini, Le nuove norme sulla violenza sessuale, UTET, Torino 1997, p. 4. back

(52) Spazio che si riduce all’«onore» della donna, a conferma del fatto che, anche a proposito dell’incesto, il punto di vista è sempre quello dell’agens maschile. back

(53) Si tratta, come vedremo, di un’implicita ammissione che gli atti «contro natura» non comportano di per sé ingiuria al prossimo, e d’altra parte di un silenzio completo riguardo alle violenze che in certi casi di fatto li accompagnano. back

(54) Sulla polisemia e sulla complessa storia dei termini ‘sodomitico’ e ‘sodomia’ (al punto che lo stesso peccato biblico degli abitanti di Sodoma fu oggetto nella tradizione cristiana occidentale di interpretazioni assai diverse, inizialmente addirittura in chiave non sessuale) può essere sufficiente rinviare agli studi già citati di Bailey, Boswell e Jordan. back

(55) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 1, ad 2 [45141]: «Ad secundum dicendum quod nihil prohibet in eodem actu diversorum vitiorum deformitates concurrere, ut supra dictum est. Et hoc modo adulterium continetur sub luxuria et sub iniustitia […]». back

(56) Ivi, arg. 2 [45133]: «Praeterea, species vitii unius non videntur diversificari per ea quae pertinent ad aliud vitium. Sed adulterium non differt a simplici fornicatione nisi in hoc quod aliquis accedit ad eam quae est alterius, et sic iniustitiam committit. Ergo videtur quod adulterium non debet poni species luxuriae». back

(57) Ivi, ad 2 [45141]: «[…] Nec deformitas iniustitiae omnino per accidens se habet ad luxuriam. Ostenditur enim luxuria gravior quae in tantum concupiscentiam sequitur quod etiam in iniustitiam ducat». back

(58) Ivi, q.6, arg. 3 e ad 3 [45189, 45194]: «Praeterea, inferre alicui iniuriam videtur magis ad iniustitiam quam ad luxuriam pertinere. Sed ille qui stuprum committit, iniuriam facit alteri, scilicet patri puellae quam corrumpit, qui potest ad animum suam iniuriam revocare, et agere actione iniuriarum contra stupratorem. Ergo stuprum non debet poni species luxuriae. […] Ad tertium dicendum quod nihil prohibet unum peccatum ex adiunctione alterius deformius fieri. Fit autem deformius peccatum luxuriae ex peccato iniustitiae, quia videtur concupiscentia esse inordinatior quae a delectabili non abstinet ut iniuriam vitet […]». back

(59) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 153, a. 1, arg. 1 [45088]: «Ad primum sic proceditur. Videtur quod materia luxuriae non sit solum concupiscentiae et delectationes venereae […]»; ivi, resp.: cfr. supra, nota 26. back

(60) Ivi, q. 154, a. 9, resp. [45217] «Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, ibi necesse est inveniri determinatam speciem luxuriae, ubi invenitur aliquid repugnans debito usui venereorum. In usu autem consanguinearum vel affinium invenitur aliquid incongruum commixtioni venereae, triplici ratione. Primo quidem, quia naturaliter homo debet quandam honorificentiam parentibus, et per consequens aliis consanguineis, qui ex eisdem parentibus de propinquo originem trahunt, in tantum quod apud antiquos, ut Maximus Valerius refert, non erat fas filium simul cum patre balneari, ne scilicet se invicem nudos conspicerent. Manifestum est autem secundum praedicta quod in actibus venereis maxime consistit quaedam turpitudo honorificentiae contraria, unde de his homines verecundantur. Et ideo incongruum est quod commixtio venerea fiat talium personarum ad invicem. Et haec causa videtur exprimi Levit. XVIII [7], ubi dicitur, “mater tua est, non revelabis turpitudinem eius”». Cfr. Valerius Maximus, Factorum et dictorum memorabilium libri novem, II, 1, 7 (ed. C. Kempf, Teubner, Leipzig 1888; repr. Stuttgart 1966, p. 59). back

(61) Si veda, a questo proposito, il contributo di Tiziana Suarez-Nani su questo stesso numero di «Etica e politica». back

(62) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 10, resp. [45225]: «Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, actus unius virtutis vel vitii ordinatus ad finem alterius, assumit speciem illius, sicut furtum quod propter adulterium committitur, transit in speciem adulterii. Manifestum est autem quod observatio castitatis secundum quod ordinatur ad cultum Dei, sit actus religionis, ut patet in illis qui vovent et servant virginitatem, ut patet per Augustinum, in libro de virginitate. Unde manifestum est quod etiam luxuria, secundum quod violat aliquid ad divinum cultum pertinens, pertinet ad speciem sacrilegii. Et secundum hoc, sacrilegium potest poni species luxuriae». Cfr. Augustinus, De sancta virginitate, 8 (PL 40, 400). back

(63) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 10, ad 2 [45227]: «Ad secundum dicendum quod ibi [in Decretis] enumerantur illa quae sunt species luxuriae secundum seipsa, sacrilegium autem est species luxuriae secundum quod ordinatur ad finem alterius vitii. Et potest concurrere cum diversis speciebus luxuriae». back

(64) Ivi, ad 3 [45228]: «Ad tertium dicendum quod sacrilegium committitur in re sacrata. Res autem sacrata est vel persona sacrata quae concupiscitur ad concubitum, et sic pertinet ad luxuriam. Vel quae concupiscitur ad possidendum, et sic pertinet ad iniustitiam. Potest etiam ad iram pertinere sacrilegium, puta si aliquis ex ira iniuriam inferat personae sacrae. Vel, si gulose cibum sacratum assumat, sacrilegium committit […]». back

(65) Ivi, a. 12, resp. [45242] (e si veda supra, nota 21, il passo delle Sentenze in cui si sostiene che la fornicazione addirittura «non aggiunge una qualche deformità al genere della lussuria»). In questa conclusione (sulla quale avremo modo di ritornare) il «vizio contro natura» viene contrapposto a tutti gli altri peccati venerei: «[…] Per alias autem luxuriae species praeteritur solum id quod est secundum rationem rectam determinatum, ex praesuppositione tamen naturalium principiorum […]». Si noti comunque che, come Tommaso spiega altrove allargando di fatto lo schema, meno grave ancora della fornicatio simplex, e a determinate condizioni addirittura solo veniale, è il «concubitus cum uxore qui fit ex libidine»: cfr. supra, nota 39. back

(66) Ibid.: «[…] Maior autem iniuria est si quis abutatur muliere alterius potestati subiecta ad usum generationis, quam ad solam custodiam. Et ideo adulterium est gravius quam stuprum. Et utrumque aggravatur per violentiam. Propter quod, raptus virginis est gravius quam stuprum, et raptus uxoris quam adulterium. Et haec etiam omnia aggravantur secundum rationem sacrilegii, ut supra dictum est». back

(67) Ibid.: «[…] Post quod est incestus, qui, sicut dictum est, est contra naturalem reverentiam quam personis coniunctis debemus […]». Questo passo precede in realtà quelli citati nelle note 65 e 66: si noti che l’incesto non è compreso in quell’elenco, essendo stato indicato, alla fine della prima parte del respondeo, dedicata al vitium contra naturam (cfr. infra, nota 86), come quello che segue in ordine di gravità i «vitia quae sunt contra naturam». Esso viene così a costuire una sorta di gradino intermedio tra il vizio contro natura e le specie di lussuria in cui c’è invece «presupposizione dei principi naturali»: tenendo conto anche della graduatoria stilata nell’ad 4 (cfr. infra, nota 80), esso si colloca così tra l’immunditia e il raptus uxoris. back

(68) Ivi, q. 7, resp. [45200]: «Respondeo dicendum quod raptus, prout nunc de eo loquimur, est species luxuriae. Et quandoque quidem in idem concurrit cum stupro; quandoque autem invenitur raptus sine stupro; quandoque vero stuprum sine raptu. Concurrunt quidem in idem, quando aliquis violentiam infert ad virginem illicite deflorandam. Quae quidem violentia quandoque infertur tam ipsi virgini quam patri, quandoque autem infertur patri, sed non virgini, puta cum ipsa consentit ut per violentiam de domo patris abstrahatur. Differt etiam violentia raptus alio modo, quia quandoque puella violenter abducitur a domo parentum et violenter corrumpitur; quandoque autem, etsi violenter abducatur, non tamen violenter corrumpitur, sed de voluntate virginis, sive corrumpatur fornicario concubitu, sive matrimoniali. Qualitercumque enim violentia adsit, salvatur ratio raptus. Invenitur autem raptus sine stupro, puta si aliquis rapiat viduam vel puellam corruptam. Unde Symmachus Papa dicit, “raptores viduarum vel virginum, ob immanitatem facinoris tanti, detestamur”. Stuprum vero sine raptu invenitur, quando aliquis absque violentiae illatione virginem illicite deflorat». Cfr. Symmachus, Epist. 5 Ad Caesarium Episc. (Mansi VIII, 212). back

(69) Si tratta di un’assenza che, a mio giudizio, può porre dei problemi a chi esamini l’etica sessuale di Tommaso con l’intento di esaltarne il valore. Mi sembra significativo il fatto che, secondo Lorenzo Pozzi, nel ratto «Tommaso considera implicitamente contenute tutte le violenze compiute contro una donna al fine di costringerla a un atto sessuale». Cfr. L. Pozzi, Castità e lussuria in Tommaso d’Aquino, «Philo-logica. Rassegna di analisi linguistica ed ironia culturale» 5, n. 9 (1996), p. 25. back

(70) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 6, resp. [45191]: «Respondeo dicendum quod ubi circa materiam alicuius vitii occurrit aliqua specialis deformitas, ibi debet poni determinata species illius vitii. Luxuria autem est peccatum circa venerea existens, ut supra dictum est. In virgine autem sub custodia patris existente quaedam deformitas specialis occurrit si corrumpatur. Tum ex parte puellae, quae, ex hoc quod violatur, nulla pactione coniugali praecedente, impeditur a legitimo matrimonio consequendo et ponitur in via meretricandi, a quo retrahebatur ne signaculum virginitatis amitteret. Tum etiam ex parte patris, qui de eius custodia sollicitudinem gerit, secundum illud Eccli. XLII [11], “super filiam luxuriosam confirma custodiam, nequando faciat te in opprobrium venire inimicis”. Et ideo manifestum est quod stuprum, quod importat illicitam virginum deflorationem sub cura parentum existentium, est determinate luxuriae species». back

(71) Ivi, ad 3 [45194]: «[…] Habet autem duplicem iniuriam annexam. Unam quidem ex parte virginis, quam etsi non vi corrumpat, tamen eam seducit; et sic tenetur ei satisfacere. Unde dicitur Exod. XXII [16-17], si seduxerit quis virginem nondum desponsatam, dormieritque cum ea, dotabit eam, et habebit uxorem. Si autem pater virginis dare noluerit, reddet pecuniam iuxta modum dotis quam virgines accipere consueverunt. Aliam vero iniuriam facit patri puellae. Unde et ei secundum legem tenetur ad poenam. Dicitur enim Deut. XXII [28-29], si invenerit vir puellam virginem, quae non habet sponsum, et apprehendens concubuerit cum illa, et res ad iudicium venerit, dabit qui dormivit cum ea patri puellae quinquaginta siclos argenti, et habebit eam uxorem, et quia humiliavit illam, non poterit dimittere eam cunctis diebus vitae suae. Et hoc ideo, ne videatur ludibrium fecisse, ut Augustinus dicit». Cfr. Augustinus, Quaest. in Heptat., V, 34 (PL 34, 762). back

(72) Si veda infra la parte iniziale del testo riportato nella nota 78. back

(73) Anche se, per Tommaso, ogni lussurioso tende non alla generazione bensì al piacere, compreso chi, rispettando i «principi naturali», di fatto non pone ostacolo al nesso tra atto sessuale e procreazione: sul piano dell’intentio non sembra dunque sussistere quell’abisso tra i due tipi di violazione dell’ordine morale che il maestro francescano teorizza in rapporto alle conseguenze oggettive dal punto di vista della finalità biologica. Cfr. Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 11, arg. 3 e ad 3 [45231, 45236]: «Praeterea, luxuria consistit circa actus ad generationem humanam ordinatos, ut ex supra dictis patet. Sed vitium contra naturam consistit circa actus ex quibus non potest generatio sequi. Ergo vitium contra naturam non est species luxuriae. […] Ad tertium dicendum quod luxuriosus non intendit generationem humanam, sed delectationem veneream, quam potest aliquis experiri sine actibus ex quibus sequitur humana generatio. Et hoc est quod quaeritur in vitio contra naturam». back

(74) Cfr. infra, nota 78. back

(75) Con ciò alludo, in particolare, alla feroce repressione praticata nel corso del XIX secolo, frutto di quella psichiatrizzazione della masturbazione che, per usare le parole di Thomas Szasz, «è semplicemente l’etica cristiana tradizionale tradotta nel linguaggio della medicina moderna». Cfr. T. S. Szasz, I manipolatori della pazzia, Feltrinelli, Milano 1972, p. 232. back

(76) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, arg. 3 e ad 3 [45239-45245]: «Praeterea, tanto aliquod peccatum videtur esse gravius, quanto exercetur in personam quam magis diligere debemus. Sed secundum ordinem caritatis magis debemus diligere personas nobis coniunctas, quae polluuntur per incestum, quam personas extraneas, quae interdum polluuntur per vitium contra naturam. Ergo incestus est gravius peccatum quam vitium contra naturam. […] Ad tertium dicendum quod unicuique individuo magis est coniuncta natura speciei quam quodcumque aliud individuum. Et ideo peccata quae fiunt contra naturam speciei, sunt graviora». In quest’ottica una pratica contraccettiva, anche all’interno del matrimonio, viene ad essere moralmente più grave di un rapporto incestuoso che non viola la modalità normale dell’amplesso. back

(77) Anche se, per la verità, lo stesso Agostino – citato da Tommaso usa proprio quest’espressione a proposito dei «flagitia quae sunt contra naturam»: cfr. infra, nota 89. back

(78) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 11, resp. [45233]: «Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, ibi est determinata luxuriae species ubi specialis ratio deformitatis occurrit quae facit indecentem actum venereum. Quod quidem potest esse dupliciter. Uno quidem modo, quia repugnat rationi rectae, quod est commune in omni vitio luxuriae. Alio modo, quia etiam, super hoc, repugnat ipsi ordini naturali venerei actus qui convenit humanae speciei, quod dicitur vitium contra naturam. Quod quidem potest pluribus modis contingere. Uno quidem modo, si absque omni concubitu, causa delectationis venereae, pollutio procuretur, quod pertinet ad peccatum immunditiae, quam quidam mollitiem vocant. Alio modo, si fiat per concubitum ad rem non eiusdem speciei, quod vocatur bestialitas. Tertio modo, si fiat per concubitum ad non debitum sexum, puta masculi ad masculum vel feminae ad feminam, ut apostolus dicit, ad Rom. I [26-27], quod dicitur sodomiticum vitium. Quarto, si non servetur naturalis modus concumbendi, aut quantum ad instrumentum non debitum; aut quantum ad alios monstruosos et bestiales concumbendi modos». Se si confronta questo passo con quello riportato nella nota 80, pare che, a dispetto della definizione iniziale (cfr. supra, nota 48 – e si veda il passo di De malo citato nella nota 43) e anche di successive affermazioni (si veda la parte finale del passo citato nella nota 73), siano di fatto inseriti tra quelli contro natura anche degli atti da cui una generazione può seguire, in quanto, pur violando una posizione ritenuta canonica (con l’uso di posizioni considerate proprie degli animali bruti, che in questo caso cessano di costituire un modello di naturalezza), mantengono comunque il debitum vas. Non vale, dunque, tout court l’equazione ‘atti contro natura = atti sessuali che non possono causare un concepimento’. E in effetti il tono complessivo dei due ultimi articoli della q. 154 è quello di chi difende non solo la funzione biologica della generazione, ma un insieme di regole di comportamento definite come «ciò che secondo natura è stato fissato riguardo agli atti sessuali»: si veda infra il passo citato nella nota 86. back

(79) Cfr. Bailey, Homosexuality and the Western Christian Tradition, pp. 116-117. back

(80) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, ad 4 [45246]: «Ad quartum dicendum quod gravitas in peccato magis attenditur ex abusu alicuius rei quam ex omissione debiti usus. Et ideo inter vitia contra naturam infimum locum tenet peccatum immunditiae, quod consistit in sola omissione concubitus ad alterum. Gravissimum autem est peccatum bestialitatis, ubi non servatur debita species. Unde super illud Gen. XXXVII [2], “accusavit fratres suos crimine pessimo”, dicit Glossa, “quod cum pecoribus miscebantur”. Post hoc autem est vitium sodomiticum, ubi non servatur debitus sexus. Post hoc autem est peccatum ex eo quod non servatur debitus modus concumbendi. Magis autem si non sit debitum vas, quam si sit inordinatio secundum aliqua alia pertinentia ad modum concubitus». La Glossa ordinaria a Gen. 37, 2 di PL 113, 164 (Walafridus Strabo, Liber Genesis) non riporta questa interpretazione; ma cfr. PL 131, 113 (Remigius Antissiodorensis, Comm. in Gen.) e Nicolaus de Lyra, Postilla super totam Bibliam, I, Straßburg 1492, ripr. Minerva GmbH., Frankfurt/Main 1971, f. hx rb. back

(81) Secondo Pozzi «l’uomo nella sua unità sente la maggiore malvagità del proprio atto quando esso è causato non solo dal disprezzo di Dio che segue dall’eccessivo amore di sé, ma anche dal disprezzo del prossimo. Di conseguenza tra i vizi contro natura <Tommaso> condanna la masturbazione e la bestialità, ma condanna ancora di più il vizio sodomitico e i modi con cui si hanno rapporti sessuali innaturali, poiché non si usa il debito “vaso”» (Cfr. Pozzi, Castità e lussuria, p. 31). Non è, però, questo l’ordine di gravità proposto da Tommaso (che pure viene citato in nota): ordine tracciato – come nota Bailey – nel solco di una tradizione che comprende i Penitenziali, Pier Damiani e Leone IX (cfr. Bailey, Homosexuality, pp. 116-117). A sua volta Jordan rileva il “secondo posto” della sodomia, che sembra escludere una particolare enfasi per questo «peccato contro natura» rispetto agli altri tre (cfr. Jordan, The Invention of Sodomy, p. 145). Riguardo a quest’ultimo punto, si veda però infra, nota 110. back

(82) Cfr. supra, note 5 e 32. back

(83) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, arg. 1 [45237]. back

(84) Questo è l’articolo 206 del sillabo parigino: «Quod peccatum contra naturam, utpote abusus in coitu, licet sit contra naturam speciei, non tamen est contra naturam individui»: cfr. Hissette, Enquête sur les 219 articles, pp. 296-297. Nella Questione De delectatione della Prima Secundae Tommaso si propone di difendere l’idea espressa nell’Etica Nicomachea (VII, 6, 1148 b18) secondo cui ci possono essere dei piaceri morbosi e contro natura, anche se, per lo stesso Aristotele, tutto ciò che è violento reca tristezza: ciò vale, spiega Tommaso, non soltanto per i piaceri peculiari dell’uomo, ma anche per quelli corporei, compresi quelli derivanti dall’usus venereorum (come mangiare altri esseri umani, giacere con animali o con altri maschi). Simpliciter loquendo queste dilettazioni sono innaturali, ma per una «qualche corruzione della natura» che si trova in certi individui, succede che per costoro divengano «connaturali»: succede dunque che «ciò che è contro la natura della specie, diventi per accidente naturale per questo individuo». Questa corruzione può derivare da una malattia corporea o da una cattiva complessione, ma nei casi sopra citati dipende da una corruzione a livello dell’anima, propter consuetudinem. Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 31, a. 7, sed contra e resp. [34883, 34884]: «Sed contra est quod philosophus dicit, in VII Ethic., quod quaedam delectationes sunt aegritudinales et contra naturam. Respondeo dicendum quod naturale dicitur quod est secundum naturam, ut dicitur in II Physic. Natura autem in homine dupliciter sumi potest. Uno modo, prout intellectus et ratio est potissime hominis natura, quia secundum eam homo in specie constituitur. Et secundum hoc, naturales delectationes hominum dici possunt quae sunt in eo quod convenit homini secundum rationem, sicut delectari in contemplatione veritatis, et in actibus virtutum, est naturale homini. Alio modo potest sumi natura in homine secundum quod condividitur rationi, id scilicet quod est commune homini et aliis, praecipue quod rationi non obedit. Et secundum hoc, ea quae pertinent ad conservationem corporis, vel secundum individuum, ut cibus, potus, lectus, et huiusmodi, vel secundum speciem, sicut venereorum usus, dicuntur homini delectabilia naturaliter. Secundum utrasque autem delectationes, contingit aliquas esse innaturales, simpliciter loquendo, sed connaturales secundum quid. Contingit enim in aliquo individuo corrumpi aliquod principiorum naturalium speciei; et sic id quod est contra naturam speciei, fieri per accidens naturale huic individuo; sicut huic aquae calefactae est naturale quod calefaciat. Ita igitur contingit quod id quod est contra naturam hominis, vel quantum ad rationem, vel quantum ad corporis conservationem, fiat huic homini connaturale, propter aliquam corruptionem naturae in eo existentem. Quae quidem corruptio potest esse vel ex parte corporis, sive ex aegritudine, sicut febricitantibus dulcia videntur amara et e converso; sive propter malam complexionem, sicut aliqui delectantur in comestione terrae vel carbonum, vel aliquorum huiusmodi, vel etiam ex parte animae, sicut propter consuetudinem aliqui, delectantur in comedendo homines, vel in coitu bestiarum aut masculorum, aut aliorum huiusmodi, quae non sunt secundum naturam humanam». Non mi pare che Boswell colga nel segno, quando inferisce da questo testo un’indifferenza morale degli atti omosessuali, sicché Tommaso finirebbe per condannarli come innaturali solo come «concessione al sentimento e al linguaggio popolare» (Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 393-395). Più calzanti, anche se forse non tutte condivisibili, mi sembrano invece le osservazioni di Jordan, per il quale Tommaso manifesta una forte tendenza a collegare vizio sodomitico, cannibalismo e rapporti con animali, a tal punto che giungerebbe a raggrupparli tutti sotto la nozione di bestialitas o disposizione bestiale (cfr. II.II., q. 154, a. 11, arg. 2 e ad 2 [45230, 45235]), mentre Aristotele – come registra lo stesso Tommaso nell’esposizione dell’Ethica – colloca il concubitus masculorum tra i desideri innaturali dovuti a malattia o consuetudine: il vantaggio (dal punto di vista del domenicano) di questa cattiva lettura verrebbe ad essere quello di presentare tale comportamento come orripilante e incorreggibile (Jordan, The Invention of Sodomy, pp. 149-150). Sul «pericoloso vicinato» di omosessualità, cannibalismo e bestialità cfr. anche Jacquart-Thomasset, Sexualité et savoir médical, p. 215. back

(85) Si pensi, ad esempio, ai Decretorum libri XX di Burcardo di Worms, citati da Boswell a sostegno della sua tesi secondo cui «l’atteggiamento verso l’omosessualità fu costantemente più tollerante per tutto il primo Medio Evo». Cfr. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 244-245. back

(86) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, resp. [45242]: «Respondeo dicendum quod in quolibet genere pessima est principii corruptio, ex quo alia dependent. Principia autem rationis sunt ea quae sunt secundum naturam, nam ratio, praesuppositis his quae sunt a natura determinata, disponit alia secundum quod convenit. Et hoc apparet tam in speculativis quam in operativis. Et ideo, sicut in speculativis error circa ea quorum cognitio est homini naturaliter indita, est gravissimus et turpissimus; ita in agendis agere contra ea quae sunt secundum naturam determinata, est gravissimum et turpissimum. Quia ergo in vitiis quae sunt contra naturam transgreditur homo id quod est secundum naturam determinatum circa usum venereum, inde est quod in tali materia hoc peccatum est gravissimum […]». back

(87) Cfr. supra, nota 8. back

(88) Si veda ad esempio Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 72, a. 5, resp. [36575]: «[…] Quando anima deordinatur per peccatum usque ad aversionem ab ultimo fine, scilicet Deo, cui unimur per caritatem, tunc est peccatum mortale, quando vero fit deordinatio citra aversionem a Deo, tunc est peccatum veniale. Sicut enim in corporalibus deordinatio mortis, quae est per remotionem principii vitae, est irreparabilis secundum naturam; inordinatio autem aegritudinis reparari potest, propter id quod salvatur principium vitae; similiter est in his quae pertinent ad animam […]»; ivi, II.II., q. 59, a. 4, resp. [41550]: «Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est cum de differentia peccatorum ageretur, peccatum mortale est quod contrariatur caritati, per quam est animae vita. Omne autem nocumentum alteri illatum ex se caritati repugnat, quae movet ad volendum bonum alterius. Et ideo, cum iniustitia semper consistat in nocumento alterius, manifestum est quod facere iniustum ex genere suo est peccatum mortale». back

(89) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, ad 1 [45243]. Cfr. Augustinus, Confessiones, III, 8 (PL 32, 689). back

(90) Ivi, arg. 2 e ad 2 [45238, 45244]: «Praeterea, illa peccata videntur esse gravissima quae contra Deum committuntur. Sed sacrilegium directe committitur contra Deum, quia vergit in iniuriam divini cultus. Ergo sacrilegium est gravius peccatum quam vitium contra naturam. […] Ad secundum dicendum quod etiam vitia contra naturam sunt contra Deum, ut dictum est. Et tanto sunt graviora quam sacrilegii corruptela, quanto ordo naturae humanae inditus est prior et stabilior quam quilibet alius ordo superadditus». back

(91) Cfr. Chiffoleau, Contra naturam, p. 284 ss. back

(92) Cfr. L.J. Elders, Nature as the Basis of Moral Actions, Jacques Maritain Center: Thomistic Institute, http://www.nd.edu/Departments/Maritain/ti01/elders.htm, il passo del testo che rinvia alla nota 53. back

(93) Cfr. Contra Gent., Lib. 3, cap. 129 [26816-26827]. back

(94) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 71, a. 2, resp. e ad 4 [36495, 36499]: «Respondeo dicendum quod, sicut dictum est, vitium virtuti contrariatur. Virtus autem uniuscuiusque rei consistit in hoc quod sit bene disposita secundum convenientiam suae naturae, ut supra dictum est. Unde oportet quod in qualibet re vitium dicatur ex hoc quod est disposita contra id quod convenit naturae. Unde et de hoc unaquaeque res vituperatur, “a vitio autem nomen vituperationis tractum creditur, ut Augustinus dicit, in III de Lib. Arb. Sed considerandum est quod natura uniuscuiusque rei potissime est forma secundum quam res speciem sortitur. Homo autem in specie constituitur per animam rationalem. Et ideo id quod est contra ordinem rationis, proprie est contra naturam hominis inquantum est homo; quod autem est secundum rationem, est secundum naturam hominis inquantum est homo. “Bonum autem hominis est secundum rationem esse, et malum hominis est praeter rationem esse, ut Dionysius dicit, IV cap. de Div. Nom. Unde virtus humana, quae hominem facit bonum, et opus ipsius bonum reddit, intantum est secundum naturam hominis, inquantum convenit rationi, vitium autem intantum est contra naturam hominis, inquantum est contra ordinem rationis. […] Ad quartum dicendum quod quidquid est contra rationem artificiati, est etiam contra naturam artis, qua artificiatum producitur. Lex autem aeterna comparatur ad ordinem rationis humanae sicut ars ad artificiatum. Unde eiusdem rationis est quod vitium et peccatum sit contra ordinem rationis humanae, et quod sit contra legem aeternam. Unde Augustinus dicit, in III de Lib. Arb., quod “a Deo habent omnes naturae quod naturae sunt, et intantum sunt vitiosae, inquantum ab eius, qua factae sunt, arte discedunt”». Cfr. Augustinus, De libero arbitrio, 14, 15 (PL 32, 1291); Dionysius, De div. nom., 4, 32 (PG 3, 733). back

(95) Cfr. supra, nota 86. back

(96) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 94, a. 3, resp. [37600]: «Respondeo dicendum quod de actibus virtuosis dupliciter loqui possumus, uno modo, inquantum sunt virtuosi; alio modo, inquantum sunt tales actus in propriis speciebus considerati. Si igitur loquamur de actibus virtutum inquantum sunt virtuosi, sic omnes actus virtuosi pertinent ad legem naturae. Dictum est enim quod ad legem naturae pertinet omne illud ad quod homo inclinatur secundum suam naturam. Inclinatur autem unumquodque naturaliter ad operationem sibi convenientem secundum suam formam, sicut ignis ad calefaciendum. Unde cum anima rationalis sit propria forma hominis, naturalis inclinatio inest cuilibet homini ad hoc quod agat secundum rationem. Et hoc est agere secundum virtutem. Unde secundum hoc, omnes actus virtutum sunt de lege naturali, dictat enim hoc naturaliter unicuique propria ratio, ut virtuose agat. Sed si loquamur de actibus virtuosis secundum seipsos, prout scilicet in propriis speciebus considerantur, sic non omnes actus virtuosi sunt de lege naturae. Multa enim secundum virtutem fiunt, ad quae natura non primo inclinat; sed per rationis inquisitionem ea homines adinvenerunt, quasi utilia ad bene vivendum»; ivi, a. 2, resp. [37592]: «Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, praecepta legis naturae hoc modo se habent ad rationem practicam, sicut principia prima demonstrationum se habent ad rationem speculativam, utraque enim sunt quaedam principia per se nota […]». back

(97) Ivi, q. 95, a. 2, resp. [37642]: «Respondeo dicendum quod, sicut Augustinus dicit, in I de Lib. Arb., “non videtur esse lex, quae iusta non fuerit”. Unde inquantum habet de iustitia, intantum habet de virtute legis. In rebus autem humanis dicitur esse aliquid iustum ex eo quod est rectum secundum regulam rationis. Rationis autem prima regula est lex naturae, ut ex supradictis patet. Unde omnis lex humanitus posita intantum habet de ratione legis, inquantum a lege naturae derivatur. Si vero in aliquo, a lege naturali discordet, iam non erit lex sed legis corruptio. Sed sciendum est quod a lege naturali dupliciter potest aliquid derivari, uno modo, sicut conclusiones ex principiis; alio modo, sicut determinationes quaedam aliquorum communium. Primus quidem modus est similis ei quo in scientiis ex principiis conclusiones demonstrativae producuntur. Secundo vero modo simile est quod in artibus formae communes determinantur ad aliquid speciale, sicut artifex formam communem domus necesse est quod determinet ad hanc vel illam domus figuram. Derivantur ergo quaedam a principiis communibus legis naturae per modum conclusionum, sicut hoc quod est non esse occidendum, ut conclusio quaedam derivari potest ab eo quod est nulli esse malum faciendum. Quaedam vero per modum determinationis, sicut lex naturae habet quod ille qui peccat, puniatur; sed quod tali poena puniatur, hoc est quaedam determinatio legis naturae. Utraque igitur inveniuntur in lege humana posita. Sed ea quae sunt primi modi, continentur lege humana non tanquam sint solum lege posita, sed habent etiam aliquid vigoris ex lege naturali. Sed ea quae sunt secundi modi, ex sola lege humana vigorem habent». Cfr. Augustinus, De libero arbitrio, I, 5 (PL 32, 1227). back

(98) Id., Sententia Ethic., Lib. 5, l. 12, n. 8 [73727]: «Est autem hic considerandum, quod iustum legale sive positivum oritur semper a naturali, ut Tullius dicit in sua rhetorica. Dupliciter tamen aliquid potest oriri a iure naturali. Uno modo sicut conclusio ex principiis; et sic ius positivum vel legale non potest oriri a iure naturali; praemissis enim existentibus, necesse est conclusionem esse; sed cum iustum naturale sit semper et ubique, ut dictum est, hoc non competit iusto legali vel positivo. Et ideo necesse est quod quicquid ex iusto naturali sequitur, quasi conclusio, sit iustum naturale; sicut ex hoc quod est nulli esse iniuste nocendum, sequitur non esse furandum, quod item ad ius naturale pertinet. Alio modo oritur aliquid ex iusto naturali per modum determinationis; et sic omnia iusta positiva vel legalia ex iusto naturali oriuntur. Sicut furem esse puniendum est iustum naturale, sed quod sit etiam puniendum tali vel tali poena, hoc est lege positum». Cfr. Cicero, Rhetor., II, 53 (DD I, 165). back

(99) Cfr. Corpus Iuris Civilis: Inst. I, 1; Dig. I, 1, 3. back

(100) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 94, a. 2, resp. [37592]: «[…] Hoc est ergo primum praeceptum legis, quod bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum. Et super hoc fundantur omnia alia praecepta legis naturae, ut scilicet omnia illa facienda vel vitanda pertineant ad praecepta legis naturae, quae ratio practica naturaliter apprehendit esse bona humana. Quia vero bonum habet rationem finis, malum autem rationem contrarii, inde est quod omnia illa ad quae homo habet naturalem inclinationem, ratio naturaliter apprehendit ut bona, et per consequens ut opere prosequenda, et contraria eorum ut mala et vitanda. Secundum igitur ordinem inclinationum naturalium, est ordo praeceptorum legis naturae. Inest enim primo inclinatio homini ad bonum secundum naturam in qua communicat cum omnibus substantiis, prout scilicet quaelibet substantia appetit conservationem sui esse secundum suam naturam. Et secundum hanc inclinationem, pertinent ad legem naturalem ea per quae vita hominis conservatur, et contrarium impeditur. Secundo inest homini inclinatio ad aliqua magis specialia, secundum naturam in qua communicat cum ceteris animalibus. Et secundum hoc, dicuntur ea esse de lege naturali quae natura omnia animalia docuit, ut est coniunctio maris et feminae, et educatio liberorum, et similia. Tertio modo inest homini inclinatio ad bonum secundum naturam rationis, quae est sibi propria, sicut homo habet naturalem inclinationem ad hoc quod veritatem cognoscat de Deo, et ad hoc quod in societate vivat. Et secundum hoc, ad legem naturalem pertinent ea quae ad huiusmodi inclinationem spectant, utpote quod homo ignorantiam vitet, quod alios non offendat cum quibus debet conversari, et cetera huiusmodi quae ad hoc spectant». Nel commento all’Ethica (di poco successivo alla Prima Secundae) le inclinazioni fondamentali sono ridotte a due, quella della «natura comune all’uomo e agli altri animali» e quella «propria della natura umana, in quanto cioè l’uomo è animale razionale»: cfr. infra, nota 105. back

(101) Cfr. M.B. Crowe, «Saint Thomas and Ulpian’s Natural Law», in St. Thomas Aquinas 1274-1974. Commemorative Studies, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, Toronto 1974, pp. 261-282: 276. back

(102) Cfr. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 376-387. back

(103) Cfr. Crowe, Saint Thomas and Ulpian’s Natural Law, pp. 271-272. Lo sforzo di Alberto è quello di conciliare, riguardo alla legge naturale, gli approcci di Aristotele e di Cicerone, a proposito del quale ultimo egli sottolinea che l’innata vis è riferita non alla natura animale bensì a quella razionale dell’uomo (anche se per il suo commento all’Etica Nicomachea si danno pure uno ius naturae comune a tutti gli esseri ed uno comune a uomo e animali: cfr. L. Sileo, «Natura e norma. Dalla “Summa Halensis” a Bonaventura», in Etica e politica: le teorie dei frati mendicanti nel Due e Trecento, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 1999, pp. 29-58: 39). back

(104) La tripartizione (o la bipartizione) delle «inclinazioni naturali» per determinare l’ordine dei precetti è a mio giudizio di grande rilevanza nella dottrina tommasiana della legge di natura, anche se c’è chi – come Ralph Mc Inerny – l’ha decisamente trascurata, sottolineando viceversa il passo di I.II. 91 2 ad3 dove si afferma che le creature irrazionali partecipano della legge eterna, ma nel loro caso si può parlare di lex solo per similitudine (cfr. R. Mc Inerny, «The Meaning of Naturalis in Aquinas’ Theory of Natural Law», in La filosofia della natura nel Medioevo. Atti del terzo Congresso internazionale di Filosofia medievale, Vita e Pensiero, Milano 1966, pp. 560-565). Lo stesso Odon Lottin non concede ampio spazio al debito di Tommaso verso la formula di Ulpiano (cfr. O. Lottin, «La loi naturelle depuis le début du XIIe siècle jusqu’a Saint Thomas d’Aquin», in Id., Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles, II, 1, Abbaye du Mont César - J. Duculot, Louvain-Gembloux 1948, pp. 71-99: 96) e neppure, più recentemente, lo fa Pamela Hall (cfr. P.M. Hall, Narrative and the Natural Law. An Interpretation of Thomistic Ethics, University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana 1994, p. 32 ss.). Ciò detto, non si può negare che Tommaso, in sintonia con i propri principi filosofici, trovi modo anche di far valere in campo morale il primato della dimensione peculiarmente umana: quando, ad esempio, ispirandosi all'Ethica e alla Rhetorica di Aristotele, enfatizza il valore dei desideri propri degli uomini, capaci di «pensare qualche cosa come buona e conveniente al di là di quello che la natura (comune all'uomo e agli altri animali) richiede»: si tratta di concupiscentiae cum ratione e supra naturales che, tra l’altro, possono anch'esse come quelle irrationales e naturales riguardare l'appetito sensitivo. Cfr. Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 30, a. 3, sed contra, resp. e ad 3 [34818, 34819, 34822] (dove, a mio giudizio, è notevole l’accezione non teologica, e dunque non negativa di ‘concupiscenza’): testo cui, ovviamente, Boswell attribuisce una notevole importanza (cfr. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omosessualità, pp. 392-394). back

(105) Thomas de Aquino, Sententia Ethic., Lib. 5, l. 12, n. 4 [73723]: «Est autem considerandum, quod iustum naturale est ad quod hominem natura inclinat. Attenditur autem in homine duplex natura. Una quidem, secundum quod est animal, quae est sibi aliisque animalibus communis; alia autem est natura hominis quae est propria sibi inquantum est homo, prout scilicet secundum rationem discernit turpe et honestum. Iuristae autem illud tantum dicunt ius naturale, quod consequitur inclinationem naturae communis homini et aliis animalibus, sicut coniunctio maris et feminae, educatio natorum, et alia huiusmodi. Illud autem ius, quod consequitur propriam inclinationem naturae humanae, inquantum scilicet homo est rationale animal, vocant ius gentium, quia eo omnes gentes utuntur, sicut quod pacta sint servanda, quod legati etiam apud hostes sint tuti, et alia huiusmodi. Utrumque autem horum comprehenditur sub iusto naturali, prout hic a philosopho accipitur». back

(106) Cfr. Id., Summa theol., II.II., q. 64, a. 2, ad 3 [41761], e a. 5, resp. [41784]]. Non è questo il luogo per un’analisi dettagliata dell’uso dell’espressione ‘contra naturam’ lungo tutta l’opera di Tommaso. Certamente non si tratta di un uso univoco e costante, e si danno anche casi in cui vengono così chiamati peccati non appartenti all’ambito degli atti venerei non procreativi: così ad esempio in IV Sent., d. 37, q. 2, a. 2, ad 2 [20392] il maestro domenicano afferma che «gravius est occidere matrem, quam uxorem, et magis contra naturam», e ivi, d. 31, q. 2, a. 3, expos. [19830] dice che è contro natura l’aborto (di un embrione cui non sia stata ancora infusa l’anima razionale), pur dichiarandolo meno grave dell’omicidio; per le Collationes de decem praeceptis, a. 7 [86734] ogni omicidio non soltanto è contro la carità, ma anche contro la natura, in quanto ogni animale ama il suo simile; e a sua volta la menzogna è definita «innaturale» in II.II., q. 110, a. 3, resp. [43664]. Ciò non toglie, tuttavia, che la tendenza largamente prevalente sia di riservare l’espressione alla sodomia e agli altri peccati di lussuria a questa accomunati. back

(107) Si vedano, ad esempio, il secondo passo citato nella nta 18 e il testo cui si riferisce la nota 94. back

(108) Elders, Nature as the Basis of Moral Actions, il passo che rinvia alle note 60 e 61. back

(109) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 94, a. 3, arg. 2 [37597]: «Praeterea, omnia peccata aliquibus virtuosis actibus opponuntur. Si igitur omnes actus virtutum sint de lege naturae, videtur ex consequenti quod omnia peccata sint contra naturam. Quod tamen specialiter de quibusdam peccatis dicitur». back

(110) Ivi, ad 2 [37602]: «Ad secundum dicendum quod natura hominis potest dici vel illa quae est propria homini, et secundum hoc, omnia peccata, inquantum sunt contra rationem, sunt etiam contra naturam, ut patet per Damascenum, in II libro. Vel illa quae est communis homini et aliis animalibus, et secundum hoc, quaedam specialia peccata dicuntur esse contra naturam; sicut contra commixtionem maris et feminae, quae est naturalis omnibus animalibus, est concubitus masculorum, quod specialiter dicitur vitium contra naturam». Cfr. Ioannes Damascenus, De fide orth., II, 4, 30 (PG, 94, 876 e 976), citato da Tommaso molte volte, anche se per lo più all’interno di obiezioni. Si noti anche quanto Tommaso, nella Secunda Secundae, sostiene alla fine della Questione sulle varie specie di lussuria, e cioè che, «quia ergo in vitiis quae sunt contra naturam transgreditur homo id quod est secundum naturam determinatum circa usum venereum, inde est quod in tali materia hoc peccatum est gravissimum» (cfr. supra, nota 86): se l’espressione limitativa ‘in tali materia’ sembra voler escludere che il vitium contra naturam sia il peccato più grave in assoluto, la prima parte conferma che i vitia contra naturam s’identificano con quelli che violano le norme naturali in campo sessuale. back

(111) Cfr. supra, nota 96. back

(112) Cfr. Crowe, Saint Thomas and Ulpian’s Natural Law, pp. 281-282. Ciò non vuol dire che in Alberto l’abbandono della formula ulpianea comporti una forza minore nel condannare la sodomia, da lui più volte stigmatizzata come contraria alla grazia, alla ragione e alla natura: cfr. Jordan, The Invention of Sodomy, p. 125 ss. back

(113) De malo, q. 15, a. 2, arg. 14 e ad 14 [63420, 63441]: «Praeterea, manifestum est quod ex concubitu mulieris quae est sterilis vel vetula, generatio prolis sequi non potest. Sed tamen hoc quandoque fieri potest sine peccato mortali in statu matrimonii. Ergo etiam alii actus luxuriae ex quibus non sequitur generatio et debita educatio prolis, possunt esse absque peccato mortali. […] Ad decimumquartum dicendum, quod lex communis datur non secundum particularia accidentia, sed secundum communem considerationem; et ideo dicitur actus ille esse contra naturam in genere luxuriae, ex quo non potest sequi generatio secundum communem speciem actus; non autem ille ex quo non potest sequi propter aliquod particulare accidens, sicut est senectus vel infirmitas». back

(114) Cfr. ivi, q. 15, arg. 13 e ad 13 [63420, 63440]; Id., Summa theol., II.II., q. 152, a.2 [45051] (Utrum virginitas sit illicita) e a. 4 [45071] (Utrum virginitas sit excellentior matrimonio). Mi sembra fuori strada Mark Jordan quando afferma (The Invention of Sodomy, p. 157) che Tommaso, per ammettere la verginità come valore, dovette ricorrere alla legge divina che sospende quella naturale: mi riferisco soprattutto alla Summa Theologiae, dove invero la difficoltà non viene risolta contrapponendo un «tempo della grazia» a quello in cui era umanamente e divinamente doveroso per tutti provvedere alla moltiplicazione del genere umano, bensì appellandosi all’Etica Nicomachea e al “naturale” primato della contemplazione sugli altri beni dell’uomo, oltre che individuando, quale destinatario del ‘Crescite et multiplicamini’, non ciascun individuo bensì la «moltitudine degli uomini», con conseguente divisione delle funzioni. Sul contemperamento di generazionismo e ascetismo nel pensiero cristiano dei primi secoli, si possono, tra l’altro, consultare: La donna nel pensiero cristiano delle origini, a c. di U. Mattioli, Marietti, Genova 1992; P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, (ed. or. New York 1988), Einaudi, Torino 1992; P.F. Beatrice, Tradux peccati. Alle fonti della dottrina agostiniana del peccato originale, Vita e Pensiero, Milano 1978. back

(115) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 73, a. 5, resp. [36648]: «Respondeo dicendum quod peccata spiritualia sunt maioris culpae quam peccata carnalia. Quod non est sic intelligendum quasi quodlibet peccatum spirituale sit maioris culpae quolibet peccato carnali, sed quia, considerata hac sola differentia spiritualitatis et carnalitatis, graviora sunt quam cetera peccata, ceteris paribus. Cuius ratio triplex potest assignari. Prima quidem ex parte subiecti. Nam peccata spiritualia pertinent ad spiritum, cuius est converti ad Deum et ab eo averti, peccata vero carnalia consummantur in delectatione carnalis appetitus, ad quem principaliter pertinet ad bonum corporale converti. Et ideo peccatum carnale, inquantum huiusmodi, plus habet de conversione, propter quod etiam est maioris adhaesionis, sed peccatum spirituale habet plus de aversione, ex qua procedit ratio culpae. Et ideo peccatum spirituale, inquantum huiusmodi, est maioris culpae. Secunda ratio potest sumi ex parte eius in quem peccatur. Nam peccatum carnale, inquantum huiusmodi, est in corpus proprium; quod est minus diligendum, secundum ordinem caritatis, quam Deus et proximus, in quos peccatur per peccata spiritualia. Et ideo peccata spiritualia, inquantum huiusmodi, sunt maioris culpae. Tertia ratio potest sumi ex parte motivi. Quia quanto est gravius impulsivum ad peccandum, tanto homo minus peccat, ut infra dicetur. Peccata autem carnalia habent vehementius impulsivum, idest ipsam concupiscentiam carnis nobis innatam. Et ideo peccata spiritualia, inquantum huiusmodi, sunt maioris culpae». Si noti, tuttavia, che la graduatoria di gravità tra peccati spirituali e carnali è presentata con una limitazione: ‘ceteris paribus’, per cui ci possono essere di fatto peccati classificabili come carnali più gravi di peccati classificabili come spirituali. Che in realtà, già prima di Tommaso, sia entrata in crisi una netta divaricazione tra questi due tipi di peccato, si può trovare illustrato nel contributo di Silvana Vecchio al presente numero di «Etica e politica». back

(116) Cfr. supra, nota 115. back

(117) Cfr. supra, nota 26. back

(118) Cfr. Chiffoleau, Contra naturam, p. 272. back

(119) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 154, a. 12, ad 1 [45243]: si veda supra il testo che rimanda all nota 89. back

(120) Ivi, ad 2 [45244]: cfr. supra, nota 90. back

(121) Thomas de Aquino, Summa theol., II.II., q. 94 a. 3 arg. 3, ad 3 [43027, 43034]: «Praeterea, minora mala maioribus malis puniri videntur. Sed peccatum idololatriae punitum est peccato contra naturam, ut dicitur Rom. I [23 ss:]. Ergo peccatum contra naturam est gravius peccato idololatriae. […] Ad tertium dicendum quod quia de ratione poenae est quod sit contra voluntatem, peccatum per quod aliud punitur oportet esse magis manifestum, ut ex hoc homo sibi ipsi et aliis detestabilis reddatur, non autem oportet quod sit gravius. Et secundum hoc, peccatum contra naturam minus est quam peccatum idololatriae, sed quia est manifestius, ponitur quasi conveniens poena peccati idololatriae, ut scilicet, sicut homo per idololatriam pervertit ordinem divini honoris, ita per peccatum contra naturam propriae naturae confusibilem perversitatem patiatur». Si noti che, di per sé, il peccato contro natura rimane pur sempre meno grave del peccato di idolatria. back

(122) Cfr. Chiffoleau, Contra naturam, p. 292 e passim. back

(123) Si tratta di una distinzione che Tommaso attribuisce al De summo bono di Isidoro (Summa theol., I.II., q. 72, a. 4, sed contra [36566]. Sostenuta nel XII secolo dalla Summa Sententiarum, tale classificazione – come nota Carla Casagrande nel suo contributo al presente numero di «Etica e politica» viene utilizzata sempre più frequentemente nella trattazione dei diversi peccati riconducibili a ciascuno dei vizi capitali. In Tommaso essa pare rispondere al bisogno di centrare il discorso morale sulla carità e, in virtù del fatto che nelle persone-oggetto del peccato vengono individuati i fini degli atti umani (cfr. infra, nota 125), può comporsi con l’istanza, decisamente più “filosofica”, di leggere vizi (e virtù) nell’ottica teleologica di «ciò che (non) conviene alla natura» (cfr. il testo riportato supra, nella nota 94). back

(124) Thomas de Aquino, Summa theol., I.II., q. 73, a. 2, resp. [36624]: «Respondeo dicendum quod opinio Stoicorum fuit, quam Tullius prosequitur in paradoxis, quod omnia peccata sunt paria. Et ex hoc etiam derivatus est quorundam haereticorum error, qui, ponentes omnia peccata esse paria, dicunt etiam omnes poenas Inferni esse pares. Et quantum ex verbis Tullii perspici potest, Stoici movebantur ex hoc quod considerabant peccatum ex parte privationis tantum, prout scilicet est recessus a ratione, unde simpliciter aestimantes quod nulla privatio susciperet magis et minus, posuerunt omnia peccata esse paria». Cfr. Cicero, Paradoxa, III (DD I, 545). back

(125) Ivi, q. 73, a. 9, resp. [36680]: «Respondeo dicendum quod persona in quam peccatur, est quodammodo obiectum peccati. Dictum est autem supra quod prima gravitas peccati attenditur ex parte obiecti. Ex quo quidem tanto attenditur maior gravitas in peccato, quanto obiectum eius est principalior finis. Fines autem principales humanorum actuum sunt Deus, ipse homo, et proximus, quidquid enim facimus, propter aliquod horum facimus; quamvis etiam horum trium unum sub altero ordinetur. Potest igitur ex parte horum trium considerari maior vel minor gravitas in peccato secundum conditionem personae in quam peccatur […]». back

(126) Ivi, q. 73, a. 3, resp. [36632]: «[…] Unde oportet etiam quod peccatum sit tanto gravius, quanto deordinatio contingit circa aliquod principium quod est prius in ordine rationis. Ratio autem ordinat omnia in agibilibus ex fine. Et ideo quanto peccatum contingit in actibus humanis ex altiori fine, tanto peccatum est gravius. Obiecta autem actuum sunt fines eorum, ut ex supradictis patet. Et ideo secundum diversitatem obiectorum attenditur diversitas gravitatis in peccatis. Sicut patet quod res exteriores ordinantur ad hominem sicut ad finem; homo autem ordinatur ulterius in Deum sicut in finem. Unde peccatum quod est circa ipsam substantiam hominis, sicut homicidium est gravius peccato quod est circa res exteriores, sicut furtum; et adhuc est gravius peccatum quod immediate contra Deum committitur, sicut infidelitas, blasphemia et huiusmodi. Et in ordine quorumlibet horum peccatorum unum peccatum est gravius altero, secundum quod est circa aliquid principalius vel minus principale. Et quia peccata habent speciem ex obiectis, differentia gravitatis quae attenditur penes obiecta, est prima et principalis, quasi consequens speciem». back

(127) Ivi, q. 72, a. 4, resp. [36567]: «[…] Horum autem ordinum secundus continet primum, et excedit ipsum. Quaecumque enim continentur sub ordine rationis, continentur sub ordine ipsius Dei, sed quaedam continentur sub ordine ipsius Dei, quae excedunt rationem humanam, sicut ea quae sunt fidei, et quae debentur soli Deo. Unde qui in talibus peccat, dicitur in Deum peccare, sicut haereticus et sacrilegus et blasphemus. Similiter etiam secundus ordo includit tertium, et excedit ipsum. Quia in omnibus in quibus ordinamur ad proximum, oportet nos dirigi secundum regulam rationis, sed in quibusdam dirigimur secundum rationem quantum ad nos tantum, non autem quantum ad proximum. Et quando in his peccatur, dicitur homo peccare in seipsum, sicut patet de guloso, luxurioso et prodigo. Quando vero peccat homo in his quibus ad proximum ordinatur, dicitur peccare in proximum, sicut patet de fure et homicida […]». back

(128) Si veda il testo riportato nella nota 127. back

(129) Cfr. supra, nota 90. back

(130) Cfr. Thomas de Aquino, Summa theol., II.II. q. 10, a. 1, ad 1 [39182]: «Ad primum ergo dicendum quod habere fidem non est in natura humana, sed in natura humana est ut mens hominis non repugnet interiori instinctui et exteriori veritatis praedicationi. Unde infidelitas secundum hoc est contra naturam». back

(131) Cfr. supra, nota 122. back