Etica & Politica / Ethics & Politics, 2002, 2
http://www.units.it/dipfilo/etic_e_politica/2002_2/indexvecchio.html
Vizi
«carnali» e vizi «spirituali»: il peccato tra anima e corpo
Silvana Vecchio
Università di Ferrara
Il sistema dei vizi capitali,
messo a punto tra V e VI secolo in ambiente monastico, rappresenta, come è
noto, una delle più fortunate “invenzioni” della cultura medievale (1). Utilizzato
sistematicamente e in maniera quasi esclusiva almeno fino al XV secolo, esso
non solo costituisce lo schema per eccellenza per classificare i vizi, ma
spesso è anche il luogo in cui sviluppare una riflessione sulla natura del
peccato e sulle sue dinamiche. La lunghissima durata che lo caratterizza
dimostra in maniera evidente l’efficacia ermeneutica e la forza retorica di
questo schema, capace di adattarsi senza troppi problemi ai profondi mutamenti
che nel corso dei secoli hanno segnato le dottrine morali. La “fortuna” dei
vizi capitali risulta in effetti comprensibile solo alla luce di una continua
operazione di rimodellamento dello schema sulla base di istanze sempre nuove e
sullo sfondo di coordinate di natura psicologica e antropologica assai
differenziate.
In questo quadro, porre l’accento
sulle dinamiche che, nel sistema complessivo, ma anche all’interno di ogni
singolo vizio, si instaurano tra interiorità ed esteriorità, tra anima e corpo,
rappresenta una via d’accesso privilegiata per mettere in luce i profondi
cambiamenti che, sotto l’apparente immobilità dei termini, attraversano la
lunga storia dei vizi capitali.
Alle origini di tale vicenda sta
in effetti la distinzione tra vizi carnali e vizi spirituali. I due “padri” del
settenario, Cassiano e Gregorio Magno, ricorrono entrambi a questa scansione
per segnalare il diverso coinvolgimento di carne e spirito, di anima e corpo
nel processo generativo dei diversi vizi. Cassiano parla di otto vizi
principali concatenati l’uno all’altro, ma individua una netta cesura che
separa i vizi carnali dai vizi spirituali (2). Carnali sono quei vizi che hanno a che fare con i sensi e
con l’ardore della carne, vizi nei quali «il corpo si appaga e si diletta a tal
punto da trascinare l’anima a consentire ai suoi appetiti». Sono peccati che
non possono essere consumati senza il supporto della carne e che dunque trovano
il loro rimedio eminentemente nella repressione del corpo (castigatio corporalis). Si tratta di gola (gastrimargia) e lussuria (fornicatio),
peccati carnali, ma anche peccati «naturali», nella misura in cui rispondono
entrambi a bisogni radicati nella natura umana, al punto che talvolta insorgono
senza alcuna sollecitazione da parte dell'anima. Peccati in qualche modo innati
nell'uomo, inscritti in quella natura che, dopo la colpa originale, è
inevitabilmente segnata dalla concupiscenza, essi si traducono immediatamente
in atti esteriori e si realizzano attraverso l’azione del corpo.
A differenza dai vizi carnali, i
vizi spirituali non solo non procurano piacere al corpo, ma anzi lo
sottopongono alle prove più estenuanti (gravissimis
languoribus) pur di alimentare l’anima con gioie miserande. Nati da un
impulso che proviene esclusivamente dall’anima, essi sembrano prescindere
completamente dal corpo. Ma quali sono esattamente i vizi spirituali? In base
alla definizione di Cassiano i restanti sei vizi sembrerebbero rientrare tutti
nella categoria dei vizi spirituali: tutti infatti sono accomunati dalla
ricerca di un piacere che non è del corpo, ma dell’anima. Eppure le specificazioni
di Cassiano non consentono una distinzione così rigida. Esistono certo due vizi
la cui natura è indubitabilmente spirituale: superbia e vanagloria infatti si
realizzano senza nessun intervento del corpo. Gli altri vizi invece sono
suscettibili di ulteriori distinzioni che in parte li accomunano ai due peccati
carnali, in parte ai due spirituali. L’ira ad esempio è un vizio naturale, come
gola e lussuria, e come tale si distingue dall’avarizia, che è invece extra naturam; ma per un altro verso ira
e avarizia sono accomunate dal fatto di trovare all’esterno le cause che le
fanno nascere. I restanti due vizi invece, accidia e tristezza, derivano da
moti interni all’uomo, simili a quelli che danno origine a gola e lussuria, ma,
a differenza dai vizi più carnali, rimangono chiuse entro il perimetro
dell’anima (3).
Questo incrociarsi di tipologie e
di distinzioni rende difficile appiattire il sistema di Cassiano sulla
distinzione vizi carnali/vizi spirituali, e soprattutto impedisce di
sovrapporre rigidamente le categorie di corpo, carne e esteriorità. I vizi
infatti, tutti i vizi, hanno un’origine comune che è l’anima, ma l’anima è a
sua volta suddivisa in parti, e le sue patologie, proprio come i mali del
corpo, assumono nomi diversi quando colpiscono le diverse «membra dell’anima»:
così vanagloria e superbia sono malattie della parte razionale; ira, tristezza
e accidia colpiscono l’irascibile; gola, lussuria e avarizia si riferiscono al
concupiscibile (4). Cassiano sa bene e non manca di ricordarlo che, a giudizio
di san Paolo, tutti i vizi sono «opera della carne» (Gal, 5,19), ma sa anche
quanta ambiguità si nasconda sotto il termine ‘carne’ (5). Il
netto dualismo di carattere etico che nei testi paolini si aggrega attorno ai
termini ‘carne’ e ‘spirito’ (6) viene riletto da
Cassiano all’interno del programma squisitamente monastico di perfezione che
anima i suoi scritti: carne e spirito non designano due realtà sostanziali, ma
due attività e due desideri perennemente in lotta fra loro, una lotta interna
all’uomo che coinvolge anima e corpo. La carne che, secondo l’espressione
paolina (Gal 5, 17), «concupisce contro lo spirito» e lo «spirito che
concupisce contro la carne» indicano per Cassiano la minaccia ricorrente contro
la purezza del cuore del monaco, che proviene sia dalla tendenza ad assecondare
gli istinti più bassi, sia dall’aspirazione a superare e ad annullare la stessa
natura umana. È proprio grazie a questo doppio conflitto che la volontà
dell’uomo si scuote dal pericoloso torpore che la caratterizza, dal desiderio
di una riposante apatia che la spinge a cercare una via intermedia tra l’abisso
del vizio e la gloria della virtù. Il pungolo della carne ricorda all’anima
l’impossibilità di una virtù che non sia lotta, e solo attraverso il conflitto
delle due diverse concupiscenze si ristabilisce il giusto temperamento
dell’anima, il felice equilibrio tra l’aspirazione alla perfezione e
l’inevitabile infirmitas della natura
umana (7).
Su questo sfondo la distinzione
tra vizi carnali e vizi spirituali risulta pienamente comprensibile: la
scansione dei vizi ripropone le fasi della battaglia che l’anima deve
combattere, e la contrapposizione tra concupiscenza della carne e concupiscenza
dello spirito determina un percorso segnato da una netta linea di demarcazione
che separa due differenti modalità di proliferazione dei vizi. I primi sei vizi
infatti sono concatenati l’uno all’altro in maniera tale che ciascuno nasce da
una sorta di eccedenza del vizio che lo precede: l’eccesso della gola genera la
lussuria, questa a sua volta produce l’avarizia, dall’avarizia nasce l’ira,
dall’ira la tristezza, dalla tristezza l’accidia. Al contrario i restanti due
vizi, superbia e vanagloria, non sono il prodotto di un eccesso di malizia, ma
il risultato dell’eliminazione dei vizi precedenti: è solo dopo aver cancellato
tutti i vizi che in un modo o nell’altro sono legati alla concupiscenza della
carne che insorgono le tentazioni di ordine spirituale. Questa doppia modalità
di generazione e la stessa scansione vizi carnali / vizi spirituali acquistano
il loro senso pieno solo alla luce dell’esperienza monastica. La genealogia dei
vizi segnala fondamentalmente i pericoli che minacciano la vita del monaco e la
gradualità della battaglia che egli deve affrontare per compiere il cammino di
perfezione al quale si è votato: dapprima contro la gola, il primo dei vizi e
certamente il meno grave, ma in qualche senso il più insidioso, dal momento che
la tentazione del cibo apre la porta all’intera genealogia del male; poi via
via gli altri vizi, in un processo di progressivo arretramento all’interno di
se stesso che finalmente mette il monaco di fronte alla tentazione estrema,
quella dell’autocompiacimento per la perfezione raggiunta. E solo nel contesto
monastico risulta comprensibile il rapporto di mutua funzionalità, oltre che di
netta opposizione che nella concezione di Cassiano lega vizi carnali e vizi
spirituali; in una sorta di piano provvidenziale stabilito da Dio essi si
equilibrano e quasi si annullano a vicenda, cosicché mentre le sollecitazioni
della vanagloria spingono il monaco a rifuggire dai vizi più carnali, le
inevitabili cadute della carne sono un utile correttivo contro la superbia di
chi pensa di aver raggiunto la perfezione (8).
Ridefinire le tipologie del vizio
in relazione ai progressi della vita religiosa comporta un ulteriore
arretramento della distinzione carne / spirito all’interno della psicologia
dell’uomo e finisce per designare non più soltanto i vizi, ma anche i monaci
stessi: carnali sono i principianti, quei monaci che hanno appena intrapreso la
vita religiosa o che comunque non progrediscono speditamente nel cammino della
perfezione; spirituali sono invece quanti, dopo aver superato le numerose
battaglie della carne, vivono una vita molto simile a quella degli angeli e
come gli angeli sono esposti soltanto alla tentazione estrema
dell’autosufficienza e dell’autocompiacimento. Se dunque la superbia, peccato
spirituale per eccellenza, è la colpa tipica dei monaci spirituali, questo non
vuol dire che i monaci carnali ne siano del tutto immuni; in loro il vizio
spirituale tende ad assumere aspetti carnali e si manifesta in forme più
“corpose”: tono della voce troppo elevato, risate fragorose, risposte aspre,
eccesso di parole, tutti aspetti carnali di un vizio spirituale e segni della
sostanziale insofferenza del monaco per la vita claustrale (9).
Rispetto al complesso quadro
delineato da Cassiano, la riflessione di Gregorio appare in un certo senso come
una “semplificazione” del modello generativo da lui messo a punto, e si
accompagna al tentativo di universalizzare il sistema dei vizi capitali e
sottrarlo a quella destinazione esclusivamente monastica per la quale Cassiano
lo aveva pensato. In due pagine dei Moralia
destinate ad una fortuna immensa, Gregorio descrive la genealogia dei vizi,
distinguendo cinque vizi spirituali e due carnali. Il processo di generazione
dei vizi infatti, pur essendo marcato da una sostanziale omogeneità, per cui
ciascun vizio si sviluppa naturalmente dal precedente, prevede tuttavia una
precisa linea di demarcazione tra spirito e carne. La superbia genera
l’invidia, questa a sua volta genera l’ira; dall’ira nasce la tristezza e dalla
tristezza l’avarizia: questo perché l’animo, turbato intimamente e ormai privo
della gioia interiore, cerca al di fuori di sé la consolazione alla tristezza
che lo opprime e si riversa su beni esteriori. Il passaggio dall’interiorità
all’esteriorità coincide con un progressivo coinvolgimento del corpo che
contrassegna i due ultimi peccati, gola e lussuria, peccati carnali, radicati
in specifici organi corporei; la “corporeità” dei due vizi carnali spiega anche
il passaggio dall’uno all’altro, in nome della contiguità fisica degli organi
interessati (10). La distinzione di Gregorio segnala dunque nel processo di
generazione dei vizi un percorso che conduce dall’interiorità all’esteriorità,
dove il ‘fuori’ si identifica con il ‘corpo’ e con la ‘carne’, e la netta
bipartizione tra vizi carnali e vizi spirituali sembra sovrapporsi senza
sbavature a quella interno / esterno e anima / corpo.
Le differenze del sistema
gregoriano rispetto al modello elaborato da Cassiano sono evidenti: la
generazione dei vizi appare ora continua e unidirezionale, una sorta di
autopropagazione più simile al processo di accrescimento di una pianta che non
alla generazione animale. Ma la metafora dell’albero, che nel testo gregoriano
si sovrappone alla metafora della battaglia, e che sarà ampiamente sviluppata
soprattutto a livello iconografico nei secoli successivi (11), sottolinea quella che è la vera novità del modello
gregoriano: l’enfatizzazione del ruolo della superbia. Riformulando il versetto
dell’Ecclesiastico 10, 15, che
indicava nella superbia l’inizio di tutti i peccati, Gregorio riconosce in
questo vizio la radice che alimenta l’intero albero del male, radice
sotterranea e nascosta, ma proprio per questo tanto più pericolosa e invadente.
L’enfasi gregoriana sulla
superbia riprende un tema che era stato ampiamente sviluppato da Agostino: la
superbia è inizio di tutti i peccati in un doppio senso, ontologico e
cronologico. Se tutti i peccati infatti sono in qualche misura peccati di
superbia è perché all’origine della vicenda umana sta un peccato di superbia,
il peccato originale, prototipo e causa diretta di tutti i peccati. La superbia
è “il” peccato. È allora nella scena primigenia che va ricercata non solo la
spiegazione della peccabilità dell’uomo, ma anche in qualche modo la
definizione della natura stessa del peccato. Il peccato di Adamo fu un peccato
di superbia, del tutto analogo al peccato dell’angelo ribelle, Lucifero, che
nel suo sconfinato orgoglio aveva preteso di innalzarsi fino a Dio. Peccato
dunque totalmente spirituale, se poté essere commesso da una creatura priva di
corpo come l’angelo, il peccato di superbia gonfiò l’animo di Adamo, rendendolo
sensibile alle sollecitazioni del demonio; ma l’aspirazione a essere come Dio
segnò la separazione della creatura dal creatore e introdusse nel creato la
lacerazione e il conflitto. La cacciata dal paradiso terrestre coincide per
Adamo con la scoperta della propria nudità, cioè con la constatazione che la
disobbedienza si è introdotta nella sua stessa carne e che gli organi sessuali,
che egli prima padroneggiava secondo la sua volontà, si muovono ormai al di
fuori del suo controllo: il peccato dello spirito è penetrato nella carne e
attraverso quella stessa carne, divenuta disobbediente e “oscena”, si trasmette
a tutti gli uomini. Nella rapida successione della colpa e della punizione, la
condanna di Dio trasforma la natura umana: «l’uomo che, se avesse rispettato il
precetto divino sarebbe diventato spirituale anche nella carne, diventava
carnale anche nella mente» (12).
Gregorio riprende alla lettera l’affermazione di Agostino; anche
per lui il peccato del primo uomo corrisponde a una caduta nella carnalità e
nell’esteriorità: l’anima, ormai internamente accecata, non riesce a vedere che
con gli occhi del corpo e non riesce a pensare altro che immagini di corpi (13). Il peccato tutto spirituale della superbia segna la perdita
dell’interiorità e precipita l’uomo verso quel “fuori” che finisce per
coincidere col peccato stesso (14). Origine e prototipo di
ogni altro peccato, la superbia innesca un processo di progressiva
esteriorizzazione che è scandito dalla proliferazione dei sette vizi principali
e che culmina nei vizi che più direttamente coinvolgono il corpo e la carne. Il
meccanismo del peccato si riproduce all’infinito, ripetendo ogni volta la
stessa scansione che ha caratterizzato la colpa del primo uomo: tutti i peccati
infatti nascono all’interno del cuore, dove si alimentano di quelle immagini
del “fuori” che hanno ormai raggiunto l’anima, trascinano la volontà
all’assenso e infine si mostrano all’esterno (15).
In questo complesso sistema, in
cui ogni peccato riproduce il primo, ma al tempo stesso scandisce un processo
di ulteriore esteriorizzazione dell’anima, appare evidente che tutti i vizi
sono di fatto sia interiori sia esteriori. La “spirituale” superbia, ad
esempio, invade gradualmente come una malattia tutte le membra dell’anima, per
poi manifestarsi apertamente all’esterno nei comportamenti e negli
atteggiamenti dell’uomo e nelle membra stesse del suo corpo (16);
radice sotterranea che alimenta tutti i vizi, la superbia si sdoppia
immediatamente in quella vanagloria che altro non è se non la manifestazione
esteriore del gonfiore dell’anima, una sorta di alter ego della superbia, destinato nel corso dei secoli a
sovrapporsi sempre più spesso o ad assimilarsi a lei (17).
D’altro canto un peccato come la gola occulta dietro la sua invadente carnalità
il disordine dell’anima mossa da una smodata concupiscenza, dove, «non è il
cibo ma il desiderio che costituisce il vizio» (18).
In questo rimescolamento delle
categorie carne / spirito e dentro / fuori le polarità sembrano moltiplicarsi (19), fino a mettere in crisi la stessa distinzione tra vizi
carnali e vizi spirituali. Il coinvolgimento del corpo nella dinamica di molti
peccati appare come il segno del legame indissolubile che lega l’anima al
corpo, e pone il corpo stesso al centro della spiritualità gregoriana. Le
riflessioni, tutt’altro che sistematiche, che Gregorio sviluppa attorno a
questo tema riprendono molti degli spunti suggeriti sia da Agostino, sia da
Cassiano, ma li rileggono, in maniera non sempre univoca, all’interno di una
visione del mondo che coglie una sostanziale continuità tra carnale e
spirituale (20). Per Gregorio, come per Agostino, il peccato è entrato
all’interno dell’uomo trascinandolo fuori da se stesso e rompendo l’equilibrio
tra anima e corpo; come per Cassiano, le necessità del corpo rappresentano un
ostacolo insormontabile per la contemplazione ed un costante veicolo di
tentazione. Strumento e fonte di peccato, il corpo è diventato carne, nemico
mortale dell’anima, ineliminabile ostacolo alla realizzazione della perfezione.
Punto debole dell’uomo, il corpo è però anche la sua forza, giacché la
fragilità della carne che distingue l’uomo dall’angelo da una parte attenua il
suo peccato, dall’altra può diventare lo strumento principale per vincere il
peccato stesso e per ristabilire un corretto rapporto con l’anima e con Dio (21): la battaglia contro i vizi, tanto quelli carnali quanto
quelli spirituali, va combattuta innanzitutto sul terreno del corpo e
mortificare il corpo attraverso la sofferenza fisica appare, sul modello della
passione del Cristo, l’unica via di redenzione per l’umanità corrotta,
l’insospettata possibilità di riscatto che viene offerta agli uomini dalla
misericordia divina.
L’enfatizzazione del ruolo del
corpo nella dinamica del peccato e l’etica ascetica che ne consegue
rappresentano l’eredità più cospicua trasmessa da Gregorio alla cultura
medievale. D’altro canto la sovrapposizione della polarità dentro / fuori a
quella carne / spirito e l’innalzamento della superbia al rango di supervizio
tendono di fatto ad attenuare la netta distinzione tra vizi carnali e vizi spirituali,
del tutto inessenziale per spiegare la genealogia dei vizi. Cancellata l’idea
della duplice modalità di generazione che sorreggeva l’impianto di Cassiano, la
contrapposizione delle due categorie di peccati appare di fatto poco
significativa ed è destinata ad essere puntualmente smentita dalle analisi
specifiche dei singoli vizi. Non a caso, nonostante l’enorme successo che
consacra il sistema gregoriano dei vizi capitali, la scansione vizi carnali /
vizi spirituali viene spesso lasciata cadere, o viene stancamente riproposta in
formule stereotipate, senza suscitare interesse o riflessioni specifiche (22). La contrapposizione tra vizi carnali e vizi spirituali
appare sempre più estranea ad una cultura che tende a identificare tutti i
peccati con le opere della carne. Quando, nel XII secolo, un monaco, che è
probabilmente da identificare con Corrado di Hirsau, compone un breve trattato
tutto incentrato sulla classificazione gregoriana dei vizi capitali, lo
intitola significativamente De fructibus
carnis et spiritus: i sette vizi, tutti e sette “carnali” proprio in quanto
vizi, si dipartono dal tronco della superbia e si organizzano secondo la
metafora dell’albero in tutte le loro svariate ramificazioni, contrapponendosi
ad un altro albero, quello dello spirito, che, a partire dalla radice
dell’umiltà, sviluppa i fronzuti rami delle sette virtù (23).
Secondo il dettato paolino (Rom
7-8) più volte commentato, la carne sembra compendiare la nozione stessa di
peccato; installatosi nel corpo, il peccato impegna l’uomo in una perpetua
lotta contro se stesso (24). L’idea che non possa esserci peccato
senza la carne finisce per proiettare l'ombra del corpo anche sul più
spirituale dei peccati, quello del primo uomo. A dispetto delle autorevoli e
definitive conclusioni di Agostino, l’idea che il peccato originale sia stato
un peccato della carne non cessa di sollecitare la riflessione dei monaci e di
alimentare il repertorio di immagini dei predicatori fino al XIII secolo (25).
Sullo sfondo di questa tradizione che tende a fare della carne
tutt’uno col peccato, si comprende appieno la reazione di Abelardo. La
definizione del vizio come malattia dell’anima inscrive fin dall’inizio il
problema del peccato nello spazio dell’interiorità; dati “naturali”, in qualche
modo analoghi ai vizi del corpo, i vizi dell’anima non coincidono
immediatamente con il peccato, ma innescano una dinamica tutta psicologica che,
ripetendo il modello del peccato originale, si snoda attraverso la suggestione,
il piacere e il consenso, per mettere capo finalmente all'atto peccaminoso (26). In questo processo, che affida esclusivamente al “dentro” la
moralità dell’individuo, tutto quanto sta fuori appare eticamente indifferente:
gli oggetti esteriori non possono contaminare l’anima (27), e
le azioni peccaminose non aggiungono nulla ad una colpa che è già completa nel
momento in cui la volontà ha dato il suo assenso. Esterno all’anima, il corpo
non è in nessun modo coinvolto nella genesi della colpa, ed il suo ruolo si
riduce a quello di puro strumento di peccato. In questa ottica la distinzione
tra peccati carnali e peccati spirituali appare del tutto priva di fondamento,
e anche i più “carnali” fra i peccati perdono la loro corporeità (28): il
peccato non è nella carne né nel corpo, e nemmeno nel piacere, che, proprio in
quanto piacere “carnale”, cioè inscritto nel corpo dell’uomo, è naturale, e
quindi voluto da Dio al momento della creazione (29). Alla luce di queste
analisi, Abelardo può sostenere che non è affatto colpevole di lussuria chi,
costretto ad un rapporto sessuale contro la sua volontà, e coinvolto con tutto
il suo corpo fino al raggiungimento del piacere, continua tuttavia a negare il
consenso dell’anima all’atto peccaminoso (30).
La riflessione abelardiana
rappresenta il punto di partenza per una reimpostazione radicale del problema
del peccato, destinata a svilupparsi nelle scuole teologiche del XII secolo (31). La definizione del peccato come atto della volontà che si
impone nella teologia prescolastica e scolastica elimina alla radice la possibilità
di pensare un peccato “carnale”, cioè un peccato che abbia origine e sede nel
corpo.
Ma riconoscere che tutti i
peccati sono spirituali non vuol dire estromettere completamente il corpo da
ogni possibile classificazione dei peccati. Anzi, proprio tra la fine del XII
secolo e l’inizio del XIII, la distinzione tra vizi carnali e vizi spirituali
sembra ritrovare una sua validità, soprattutto all’interno della letteratura
penitenziale. In una delle prime somme per la confessione, il Liber poenitentialis di Alano di Lilla,
la coppia carnale / spirituale, ormai trasferita dai vizi ai peccati, individua
nel maggiore o minore coinvolgimento del corpo un elemento che attenua la
gravità delle colpe (32). Qualche anno più tardi Pietro di
Poitiers, rileggendo la suddivisione gregoriana alla luce della riflessione sul
corpo che da Abelardo ha preso le mosse, riconosce nei peccati carnali i
peccati che si commettono attraverso i sensi corporei; suscitati da impulsi del
corpo, essi da una parte sono più palesi e visibili all’esterno, dall’altra,
proprio perché provocati da stimoli della carne, e quindi da tendenze naturali
innate nell’uomo, sembrano essere meno gravi; d’altro canto i peccati
spirituali, tutti in qualche modo riconducibili alla superbia, sono quelli che
non si manifestano all’esterno e che non sono leggibili attraverso le membra
del corpo. La rassegna dei peccati, arricchita rispetto al testo gregoriano, fa
spazio anche alla “nuova” classificazione dei peccati della lingua, anch’essi
peccati “manifesti” e quindi carnali (33).
Più o meno negli stessi anni, il
chierico inglese Tommaso di Chobham riprende la distinzione vizi carnali / vizi
spirituali, ma la rilegge e la riformula alla luce di un criterio che non è più
quello di Cassiano o di Gregorio: ci sono tre vizi carnali (gola, lussuria e
ira) e tre vizi spirituali (invidia, accidia e superbia), e nel mezzo sta
l’avarizia, vizio in parte carnale e in parte spirituale (34).
Questo ordine, che Tommaso riconosce abbastanza inconsueto, risponde ad un
criterio del tutto nuovo: i primi tre vizi sono immediatamente evidenti a tutti
quelli che li commettono; i vizi spirituali invece sono «latenti e occulti», e
quasi nessuno confessa di esserne preda, tanto essi si presentano in maniera
subdola, sotto l’aspetto di comportamenti non colpevoli. L’avarizia poi,
perfettamente riconoscibile quando compare come furto, rapina o usura, è molto
meno evidente quando assume le vesti di indifferenza o insensibilità ai bisogni
altrui.
Nella letteratura pastorale del
XIII secolo si fa dunque strada un criterio di distinzione dei vizi che non
affonda più le sue radici nella contrapposizione tra anima e corpo, ma nel
diverso grado di “visibilità” delle singole colpe: spirituali sono quei vizi
che difficilmente vengono percepiti come tali, e che pertanto sono molto più
difficili da riconoscere e da estirpare. Il nuovo criterio di classificazione
dei vizi appare insomma più legato al problema della loro riconoscibilità e
dicibilità, e rinvia direttamente a quello spazio istituzionalmente legato alla
enunciazione dei peccati che è la confessione: qui è importante, tanto per il
penitente, quanto per il confessore, riuscire a etichettare esattamente i
peccati, anche quelli più “spirituali”, cioè quelli più nascosti alla coscienza
di chi li ha commessi. Le classificazioni di Pietro di Poitiers e di Tommaso di
Chobham, poco consistenti da un punto di vista teorico, sono in realtà
funzionali proprio a questa esigenza: parlare dei vizi vuol dire saperli
identificare, anche quando essi sembrano sfuggire alla vista, e riconoscere
nella loro diversa visibilità il tratto distintivo della loro natura ed un
elemento per valutarne la gravità.
Classificare i vizi a partire
dalla loro visibilità vuol dire allora in qualche modo rimettere in gioco il
corpo, ma in termini che non possono più essere quelli della tradizione
monastica. Se il corpo in quanto entità metafisica contrapposta all’anima non
può più essere considerato origine e causa della colpa, i corpi nella loro
dimensione concreta e nella loro ingombrante quotidianità non possono essere
esclusi dal discorso del peccato. La perdurante fortuna del sistema dei vizi
capitali, che proprio nel XIII secolo sembra toccare il suo apice, impone anzi
una nuova attenzione al problema del corpo ed una ridefinizione dei rapporti
corpo / peccato più funzionale alle esigenze classificatorie imposte dal
discorso pastorale.
Se il corpo è, come sosteneva
Abelardo e come affermano concordi tutti i teologi scolastici, puro strumento
di un peccato che sta comunque nell’anima, la distinzione tra vizi carnali e
vizi spirituali si sposta all’interno dei singoli vizi, ciascuno dei quali può
essere analizzato nella sua natura puramente interiore o nelle sue
manifestazioni esterne, come mostrano numerosi esempi della letteratura
pastorale. Nel più famoso trattato sui vizi e sulle virtù, quello del
domenicano lionese Guglielmo Peraldo, la superbia, vizio spirituale per
eccellenza, si sdoppia in superbia interiore e superbia esteriore, dove la
prima si insinua nei meandri dell’intelletto e dell’affettività, mentre la
seconda si mostra all’esterno nell’ostentazione di abiti, ornamenti, case,
ricchezze, e si manifesta “fisicamente” nelle singole membra del corpo (35); ma anche l’ira si suddivide in ira occulta, del tutto priva
di manifestazioni esteriori, e ira che invece prorompe all’esterno, assumendo
le forme più corpose di parole o azioni aggressive (36).
D’altro canto, nei peccati più carnali il ruolo del corpo può affievolirsi fin
quasi a scomparire, come nel caso di un peccato di lussuria che consiste solo
in un pensiero turpe, o di un peccato di gola che rimane allo stato di
desiderio (37).
L’idea che i vizi, tutti i vizi,
possano rimanere racchiusi entro il perimetro dell’anima, oppure utilizzare lo
strumento del corpo per mostrarsi all’esterno può avvalersi allora anche del
supporto di un altro fortunato schema classificatorio assai diffuso nei testi
di carattere confessionale, quello dei peccati di pensiero, di parola e di azione.
Recepito anche dalla letteratura teologica come schema teoricamente più solido
di quello dei vizi capitali, lo schema pensieri, parole, opere segnala in
maniera evidente il percorso del peccato dall’interiorità dell’uomo (cuore,
mente, anima, ragione) all’esteriorità dell’azione; ma è soprattutto
sovrapponendo i due sistemi che è possibile mostrare come la progressione del
peccato dall’interno all’esterno scandisca per ciascuno dei vizi capitali le
tappe di un processo che rende la colpa sempre più visibile e che coinvolge
sempre più profondamente il corpo (38). Emblematico l’esempio
dello pseudobonaventuriano Speculum
coscientiae, che, avvalendosi della metafora dell’albero, mostra come dalla
radice comune della superbia pullulino i rami dei sette vizi capitali, che a
loro volta producono foglie e frutti, rispettivamente parole o azioni che
traducono all’esterno le colpe perpetrate nell’interiorità: la superbia ad
esempio passa da un atteggiamento di intima presunzione che sottintende i
peccati più gravi quali mancanza di fede (infidelitas)
e odio di Dio alle manifestazioni verbali della derisione o della bestemmia,
per poi tradursi in forme evidenti di disprezzo o di ostentazione; la lussuria,
amore disordinato e “carnale”, produce scurrilità e incontinenza verbale prima
di passare a concreti atti libidinosi; l’invidia si alimenta di gioia per il
male altrui e dolore per l’altrui prosperità che traduce poi in parole che
seminano discordia o gettano discredito e infine in concreti atti di tradimento
o di danneggiamento degli altri; e lo stesso processo si riscontra per i
restanti vizi (39).
In questa proliferazione dei
peccati il corpo, coinvolto in tutti e sette i vizi, svolge la funzione di
strumento e al tempo stesso di luogo in cui si inscrivono i segni del peccato.
Privilegiando, in linea con quanto già Gregorio suggeriva, il percorso dentro /
fuori piuttosto che la dinamica carne / spirito, confessori, moralisti e
teologi individuano nel corpo lo spazio per eccellenza dell’esteriorità e della
visibilità, e utilizzano l’analisi fisiognomica come prezioso strumento di
diagnosi del peccato. L’operazione non è nuova: da sempre la riflessione sui
vizi si è mostrata particolarmente attenta a cogliere nei tratti del volto o
nei gesti del corpo una serie di “segni” che denunciano la malattia dell’anima.
Già Seneca aveva fornito ampie descrizioni della fisionomia stravolta e della
gestualità scomposta dell’iracondo: il corpo che trema, gli occhi
fiammeggianti, il viso arrossato, la lingua che farfuglia ed emette suoni senza
senso, insomma l’intera persona resa irriconoscibile e trasformata in una sorta
di animale imbizzarrito, sono i segni più che evidenti di un vizio che appare
assai difficile da nascondere (40). Ma anche per gli altri
vizi è possibile individuare una serie di segni, ancorché meno eclatanti e più
ambigui: l’accidioso alterna una strana irrequietezza con una sorta di torpore
e di sonnolenza (41); l’invidioso mostra un volto minaccioso ma pallido, sguardo
torvo, labbra tremanti, denti che stridono, guance cadenti, sopracciglia
contratte, occhi bassi e pieni di lacrime (42); l’avaro appare
tormentato e macilento; persino il superbo mostra nei tratti del volto i segni
del suo vizio “spirituale”: volge gli occhi attorno, drizza la testa, tende le
orecchie, ostenta un’allegria innaturale, parla troppo e si dà da fare in mille
modi (43).
Nella letteratura morale e
pastorale del XIII secolo l’attenzione ai segni dei vizi si colloca in un
quadro intellettuale profondamente mutato; i nuovi saperi medici e psicologici
che stanno alle spalle del discorso fisiognomico consentono di affrontare il
problema in termini più generali, all’interno di una nuova definizione dei
rapporti tra anima e corpo (44). I vizi da sempre più
“visibili”, più ricchi cioè di manifestazioni esteriori si rivelano quelli a
più alto tasso di passionalità, come ira, accidia e invidia, e trovano proprio
in una più precisa definizione dei rapporti tra passione e peccato e
nell’insostituibile ruolo che il corpo gioca nella dinamica delle passioni la
giustificazione della loro visibilità (45). Legati al corpo
attraverso la mediazione dell’anima, tali vizi tuttavia non coincidono affatto
con i vizi carnali; questi ultimi, a loro volta, possono mantenere il loro
rapporto col corpo solo a patto di mettere in evidenza il percorso passionale
che li riconduce all’anima.
Alla luce di cambiamenti così
radicali, che da una parte rivendicano soltanto per l’anima la funzione di
generare i vizi, dall’altra riscoprono il ruolo del corpo nelle dinamiche
passionali, cosa resta dell’antica contrapposizione tra vizi carnali e vizi
spirituali? Il legame privilegiato con il corpo che Cassiano aveva rivendicato
per vizi come gola e lussuria è davvero totalmente svuotato di significato?
Di fatto nella letteratura
scolastica la distinzione tra vizi carnali e vizi spirituali è quasi
completamente scomparsa, sostituita da una classificazione che, rimescolando le
categorie anima / corpo e interno / esterno, distingue i vizi in relazione ai
fini che muovono le azioni umane (46); e anche nei testi di
carattere ascetico che puntano al perfezionamento spirituale il doppio percorso
individuato da Cassiano appare ormai leggibile secondo modalità meno
differenziate (47).
Eppure dell’antico “marchio” dei
peccati carnali qualcosa è rimasto: l’ingombrante presenza del corpo si è
spostata dalla causa del peccato al suo effetto, e paradossalmente i vizi
carnali, quei vizi che, secondo Cassiano, puntavano al piacere del corpo,
sembrano invece attentare gravemente proprio alla salute fisica. La nuova
attenzione che nel corso del XIII secolo viene rivolta al corpo e al suo
benessere non manca di coinvolgere anche il discorso morale: in ossequio alla
moda “salutista”, Roberto di Sorbona ricorda le numerose e gravi malattie che
minacciano i lussuriosi, dal mal di testa all’astenia, fino alla lebbra (48); Roberto di Flamborough elenca tutti i mali che provengono
dagli eccessi alimentari (49); e Egidio Romano passa
in rassegna tutti i danni che la crapula produce nelle diverse membra del corpo
(50). Certo, spesso l’accenno alla salute del corpo non è che un
espediente retorico particolarmente efficace per evidenziare i rischi che i
peccati carnali comportano per la salute dell’anima, ma non si tratta solo di
questo. Vizi carnali nati dall’anima, gola e lussuria sono colpevoli anche
perché danneggiano il corpo, e proprio la mancanza di carità nei confronti del corpo
finisce per rappresentare il tratto distintivo della colpa e l’elemento per cui
essi sono, appunto, vizi capitali (51).
Note
(1) Sul tema dei
vizi capitali nel Medioevo cfr. M. W.
Bloomfield, The Seven Deadly Sins.
An Introduction to the History of a Religious Concept, with Special
Reference to Medieval English Literature, Michigan State College Press, East Lansing
Mich. 1952; S. Wenzel, The seven deadly sins: some problems of
research, «Speculum» 43 (1968), pp. 1-22; R.
Newhauser, The Treatise on Vices
and Virtues in Latin and the Vernacular, Brepols, Turnhout 1993; C. Casagrande e S. Vecchio, I sette
vizi capitali. Storia dei
peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000. back
(2)Cassiano,
Conlationes XXIV, Conlatio V, IV, a cura di E. Pichery, SC 42, Les éditions du
Cerf, Paris 1955, p. 191. back
(3) Ibid.,
V, III, p. 190: «Horum igitur vitiorum genera sunt duo. Aut enim
naturalia sunt ut gastrimargia, aut extra naturam ut filargyria. Efficentia
vero quadripertita est. Quaedam enim sine actione carnali consummari non
possunt, ut est gastrimargia et fornicatio, quaedam vero etiam sine ulla
corporis actione complentur, ut est superbia et cenodoxia. Nonnulla commotionis
suae causas extrinsecus capiunt, ut est filargyria et ira, alia vero intestinis
motibus excitantur, ut est acedia atque tristitia». Back
(4) Ibid.,
Conlatio XXIV, 15, SC 64, Paris 1959, pp. 186-87. Cfr. M.
Olphe-Galliard, «Cassien»,
in Dictionnaire de Spiritualité,
Ascétique et Mystique, II, Beauchesne, Paris 1953, coll. 236-242; E. Pichery, Les idées morales de Jean Cassien, «Melanges de science religieuse»
14 (1957), pp. 5-20. back
(5) Cassiano, Conlatio IV, X, p. 174. back
(6) Cfr. P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi
secoli cristiani, trad. it. Einaudi, Torino 1992, pp. 43-44; cfr. anche J.-Cl. Schmitt, Corps et âme, in J. Le Goff-J.-Cl. Schmitt, Dictionnaire raisonné de l’Occident Médiéval,
Fayard, Paris 1999, p. 233. back
(7) Cassiano, Conlatio IV, VII-XII, pp. 172-178. Sulla concezione di Cassiano e
la sua opposizione alle dottrine di Agostino, cfr. Brown, Il corpo e la
società, pp. 377-79. back
(8) Cassiano, Conlatio V, X, pp. 197-99. Cfr. O. Chadwick, John Cassian, Cambridge University
Press, Cambridge 1968, pp. 92-96. back
(9) Cassiano, Institutiones coenobiticae, XII, 29-31, ed. J.-C.Guy, SC 109, Les Editions du Cerf, Paris 1965, p. 484:
«Quod superbiae genus [...] illos solummodo pulsare solet qui devictis
superioribus vitiis iam propemodum sunt in virtutum culmen conlocati. Quos quia
lapsu carnali subtilissimus hostis superare non quivit, spirituali ruina
deicere ac subplantare conatur.[...] Ceterum nos, qui adhuc terrenis sumus
passionibus involuti, nequaquam hoc modo temptare dignatur sed crassiore et ut
ita dicam carnali elatione subplantat»; per i segni della superbia carnale,
cfr. pp. 488-496. Sulla distinzione tra monaci carnali e monaci spirituali,
cfr. M. Viller e J. Bonsirven, «Chair», in Dictionnaire de
Spiritualité, II, coll. 446-47. back
(10) Gregorio Magno, Moralia in Job, XXXI, XLV, 89, a cura di M. Adriaen, CCL 143, Brepols, Turnhout 1979-1985, p. 1611. back
(11)
Sull’immagine dell’albero cfr. L.
Bolzoni, La rete delle immagini.
Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Einaudi,
Torino 2002, pp. 103-144; in particolare sugli alberi dei vizi cfr. C. Frugoni, La mala pianta, in Storiografia
e Storia. Studi in onore di E. Dupré Theseider, Bulzoni, Roma 1974, pp.
651-59; Casagrande-Vecchio, I sette vizi capitali, p. 185. back
(12) Agostino, De civitate Dei, XIV,13-15, ed. B. Dombart-A. Kalb, Brepols, Turnhout 1955, CCL 48,
pp. 434-38. Cfr. W. M. Green, “Initium omnis peccati superbia”: Augustine
on Pride as the First Sin, Univ. of California Press, Berkeley 1949. back
(13) Gregorio, Moralia, V, 34, 56, p. 261: «Humana quippe anima, primorum hominum
vitio a paradisi gaudiis expulsa, lucem invisibilium perdidit, et totam se in
amorem visibilium fudit; tantoque ab interna speculatione caecata est, quanto
foras deformiter sparsa; unde fit ut nulla noverit nisi ea quae corporeis
oculis, ut ita dixerim, palpando cognoscit. Homo enim, qui si praeceptum
servare voluisset, etiam carne spiritalis futurus erat, peccando factus est
etiam mente carnalis ut sola cogitet, quae ad animum per imagines corporum
trahit». back
(14) Cfr. C.
Dagens, Saint Gregoire le Grand.
Culture et expérience chrétiennes, Etudes augustiniennes, Paris 1977, pp.
168-73. back
(15) Gregorio, Moralia, IV, XXVII, 49-52, pp. 193-97. Sulla dinamica del peccato
in Gregorio, cfr. F. Gastaldelli,
Il meccanismo psicologico del peccato nei
‘Moralia in Iob’ di San Gregorio Magno, «Salesianum», 27 (1965), pp.
563-605; S. Vecchio, «Peccatum
cordis», in Le coeur de l’Antiquité au
XVIIIe siècle. Phisiologie, mystique, images, Actes du Colloque de Lausanne, 15-18
nov. 2000, (in corso di stampa). back
(16) Gregorio, Moralia, XXXIV, XXIII, 52, pp. 1769-70. back
(17) Cfr. P.
Miquel-J. Kirkhmeyer, «Gloire
(Vaine gloire)», in Dictionnaire
de Spiritualité, IV, Beauchesne, Paris 1967, coll. 494-505;
Casagrande e Vecchio, I sette vizi
capitali, pp. 6-10. back
(18) Gregorio, Moralia, XXX, XVIII, 58-63, pp. 1530-33. back
(19) Per un’analisi delle categorie di interiorità
ed esteriorità nel pensiero di Gregorio, cfr. Dagens,
Saint Grégoire le Grand, pp. 184-210;
P. Aubin, Intériorité et extériorité dans les Moralia in Job de saint Grégoire le Grand, «Recherches
de science religieuse» 62 (1974), pp. 117-166. back
(20) Sui rapporti tra anima e corpo nel pensiero
di Gregorio cfr. P. Daubercies, La théologie de la condition charnelle chez
les Maîtres du haut moyen âge, «Recherches de Théologie Ancienne et
Médiévale» 36 (1963), pp. 5-54; C. Straw,
Gregory the Great. Perfection in Imperfection, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press 1988, pp.
47-76, 107-146. back
(21) Gregorio, Moralia, IV, III, 8, pp. 168-69: «Duas vero ad intelligendum se
creaturas fecerat, angelicam videlicet et humanam; utramque vero superbia
perculit atque ab statu ingenitae rectitudinis fregit. Sed una tegumen carnis habuit,
alia vero nil infirmum de carne gestavit. Angelus namque solummodo spiritus, homo vero et spiritus et caro. Misertus
ergo creator ut redimeret illam ad se debuit reducere quam in perpetratione
culpae ex infirmitate aliquid constat habuisse; et eo altius debuit apostatam
angelum repellere quo cum a persistendi fortitudine caruit, nil infirmum in
carne gestavit»; cfr. Straw, Gregory the Great, pp. 141-46. back
(22) Fra gli
autori che riprendono alla lettera le espressioni di Gregorio, cfr. Isidoro di Siviglia, Differentiae, PL 83, col. 96; Ps. Rabano Mauro, De vitiis et virtutibus, PL 112, col. 1350, 1367; Alcuino definisce
la superbia vitium spirituale, la
gola corporale peccatum e la lussuria
corporalis immunditia (Liber de virtutibus et vitiis, PL 101,
632). Aelredo di Rievaulx riprende invece la scansione di Cassiano,
applicandola ai diversi gradi di perfezione dei monaci; Sermones, XL, 11, ed. G.
Raciti, CCM 2A, Brepols, Turnhout 1989, p. 320: «Carnalia vitia vocamus
fornicationem, luxuriam, gulam, ebrietatem et cetera huiusmodi. Haec solent
primo impugnare hominem quando exit de saeculo. Quis si postea incipit
proficere in virtutibus statim incipiunt eum impugnare spiritalia vitia idest
superbia et vana gloria». back
(23) De
fructibus carnis et spiritus, PL 176, coll. 997-1010. Per l’attribuzione
cfr. R. Bultot, L’auteur et la fonction littéraire du “De
fructibus carnis et spiritus”, «Recherches de Théologie ancienne et
Médiévale», 30 (1963), pp. 148-154. back
(24) Guglielmo di Saint Thierry, Expositio super Epistolam ad Romanos,
IV, 17-18, ed. P. Verdeyen, CCM 86, Brepols, Turnhout 1989, p. 100: «In corpore
enim habitat peccatum; sed ei non consentiendo vivit ex fide qui invocat Deum,
pugnans contra peccatum». Per uno sguardo complessivo sulla concezione del
corpo in epoca medievale, cfr. V.
Fumagalli, Solitudo carnis.
Vicende del corpo nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1990; e. R. Bultot, La doctrine du mépris du monde, IV, Le XIe siècle, 1. Pierre Damien, Nauwelaerts, Louvain-Paris 1963, pp. 17-30. back
(25) Cfr. Gregorio Magno, In Evangelia, Homilia XVI, PL 76, col. 1136. Si veda la
sequenza del peccato in Bernardo di Chiaravalle, Sententiae, III, 69, in Opera, ed. J. Leclercq, H.
M. Rochais e Ch. H. Talbot,
Editiones cistercienses, vol. VI.2, Roma 1972, p. 101: «Primum peccavit
spiritus Adae consentiendo et oboediendo voci serpentis vel mulieris; deinde
corpus, seipsum exhibendo in peccaum. Adam enim inter Deum et uxorem medius;
sursum ad Deum duobus vinculis tenebatur: timore et amore; uno inferius ad
uxorem: amore carnali. Prevaluit unum inferius, et, disruptis sursum duobus,
carnalem hominem per sensum pondere carnalitatis suae deiecit in uxorem. Qui
mox et corporaliter peccavit, cum manum ad pomum, os ad gustum porrexit». Per
la ripresa del tema nel XIII secolo, cfr. Tommaso
di Chobham, Summa de commendatione
virtutum et extirpatione vitiorum, V, ed. F.
Morenzoni, Brepols, Turnhout 1997, CCM 82 B, p. 209; Lotario de’ Segni (Innocenzo III), De miseria humanae conditionis, II,
XVIII, ed. M. Maccarrone,
Thesaurus mundi, Lugano 1955, p. 52; Pseudo
Vincenzo di Beauvais, Speculum
Morale, l. III, pars. VIII, d.
1, B. Belleri, Douai 1624, rist.
anast. Akademishe Druck-u. Verlagsanstadt, Graz 1964, col. 1343. L’idea
che il peccato originale fu, se non un peccato esclusivamente di gola, quanto
meno un peccato che coinvolgeva anche il corpo, affonda le sue radici nella
dottrina agostiniana della concupiscenza, che finisce per radicare proprio
nella carne la corruzione del peccato originale, demandando alla generazione
dei corpi la trasmissione del peccato; cfr. Pier
Lombardo, Sententiae in IV libris
distinctae, II, d. XXXI, Collegio S. Bonaventura, Quaracchi 1971-1981, vol.
I, pp. 505-509. back
(26) Abelardo, Ethica, ed. D. E. Luscombe, Clardendon Press, Oxford 1971, pp. 32-34. Cfr. R.
Blomme, La doctrine du péché dans
les écoles théologiques de la première moitié du XIIe siècle, Publications
Universitaires de Louvain, Louvain-Duculot, Gembloux 1958, pp. 103-217. back
(27) Ibid. pp. 22-24; Id., Problemata
Eloissae, PL 178, col. 710. back
(28) Id., Commentaria in Epistolam Pauli ad Romanos, I, II, 9, ed. E. M.Buytaert, CCM 11, Brepols,
Turnhout 1969, p. 81: «Bene dicit in animam, non in corpus hominis vindictam
fieri, quia solius animae est contristari vel delectari, irasci vel gaudere.
[…] et sola proprie dicenda est peccare sicut et virtutes habere et sola beata
effici ex visione divine maiestatis, quae oculis tantum mentis non corporis
conspicitur. Quod autem quinque animae sensus corporei dicuntur, com sola
tantum ut dictum est anima sentiat, vel quod quaedam peccata carnalia, quaedam
spiritualia vocentur, cum sola tantum anima peccet, quae sola rationem habet et
velle potest, non ita est accipiendum ut corpus ispum vel sentiat vel peccet,
sed quia per ipsum vel sensus exercentur vel voluntates implentur ut ingluvies
gula, libido genitalibus». L’idea di un peccato sempre e comunque spirituale è
già presente nelle Sentenze di Anselmo di Laon; cfr. O. Lottin, Psychologie et morale au XIIe et XIIIe siècles, V, Duculot,
Gembloux 1959, p. 22: «[…]que omnia si quis animi ex carne credat accidere errat,
sed nomine carnis totum hominem significavit qui, vivendo secundum se, in hoc
cadit. Quod autem sine carne spiritus etiam, scilicet pars anime superior,
peccat, videri potest per angelum qui, licet sine carne, tamen peccavit.
Similiter prius peccavit Adam in spiritu quam caro contaminata esset: ex
peccato enim precedente in anima contaminata est caro». back
(29) Abelardo,
Ethica, p. 18. back
(30) Ivi, p. 20. back
(31) Si veda ad
esempio Ugo di San Vittore, De sacramentis, II, XIII, cap. 1, PL
176, col. 525. Cfr. Blomme, La doctrine du péchè, pp. 300-335. back
(32) Alano di Lilla, Liber poenitentialis, PL 210, col 288. back
(33) Pietro di Poitiers, [Summa de confessione] Compilatio praesens,
I, ed. J. Longère, CCM 51,
Brepols, Turnhout 1980, p. 4: «Duo sunt genera peccatorum. Quaedam
dicuntur spiritualia, quaedam carnalia. Haec secundum Gregorium plus habent
infamiam quia patent, minus culpae quia causam habent impulsivam a carne.
Spiritualia vero econtrario. Haec et
illa solent sub septenario comprehendi.[…] Spiritualia in quibus
communius peccatur et frequentius, reor esse huiusmodi et ex huiusmodi
provenire: superbia, invidia, accidia, scilicet taedium boni, cupiditas
avaritia, vanagloria, negligentia, ira, tristitia, adulatio, detractio,
maledictio, mala cogitatio, prava delectatio, pravusque consensus, et ex his
alia fere infinita, ut impatientia, ambitio, simonia et cetera. Haec omia
praescripta spiritualia dicuntur praeter peccata locutionis. Haec sunt species
superbiae secundum Gregorium; et ex se pro meritis falso plus omnibus inflant.
Spiritualia dicuntur peccata seu spirituales nequitiae, quasi peccatis
carnalibus opposita, quia non exercentur per sensus corporis nec per membra.
Item peccatur per omnes sensus corporis, et haec pertinent ad peccata carnalia,
sic et peccata locutionis». Sulla classificazione dei peccati in relazione ai
cinque sensi, cfr. C. Casagrande, «Sistema
dei sensi e classificazione dei peccati (secoli XII-XIII)», in Les cinq sens au Moyen Age, Colloque
International, Lausanne 27-30 ottobre 1999, Micrologus 2002 (in corso di
stampa); sui peccati della lingua, cfr. Casagrande
e Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica
della parola nella cultura medievale, Istituto dell’Enciclopedia Italiana,
Roma 1987. back
(34) Tommaso di Chobham, Summa de commendatione virtutum et
extirpatione vitiorum, V, pp. 242-43: «Set quodam ordine processimus
forsitan inusitato, ut primo de carnalibus viciis, scilicet gula, luxuria et
ira ageremus, et postea de spiritualibus prosequeremur. Et huius ordinis rationem supra assignavimus. Tria
enim prima vicia, scilicet gula, luxuria et ira, manifesta sunt fere omnibus,
nec est aliquis qui ignoret quando per aliquod istorum trium peccet. Tria
autem vicia spiritualia ita latentia sunt et occulta, ut vix deprehendat
aliquis quando per aliquod istorum peccat.[…] Inter autem haec tria et prima
tria media est avaricia, quia partim sibi est manifesta, partim occulta». back
(35) Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum, A. e J. De Britannicis de Pallazzolo,
Brescia 1494, VI, capp. 14-36; in particolare per le singole parti del corpo,
cfr. cap. 22: «Est enim superbia oris et superbia oculorum et superbia narium
et superbia colli et sic de ceteris membris». back
(36) Ivi,
VIII, cap. 6. back
(37) Roberto di Sorbona, Ad sanctam et rectam confessionem, in Maxima Bibliotheca Patrum, XXV,
Annissonii, Lyon 1677, p. 353: «Item si mente aliquem concupierit ... Videat
ergo si habuerit voluntatem in aliquo genere luxuriae. Item si in corde,
morosam delectationem, et consensum absque opere habuerit»; Ps. Vincenzo di Beauvais, Speculum morale, l. III, pars VIII, d.
1, col. 1341: «[…] nec consistit hoc vitium in substantia vel natura cibi vel
potus, quia sicut dicit Salvator Matt. 15: Non
quod intrat in os, hoc coinquinat hominem spiritualiter, sed inordinata
ciborum concupiscentia, non regulata ratione coinquinat hominem». Cfr. Casagrande e Vecchio, I sette vizi
capitali, pp. 131-135; 163-167. back
(38) Ivi, pp. 207-209; cfr. anche S. Vecchio, “Peccatum cordis”. back
(39) Speculum conscientiae, in S. Bonaventurae Opera Omnia, vol. VIII, Coll. S. Bonaventura, Quaracchi 1898, pp.
623-645. Si veda anche la progressione dei singoli vizi dall’interno verso
l’esterno in Davide di Augusta, De exterioris et interioris hominis
compositione, II, II, XXIX-XLIX, pp. 114-151. back
(40) Seneca, De ira, I, 1; II, 35; III, 4 . Per la ripresa degli spunti
senechiani, cfr. Martino di Braga,
De ira, ed. P. Farmhouse Alberto, «Mediaevalia. backos e estudos», IV,
1993, pp. 144-46; Ruggero Bacone,
Moralis philosophia, III, 1, ed. E.
Massa, Thesaurus mundi, Zürich 1953, p. 73ss. Cfr. Casagrande e Vecchio,
I sette vizi capitali, pp. 63-66. back
(41) Cassiano, Institutiones, X, 2, pp. 384-88. Sui segni dell’accidia, cfr. Casagrande e Vecchio, I sette vizi
capitali, pp. 80-84. back
(42) Gregorio, Moralia, V, XLVI, 85, p. 282: «Nam cum devictum cor livoris putredo
corruperit, ipsa quoque exteriora indicant quam graviter animum vesania
istigat. Color quippe pallore afficitur, oculi deprimuntur, mens accenditur et
membra frigescunt, fit in cogitatione rabies, in dentibus stridor; cumque in
latebris cordis crescens absconditum odium, dolore caeco terebrat conscientiam
vulnus inclusum». Cfr. anche Cipriano,
De zelo et livore, 8, ed. M. Simonetti, Brepols, Turnhout 1976,
CCL 3 A, p. 79. back
(43) Bernardo, De gradibus humilitatis et superbiae,
XVIII, 46, in Opera, vol. III, Roma
1963, p. 51; Guglielmo Peraldo, Summa virtutum ac vitiorum, VI, cap. 5.
Cfr. Casagrande e Vecchio, I sette vizi capitali, pp. 20-22. back
(44) Cfr. P. Gil Sotras, Modelo teorico y observación clinica: las pasiones del alma en la
psicología medica medieval, in Comprendre
et maîtriser la nature au Moyen Âge. Mélanges d’histoire des sciences offerts à
Guy Beaujouan, Droz,
Genève 1994, pp. 181-203; J. Agrimi,
“Ingeniosa scientia naturae”. Studi sulla fisiognomica medievale,
SISMEL ed. del Galluzzo, Firenze 2002. back
(45) Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de malo, qq. X-XII, in Opera Omnia, Editio Leonina Commissio Leonina-Vrin, t. XXIII,
Roma-Paris 1982, pp. 217-245; Id.,
Summa theologiae, I, II, q. 37, a. 4,
q. 48, a. 2 e 4. back
(46) Tommaso d’Aquino, Quaestiones disputatae de malo, q. VIII, a. 1, p. 194: «Bonum autem
hominis est triplex: scilicet bonum anime, bonum corporis et bonum exteriorum
rerum. Ad bonum igitur anime, quod est bonum ymaginativum, scilicet excellentia
honoris et glorie, ordinatur superbia vel inanis gloria; ad bonum autem
corporis pertinens ad conservationem individui quod est cibus ordinatur gula,
ad bonum vero corporis pertinens ad conservationem speciei sicut est in
venereis pertinet luxuria; ad bonum autem exteriorum rerum pertinet avaritia.
[…] Quantum igitur ad modum fuge sumuntur duo vitia capitalia prout bonum
impeditivum boni cupiti consideratur in ipso vel in alio: in ipso quidem sicut
bonum spirituale impedit quietem vel delectationem corporalem, et sic est
accidia, que nichil est aliud quam tristitia de aliquo bono spirituali prout
est impeditivum boni corporalis; in alio vero secundum quod bonum alterius
impedit propriam excellentiam, et sic est invidia que est dolor alieni boni.
Insurrectionem vero contra bonum importat ira». La distinzione tra vizi carnali
e vizi spirituali rimane come rapida citazione in Bonaventura, Breviloquium, III, IX, in Opera omnia, vol. V, Collegio San
Bonaventura, Quaracchi 1891, p. 238. Per il dibattito scolastico sulla
classificazione dei vizi capitali cfr. S.
Wenzel, The seven deadly sins:
some problems of research, pp. 3-12; Casagrande
e Vecchio, La classificazione dei peccati tra settenario e decalogo (secoli
XIII-XV), «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale» 5
(1994), pp. 336-343. back
(47) Secondo
Davide di Augusta ad esempio le due categorie di vizi non si riferiscono ad un
duplice processo di generazione, ma piuttosto indicano due differenti strategie
di resistenza da parte dell’uomo: lo scontro frontale per i vizi spirituali e
la fuga di fronte ai vizi carnali; cfr. De
exterioris et interioris hominis compositione, II, I, cap. II, p. 75:
«Harum tentationum quasdam oportet nos maxime resistendo superare, ut
spiritualia vitia, scilicet iram, accidiam, superbiam, invidiam; quasdam vero
fugiendo melius evadimus quam pugnando, ut luxuriam, gulam, avaritiam, licet
etiam pugna contra ea sit necessaria, sed tamen non est tutum diu cohabitare serpenti
[…] Spiritualia autem vitia, etsi quandoque ex fuga videantur quasi remissius
et rarius infestare, dum deest occasio impugnandi, tamen postea, orta
occasione, durius furere solent, sicut leo diu catenatus amplius fremit, cum
fuerit emissus». back
(48) Roberto di Sorbona, Cum repetes (De modo audiendi confessiones
et interrogandi), ed. F. N. M. Diekstra, «Recherches de théologie et philosophie médiévales», 46 (1999), pp.
118-125. back
(49) Roberto
di Framborough, Liber
poenitentialis, IV, VII, ed. J. J.
F. Firth, Pontifical Institute of Medieval Studies, Toronto 1971, p.
195. back
(50) Egidio Romano, Sermones de tribus vitiis mundi, III, in Aegidii Romani Opera
omnia, I. Repertorio dei sermoni,
ed. C. Luna, Olschki, Firenze
1990, pp. 375-78. back
(51) Ivi, pp. 374-75: «Narrat autem
Augustinus, in primo De doctrina
christiana, quatuor diligenda esse ex caritate: unum quod est supra nos, ut
deus; aliud quod est infra nos, ut corpus nostrum; tertium quod est iuxta nos,
ut proximus; et quartum quod nos sumus. Et quia quatuor diligenda sunt ex
caritate, videlicet deus, proximus, nos ipsi et corpus nostrum, illud ergo
videtur esse valde detestabile et videtur esse valde contra caritatem quod
omnibus hiis quatuor contradicit.[…] Primo enim vitium gule est contra corpus
nostrum, quia finis gulosorum est interitus, id est mors, iuxta illud
Ecclesiastici: propter crapulam multi obierunt». back