Razionalità e relativismo: Il significato storico e contemporaneo della
risposta hegeliana a Sesto Empirico (*) Department of Philosophy, University of East Anglia (UK) La filosofia è stata spesso considerata, perfino di recente dagli stessi addetti ai lavori, come qualcosa che ha poco a che fare con la vita reale. Benché possa comprendere questa impressione, non l' ho mai condivisa. Una delle ragioni principali per cui mi sono dedicato all'attività filosofica è stata la mia crescente difficoltà di fronte alle discussioni tanto inutili quanto appassionate, su temi politici e morali, che hanno caratterizzato la vita americana negli anni '60, attraverso differenze di opinioni apparentemente inconciliabili, che riguardavano perfino fatti rilevanti. Tutte discussioni che implicavano questioni di fondo circa la razionalità e il relativismo. Il rifiuto dogmatico dei punti di vista di coloro che sono in disaccordo, o l'uso, contro di essi, di presupporre l'assunto da dimostrare nella giustificazione della propria tesi (petitio principii), può essere associato ad una auto-confidenza universalista che ognuno debba essere d'accordo con la 'mia' posizione. Rifiutare in questo modo la prospettiva degli avversari implica riconoscere che tali oppositori valutano il mondo in modo diverso, in modo profondamente diverso su qualsiasi punto sia in questione, mentre non fornisce alcuna base per supporre che la prospettiva dell'avversario sia meno fondata o informata della propria. Dogmatismo e petitio principii assicurano che l'opinione avversaria non merita meno della propria e non fanno altro che frustrare ogni tentativo di risolvere la discussione. La filosofia nel XX secolo ha raggiunto molti successi in varie direzioni, con risultati durevoli raggiunti da un buon numero di filosofi originali. Sfortunatamente, molti di questi innovatori hanno alla fine preteso di aver trovato "il" modo proprio di filosofare, con la conseguenza di rendere la filosofia del XX secolo altamente settaria. Una delle divisioni principali in questo ambito è stata tra la filosofia "analitica" anglo-americana (anche australiana) e la filosofia "continentale" europea. All'interno della filosofia "analitica" un'altra grande divisione è stata quella tra la filosofia in senso proprio e la storia della filosofia, quest'ultima abbassata a mero esercizio erudito senza meriti filosofici. In generale, sebbene non del tutto, i filosofi continentali hanno conservato un interesse maggiore degli analitici per la storia della filosofia. Ciò che noi consideriamo come filosofia 'moderna' è iniziata negli ultimi anni del '600, confrontandosi con problemi fondamentali riguardanti la razionalità e il relativismo. Le tensioni tra la scienza galileiana e la dottrina cattolica sono state però solo uno dei moventi, in quanto l'altro motivo chiave è stato il riconoscimento diffuso che gli scismi religiosi del cristianesimo non erano riconciliabili. Di conseguenza, qualsiasi principio morale o politico adatto a governare la condotta umana in Europa dovette essere giustificato indipendentemente da ogni argomento sulla divinità, così, sebbene rimanessero cristiani devoti, i filosofi, per la maggior parte, si rivolsero alla ragione, alla persuasione razionale, per ottenere una tale giustificazione. La prima grande figura ad intraprendere questo sforzo monumentale fu Ugo Grozio, che è ampiamente e giustamente riconosciuto in Europa come il co-fondatore della filosofia moderna: certo Cartesio non lavorò da solo (1). La filosofia moderna è fiorita nell'Illuminismo, un movimento filosofico e culturale con cui viviamo ancora oggi, malgrado il crescente numero di persone, critici multiculturali del colonialismo e dell'imperialismo, che lo mettono in questione. Alcuni di loro hanno di recente esteso le loro riserve all'Illuminismo stesso: riassumendo grosso modo le loro tesi, essi ritengono che la supposta "universalità" della ragione, proclamata trionfalmente dall'Illuminismo, abbia condotto direttamente all'imposizione di una ragione eurocentrica su altre culture, militarmente meno sviluppate. Inoltre, alcuni di questi critici non sono d'accordo sul fatto che esista una simile ragione "universale". Una questione sollevata è se il difetto risiede nella visione illuministica della ragione, o nel suo fraintendimento o nelle sue inadeguate realizzazioni, ma la risposta può essere benissimo ciascuna delle spiegazioni: tutte e tre, infatti, potrebbero essere corrette. Non insisterò pertanto sulle dimensioni storiche o politiche di questi problemi, piuttosto, vorrei suggerire che ci sono alcuni seri punti deboli nella nozione illuministica di ragione. Nel corso di questo contributo, sosterrò che identificare tali punti deboli, e rimediarvi, non conduce all'abbandono dell'illuminismo razionale, ma, piuttosto, ad una spiegazione più avanzata della razionalità umana. L'Illuminismo concepiva la ragione umana in termini di molte definizioni in forma dicotomica. Discuterò tre di queste dicotomie: la prima riguarda il rapporto tra ragione e tradizione (I); la seconda, il rapporto tra conoscenza e società (II); la terza, infine, la relazione tra individui e società (III) (2) I. Ragione versus tradizione. L'Illuminismo considerava la ragione come l'abilità dell'uomo di saggiare e rivedere le sue norme e istituzioni ereditate culturalmente, in una parola, le sue tradizioni. Per poter svolgere questa funzione critica, la ragione "doveva essere" indipendente dalla tradizione, così la ragione venne anche considerata come una dotazione inerente agli individui umani. Questi assunti hanno generato una dicotomia esclusiva, oppositiva, tra ragione e tradizione, ma una dicotomia che è fallace in se stessa. In effetti degli individui raziocinanti che apportano contributi cruciali alle istituzioni sociali devono attingere pesantemente dall' educazione, che si compie all'interno di norme, pratiche e tradizioni delle discipline loro proprie, e dall' assimilazione di queste. Pertanto, i contributi individuali, per quanto innovativi essi possano essere, sono completamente basati su pratiche sociali, in quanto fanno assegnamento su risorse misconosciute e su possibilità di modificazione che erano latenti nelle pratiche stabilite o "tradizionali"; le innovazioni individuali poggiano su risposte a scopi non conseguiti e aspirazioni insoddisfatte da quelle pratiche, su circostanze inaspettate o cambiamenti di eventi, o ancora, su una combinazione di tutti questi elementi. La razionalità è il fattore centrale per la legittimazione di principi, norme ed istituzioni, e la legittimità di essi è strettamente legata alla loro accettabilità e alla loro accettazione da parte di qualche gruppo rilevante. In che modo, allora, la ragione governa l'accordo interpersonale? La risposta individualista dell'Illuminismo è che, poiché la ragione è la stessa in ognuno di noi, se ciascuno di noi ragiona in modo accurato, chiaro e sincero, arriveremo alle stesse conclusioni, perché riconosceremo le stesse premesse prime e seguiremo gli stessi principi di ragionamento: in particolare, questo ideale è stato espresso dal "calcolo universale" proposto da Leibniz. Si tratta comunque di un atteggiamento che lascia in eredità a ciascuno il problema di determinare, da noi stessi, quando e se stiamo in effetti ragionando in modo proprio o chiaro, e quando siamo invece influenzati dalla tradizione o dal pregiudizio: fu Cartesio a presentare un insieme di regole per mezzo delle quali avremmo dovuto distinguere tra un nostro ragionamento proprio o improprio. Questa risposta individualistica pone almeno due problemi. Primo: se in una mente umana dovessimo astrarre da tutto ciò che deriva dalla società e dalle tradizioni che l'hanno formata, essa non sarebbe capace di seguire, e finanche comprendere, principi o procedure. Secondo: in pratica, questa visione individualistica della ragione non ci soccorre precisamente quando ne avremmo più bisogno, laddove questioni di razionalità e legittimazione acquistano maggiore importanza: infatti, in situazioni nella quali c'è mancanza di chiarezza e indecisione, essa tende a rinforzare la faziosità, piuttosto che aiutare a discernere, o a sviluppare, principi reciprocamente accettabili. I conflitti che insorgono entro una tradizione non sono necessariamente conflitti tra ragione e non ragione; sono tipicamente conflitti tra alcune delle risorse razionali - principi e pratiche di ragionamento - interne a quella tradizione, che di solito sorgono quando si affrontano sviluppi nuovi e senza precedenti. Simili conflitti sono normali, e spesso si verificano attraverso il successo di qualche insieme di pratiche entro quella tradizione, il tentativo di risolverli è il tentativo di rimodellare le risorse razionali della tradizione al fine di conciliare quegli sviluppi, e questo non è un aspetto circoscritto, bensì essenziale della ragione. Per apprezzare il ruolo della conflittualità nello sviluppo delle procedure razionali e delle tradizioni, per aiutare il nostro confronto con tali conflitti, e il nostro risolverli, bisogna considerare la ragione come fenomeno sociale, bisogna riconoscere che la "tradizione" è una parte della ragione, mentre la 'ragione' è una parte della tradizione. Ragione e tradizione non sono delle controparti, non sono opposte, ma reciprocamente e completamente interdipendenti. II. Conoscenza e società. L'individualismo implicato nella visione illuminista della ragione è legato ad una seconda dicotomia circa la conoscenza umana, più specificamente, alla questione del realismo riguardante gli oggetti del nostro conoscere. In risposta alla disputa tra Galileo e la Chiesa sul sistema solare, fu ampiamente ritenuto che l'unico modo di sostenere il realismo circa gli oggetti della conoscenza umana fosse di fornire una stima essenzialmente individualistica di essa, secondo cui gli individui possono, almeno in principio, scoprire e conoscere cose sul mondo senza appoggiarsi in alcun modo essenziale a risorse sociali. D’altra parte, si diffuse la convinzione che se la conoscenza umana è inerentemente sociale, allora il realismo deve essere rifiutato, poiché, in quel caso, noi saremmo guidati dalle convenzioni sociali piuttosto che dai fatti del mondo. Questa dicotomia ha influenzato in modo pervasivo la filosofia dall'Illuminismo fino ad oggi. E' da notare che il contro-Illuminismo iniziato con Herder accettava questa dicotomia, ma difendeva una spiegazione sociale della conoscenza umana, e, conformemente, rifiutava il realismo. Secondo il relativismo storicista, ogni cultura (in effetti, ogni epoca di una cultura), è definita da certe idee fondamentali, e non c'è modo di valutare i meriti di queste idee, compreso se o come esse conducono alla conoscenza del mondo naturale. Se questo è vero, la posizione realista non è sostenibile, e questa è stata, in effetti, la conclusione di Herder, più volte ripresa, anche di recente: ad esempio, molti sociologi della conoscenza continuano precisamente su questa linea, com'è il caso di Richard Rorty. Una attenta analisi, tuttavia, prova che questa dicotomia è speciosa: il realismo circa gli oggetti della conoscenza umana è infatti coerente con una spiegazione sociale ben costruita della conoscenza umana; solo recentemente alcuni epistemologi analitici hanno riconosciuto questo fatto importante (3). Sebbene l'esempio sia controverso, ritengo che la storia della scienza - una impresa profondamente sociale - mostri che le cose vadano proprio così, come risulta in modo ancora più evidente una volta che la dicotomia illuminista tra ragione e tradizione venga respinta come fallace. III. Individui e società. L'individualismo illuminista sulla ragione e la conoscenza era legato ad una terza dicotomia, probabilmente a voi già familiare dai dibattiti sull'"individualismo metodologico" negli studi sociali e storici. Ciò che implicitamente veniva supposto era che c'erano solo due modi di concepire le relazioni tra individuo e società. Delle due l'una, o: 1) gli individui sono la base, mentre le società sono composte di individui; o: 2) le società sono la base, mentre gli individui sono solo creature della società. Prima di qualsiasi commento, permettetemi di osservare che qui è in gioco una questione teoretica, filosofica, che ha dirette implicazioni politiche: questa dicotomia esprime infatti lo scontro frontale del secolo scorso fra il centro individualista liberale e il collettivismo monolitico del fascismo di destra e di sinistra; è dunque in realtà un fatto tragico che questa dicotomia sia speciosa. Alcune ragioni a sostegno di ciò sono già state avanzate con quanto ho osservato a proposito del rapporto tra ragione e tradizione. Non passerò in rassegna ulteriori ragioni contro questa dicotomia, sosterrò invece una visione alternativa della relazione tra individui e società, che chiamerò "collettivismo moderato", e che include tre tesi. Gli individui sono fondamentalmente dei praticanti sociali. Ogni cosa una persona faccia, dica o pensi si forma nel contesto delle pratiche sociali che forniscono risorse materiali e concettuali, oggetti del desiderio, abilità, procedimenti, tecniche, occasioni, permessi per l'azione etc. Cosa gli individui fanno dipende dalla loro risposta al proprio ambiente sociale e naturale. Non ci sono individui, non ci sono praticanti sociali, senza pratiche sociali, e viceversa, non ci sono le seconde senza i primi, senza individui che imparano, partecipano, perpetuano queste pratiche sociali, e che le modificano in funzione della soddisfazione di nuovi bisogni, dell'attuazione di fini diversi, dell'adeguamento a circostanze mutate (compresi i cambiamenti nelle procedure e nelle informazioni). In seguito trarrò alcune conclusioni più generali dalla mia critica a queste tre dicotomie, ma adesso mi pare importante mettere in evidenza un altro tratto fondamentale della visione illuministica della ragione, che prima ho appena accennato. L'Illuminismo concepiva la giustificazione razionale essenzialmente in termini di deduzione assiomatica, un modello derivato direttamente dalla matematica e dalla logica. L'idea di base è che una conclusione può essere giustificata solo se può essere dedotta da alcuni insiemi privilegiati di premesse prime. Il modello è molto adatto ai domini formali come la logica e la matematica, tuttavia, la storia della teoria filosofica della conoscenza (includendo la filosofia della scienza) da Cartesio ad oggi, è stata in gran parte la storia dei tentativi di inserire la conoscenza empirica in questo modello, e, insieme, delle ripetute scoperte dell'inadeguatezza di simili adattamenti. Il problema più grosso ha a che fare con l'insieme privilegiato di premesse prime. Che cosa le giustifica? Un candidatura molto popolare è stata quella dell'auto-evidenza, ma l'ampia varietà delle premesse prime che hanno preteso di essere auto-evidenti tende ad accreditare la mordente osservazione di Ambroise Bierce, secondo cui "ciò che è auto-evidente è ciò che è evidente solo a se stesso" (4). Una critica contro l'Illuminismo sollevata dal contro-Illuminismo, e ancora oggi da alcuni multiculturalisti radicali, è che culture diverse hanno insiemi unici di tali "premesse prime", che non possono essere riconciliati con quelle di altri culture, il che ha stimolato la recente riproposizione del relativismo storicista. In termini più filosofici, il problema che affronta la questione delle premesse prime è il classico dilemma scettico posto da Sesto Empirico, il cosiddetto "dilemma del criterio". Il legame tra questi problemi è duplice. Da un lato, le "premesse prime" sono in effetti usate come criteri per determinare ciò che è giustificato, e ciò che non lo è. Dall'altro, mettere in discussione la giustificazione di esse solleva direttamente il problema circa i criteri della loro giustificazione, e della giustificazione di quei criteri, qualsiasi essi possano essere. Così Sesto formula il dilemma: (PH II 4., 20): "E inoltre, affinché si giudichi la discordanza generatasi intorno al criterio, occorre che noi possediamo un criterio concorde, attraverso cui siamo in grado di dirimerla; e affinché possediamo un criterio concorde, occorre che la discordanza intorno al criterio sia stata precedentemente giudicata. Poiché tuttavia in questo modo il ragionamento va a cadere nel tropo del diallele, senza via di uscita si rivela la scoperta del criterio, non concedendo noi che quelli accolgano un criterio in via ipotetica e risospingendoli all'infinito, qualora vogliano giudicare del criterio con un criterio. E ancora, poiché la dimostrazione ha bisogno di un criterio dimostrato e a sua volta il criterio di una dimostrazione ben giudicata, essi vanno a cacciarsi nel tropo del diallele" (5). Sebbene questo dilemma abbia avuto una influenza pervasiva, spesso sotterranea, sulla filosofia moderna, pochi filosofi illuministi lo hanno affrontato direttamente, in parte perché erano paralizzati da una spiegazione assiomatico-deduttiva della giustificazione, la quale secondo loro risolveva il problema della natura e del criterio della giustificazione. Vi prego di notare che il dilemma del criterio solleva, ad un livello teorico, precisamente le questioni poste in rilievo dai pluralisti e dai multi-culturalisti radicali circa le (in-)comprensioni trasversalmente culturali; inoltre, solleva quel tipo di problemi con cui, come ho richiamato all'inizio, mi sono confrontato durante i conflitti sociali di cui sono stato testimone da studente. L'attenzione filosofica a queste dicotomie, e al dilemma del criterio, cominciò a crescere verso la fine del '700 con Kant, in un modo che divenne dirompente all'inizio dell'800, specialmente con la filosofia hegeliana, per cui questi problemi sono centrali. Sfortunatamente, Kant ed Hegel hanno inseguito tali questioni in un modo, e con un linguaggio, che spesso è stato trovato difficile, se non impossibile, da intendere. In parte questo è avvenuto perché gli interpreti di Kant e di Hegel, sia che fossero dei seguaci che degli avversari, credevano fermamente in quelle dicotomie tipicamente illuministe e nelle Ideés fixes che gli stessi Kant ed Hegel avevano criticato. Certamente gli espositori che seguivano la lettera del testo hegeliano hanno avuto molta responsabilità, perché era tipico che essi riprendessero le cose enigmatiche ma apparentemente eccitanti che Hegel diceva alla fine di una qualche sua opera maggiore, senza seguire le indicazioni stesse dell'autore, per cui quelle affermazioni potevano essere comprese solo sulla base della loro derivazione e giustificazione attraverso l'intero percorso del libro in questione. La situazione era matura per generare confusione e ogni serie di fraintendimenti, e sfortunatamente questo è proprio ciò che è accaduto. Diventa così del tutto comprensibile che verso l'inizio del XX secolo Moore e Russell trovassero la filosofia analitica a partire dalla loro rivolta contro ciò che essi ritenevano gli eccessi dell'idealismo tedesco. Nel 1922, Russell dichiarava: "Prenderei "tornare indietro al XVIII secolo" come un grido di battaglia, se potessi nutrire qualche speranza che altri verrebbero chiamati a raccolta" (6) L'esortazione di Russell fu inaspettatamente efficace. I filosofi analitici ritornarono in massa al XVIII secolo, essenzialmente ai principi dell'Illuminismo e specialmente di Hume, in parte perché pensavano che avrebbero potuto evitare le trappole in cui erano caduti i loro predecessori usando i nuovi metodi, che avevano trovato, di analisi logica e linguistica. Da allora, la filosofia del XIX secolo, in modo particolare per quanto riguarda l'idealismo tedesco, è stata ufficialmente proscritta dalla filosofia analitica anglo-americana e lasciata come una terra incognita. Molta della filosofia analitica è stata innovativa ed utile quanto allo sviluppo di vari metodi logici e linguistici di analisi - che sono di cruciale importanza - ma anche stranamente anacronistica. In effetti, le ultimi decadi hanno testimoniato il riemergere di quei problemi sollevati dalle dicotomie illuministe discusse prima: da qui l'attuale rilevanza della filosofia di Hegel. Il dilemma del criterio ha avuto una carriera impressionante nella filosofia analitica. E' stato incluso in una antologia classica sulla teoria della conoscenza pubblicata nel 1965, e poi è stato lasciato cadere fino a pochi anni fa (1995) quando ancora una volta è stato incluso in una antologia simile (7). Roderick Chisholm, un epistemologo molto noto, ha scritto che il dilemma è il più difficile dei problemi filosofici. E' stato uno della scarsa dozzina di epistemologi analitici a dire qualcosa direttamente su questo problema. E' da osservare che nei loro tentativi di chiarificare il dilemma, gli epistemologi analitici hanno riformulato il dilemma in termini più riconducibili alle soluzioni che proponevano - e così facendo hanno distorto e diluito il dilemma di Sesto (8). Riassumendo, avendo in sospetto le costruzioni sistematiche e le grandi metafisiche, specialmente quelle che trattano ogni cosa come manifestazione dello spirito del mondo, confidando nelle loro assunzioni essenzialmente illuministe e non volendone sapere del dilemma del criterio, i filosofi analitici sono stati incapaci di apprezzare, e perfino di riconoscere, la teoria hegeliana della conoscenza. Gli espositori di Hegel hanno fallito nel compito di rimediare a questa situazione, in parte perché spesso condividevano gli stessi assunti illuministi, sebbene ad essi piacesse la grande metafisica dello spirito del mondo. Nel XX secolo gli studiosi di Hegel si sono spesso rifugiati nella grande metafisica per evitare l'attacco della teoria analitica della conoscenza. Il disinteresse per la teoria della conoscenza ha portato gli espositori di Hegel a non tener conto di una profonda e cruciale dimensione della sua filosofia. Circa alla metà degli anni '60, Peter Strawson dichiarava: "circa duecento anni dopo che [le idee fondamentali di Kant] sono state formulate, non sono ancora state pienamente assorbite nella coscienza filosofica" (9). La mia personale ricerca sulla filosofia kantiana ha riconfermato il giudizio di Strawson. Di recente, ho avuto l'opportunità di apprendere direttamente da lui che anch'egli è ancora della stessa opinione. E se in effetti la "coscienza filosofica" - espressione con cui Strawson intende riferirsi alla coscienza filosofica dei filosofi analitici - deve ancora assorbire il pensiero di Kant, è ancora più difficile che sia preparata ad assorbire Hegel, dato che quest'ultimo ha sviluppato la sua filosofia attraverso una profonda critica interna di quella kantiana. Un tratto sorprendente della filosofia hegeliana, e specialmente della sua spiegazione della ragione, è che essa è stata sviluppata per difendere e ri-legittimare alcuni ideali illuministici fondamentali della ragione, a fronte dell'attacco relativista dello storicismo di Herder. Sfortunatamente, il rifiuto hegeliano dell'individualismo illuminista venne interpretato dagli espositori, e similmente dai critici, nei termini delle fallaci dicotomie illuministe discusse prima. Hegel, il primo profondo critico del relativismo storicista, è stato così compreso erroneamente da dei leali oppositori di quello stesso approccio, precisamente a causa del tipo di relativista storicista che Hegel criticava! Hegel ripropone il dilemma del criterio di Sesto giusto a metà dell'Introduzione al primo dei suoi lavori più importanti: la Fenomenologia dello spirito (1807). In quel luogo sviluppa una soluzione estremamente sofisticata del dilemma, e nel corpo del testo critica esattamente la dicotomie illuministe che ho messo in risalto prima. Ciò che ho chiamato "collettivismo moderato" è per l'appunto una innovazione di Hegel, il quale è stato in effetti il primo filosofo a riconoscere che ragione e tradizione sono risorse intellettuali reciprocamente interdipendenti. Egli è stato anche il primo a realizzare che il realismo è coerente con una assennata spiegazione sociale e storica della conoscenza umana; e infine il primo a sviluppare una teoria completa della ragione e della giustificazione razionale che fornisse una potente alternativa al modello assiomatico-deduttivo. Dati i limiti della mia relazione, non posso, come vorrei, entrare qui nei dettagli, ma mi permetto di rimandare chiunque sia interessato ad approfondire questi temi ai lavori che ho pubblicato (10). Vorrei invece mettere brevemente in evidenza due punti che mi permettono di riannodare questi problemi specifici al più ampio tema della razionalità e del relativismo con cui ho iniziato. Primo: Hegel aveva riconosciuto che rispondere efficacemente al dilemma del criterio di Sesto richiedeva lo sviluppo di spiegazioni congiunte dell'autocritica costruttiva e della critica reciproca, fornendo queste spiegazioni nella Fenomenologia. Colpisce che solo un ristretto numero di epistemologi analitici abbia preso in considerazione l'importanza dell'autocritica, sebbene nessuno ne abbia fornito la ragione, ed abbia legato questo problema al dilemma di Sesto. Parte della spiegazione hegeliana della razionalità in termini di autocritica e di critica reciproca costruttive, può essere formulata considerando la ragione in termini di ciò che ho cominciato a chiamare "giudizio maturo". Il giudizio maturo implica le abilità: 1. di discernere e definire i parametri di base di un problema; 2. di distinguere, tra le considerazioni in rapporto a un problema, quelle rilevanti da quelle irrilevanti, e quelle più rilevanti da quelle meno; 3. di riconoscere e di formulare domande e sotto-domande cui si deve dare una risposta per risolvere un problema; 4. di stabilire appropriate linee di indagine per rispondere a queste domande; 5. di identificare i fattori storici o sociali che conducono le persone a formulare domande o risposte in modi particolari; 6. di pensare criticamente la formulazione o riformulazione dei punti in discussione; 7. di considerare accuratamente le prove o gli argomenti a sostegno o contro le soluzioni proposte; 8. di accordare tra loro nel miglior modo possibile le considerazioni rivali relative a un problema e risolverlo attraverso queste riflessioni e ricerche; e in ultimo, 9. di organizzare e presentare queste considerazioni in modo chiaro e comprensivo a tutti i partiti interessati. Queste qualità di giudizio sono virtù intellettuali cardinali. Sono fondamentali per le arti e le lettere, sono cruciali per la filosofia, e sono molto importanti in ogni indagine razionale in ciascuna delle molte attività della vita, siano esse professionali, commerciali, politiche o personali. Qualcosa dell'importante significato del giudizio maturo può essere riconosciuto se noi lo poniamo in relazione con il dilemma del criterio e con la domanda sollevata prima circa lo status delle premesse prime entro una spiegazione assiomatico-deduttiva della giustificazione. Ogni spiegazione deduttivistica della giustificazione inevitabilmente si trova ad affrontare il dilemma di Sesto, e non fornisce alcuna risorsa per risolverlo, semplicemente perché considera la giustificazione soltanto in termini di deduzione da qualche premessa 'prima' (o principio) più alta e più comprensiva; così, non ha in realtà niente da offrire rispetto alla giustificazione delle premesse prime: infatti, o regredisce all'infinito, o è dogmatica, o cade nella petitio principii, o nel circolo vizioso, vale a dire incorre esattamente nel fato predetto da Sesto. Non è troppo azzardato sostenere che i tipi di relativismo avanzati da Kuhn, Paul Feyerabend, Nelsdon Goodman, Richard Rorty, sociologi della conoscenza anti-realisti, e dal positivista logico dei positivisti logici, Rudolph Carnap, si siano tutti direttamente originati dalle inadeguatezze della spiegazione assiomatico-deduttiva della giustificazione, che è stata centrale per la filosofia analitica della scienza (11). Tuttavia, se la razionalità è concepita in termini di autocritica e di critica reciproca razionali, in cui il ragionamento deduttivo ha un ruolo fondamentale, sebbene non esclusivo, da giocare, allora si apre la porta allo sviluppo di una spiegazione pragmatica della giustificazione razionale. Hegel si situa dunque alle origini del pragmatismo, e le lezioni che qui ho ripetuto erano state ben apprese da Peirce, Dewey, e James, per quanto essi abbiano reso difficile ai lettori vedere questi aspetti importanti. Come punto di partenza, permettetemi di prendere a prestito da Wilfrid Sellars una caratterizzazione del pragmatismo come scelta alternativa distinta dalle due comuni spiegazioni della giustificazione: il fondazionalismo e il coerentismo. All'interno della teoria della giustificazione, il "fondazionalismo" ritiene che certe piccole parti individuali di conoscenza (bits) siano di base, e siano giustificate indipendentemente da qualsiasi altro bit di base, mentre tutta l'altra conoscenza è giustificata derivandola da bits di base. In contrasto, il "coerentismo" ritiene che non c'è una simile distinzione tra conoscenza di base e derivata, e che ogni bit di conoscenza è giustificato solo dai modi in cui, e nella misura in cui, è coerente con il resto della nostra conoscenza. Il fondazionalismo aderisce al modello assiomatico-deduttivo di giustificazione; il coerentismo, no. Tuttavia, il coerentismo (inclusa la sua recente variante di successo, "l'equilibrio riflessivo") non è in grado di spiegare i miglioramenti nella veridicità dei sistemi di credenza. Il punto di vista coerentista comunemente accettato in definitiva si riduce a ciò che comprensibilmente Rorty bolla come "giusto un cavarsela in qualche modo". Sellars commenta: "Soprattutto, il quadro [fondamentalista] è fuorviante a causa del suo carattere statico. Uno sembra forzato a scegliere tra l'immagine [fondamentalista] di un elefante che poggia su una tortora (che cosa sorregge la tortora?) e quella [coerentista] di un grande serpente hegeliano della conoscenza con la coda in bocca (da dove comincia?). Nessuna delle due scelte funziona. Poiché la conoscenza empirica (come la sua estensione sofisticata, la scienza) è razionale, non perché abbia un fondamento, ma perché è un'impresa che si autocorregge, che può mettere in gioco qualsiasi affermazione, ma non tutte insieme" (12). Chiaramente, Hegel non era un fondazionalista, e malgrado una diffusa opinIone contraria, Hegel non era neppure un coerentista in nessun comune (e insostenibile) accezione del termine. Hegel e i suoi successori pragmatisti sono tutti fallibilisti; essi riconoscono che la conoscenza umana è correggibile, sebbene riconoscano che questa non è una maledizione, ma all'opposto una benedizione. E' una benedizione perché qualsiasi cosa possiamo prendere come premesse prime, sia nella conoscenza empirica che nella guida dell'azione, essa è giustificata solo nella misura in cui queste premesse o principi sono superiori, in modo dimostrabile, alle loro alternative, o storiche o contemporanee; sono adeguate ai domini loro designati, e continuano a svolgere i loro ruoli in modo adeguato di fronte a occasioni rinnovate del loro uso, spesso in circostanze mutate. Attraverso l'esame attento del loro funzionamento in circostanze nuove ed in vista di tutte le alternative conosciute, possiamo stabilire la loro validità, e possiamo determinare in quale rispetto i nostri principi, persino quelli primi, richiedano raffinamento, estensione, revisione o perfino sostituzione. Principi operanti contro pratiche, principi attivi contro i fatti che incontriamo, e viceversa, appariranno a molti filosofi qualcosa di del tutto inefficace o di viziosamente circolare. E' un peccato che questi aspetti fondamentali siano stati così ampiamente trascurati dai filosofi, perfino ai nostri giorni. Hegel e i pragmatisti hanno sviluppato una spiegazione molto sofisticata del significato dei termini in uso, ben prima che Wittgenstein mettesse in circolazione l'espressione. Precisamente perché la legittimità e proprio il significato delle supposte "premesse prime" giace nel loro uso, esse non sono delle statiche Ideés fixes. Sono invece aperte a valutazione critica e revisione quando sono monitorate nel loro uso effettivo. Solo attraverso il monitoraggio del loro uso - vale a dire, il monitoraggio del nostro proprio impiego di esse - possiamo stabilire in modo critico le nostre "premesse prime". Questo è un elemento essenziale dell'autocritica costruttiva. Anche questo richiede il giudizio maturo. Un'attenta analisi testuale rivela che Hegel analizza la nostra coscienza di un oggetto secondo sei aspetti principali. Intanto, distingue l'oggetto stesso dal nostro concetto di esso, ed analogamente, distingue tra noi stessi come effettivi soggetti cognitivi realmente impegnati a conoscere, ed il concetto che abbiamo di noi stessi come soggetti cognitivi impegnati. Ma ciò che è ancora più importante è che Hegel analizza la nostra esperienza di un oggetto e similmente l'esperienza che abbiamo di noi stessi come soggetti cognitivi, in quanto risultante dal nostro uso di quei concetti nel tentativo di conoscerne gli "oggetti". Vale a dire, nell'ottica hegeliana, la nostra esperienza dell'oggetto risulta dall' uso che facciamo del concetto dell'oggetto nel tentativo di conoscere l'oggetto stesso. Similmente, l'esperienza che abbiamo di noi stessi come soggetti conoscenti risulta dall'uso che facciamo del concetto cognitivo che abbiamo di noi stessi nel tentativo di conoscerci nella nostra attività cognitiva. Vi prego di osservare la tavola degli aspetti distinti da Hegel:
In questo modo, la nostra esperienza dell'oggetto (B) è strutturata attraverso il nostro concetto dell'oggetto (A) e attraverso l'oggetto stesso (C). Parimenti, l'esperienza che abbiamo di noi stessi (2) è strutturata attraverso il concetto cognitivo che abbiamo di noi stessi (1) e la nostra reale costituzione cognitiva ed effettivo impegno nel conoscere (3). L'analisi di Hegel implica direttamente che, per un verso, non abbiamo conoscenza empirica che sia libera da concetti, e allo stesso modo, che non abbiamo autoconoscenza libera da concetti. Per un altro verso, non siamo neppure intrappolati entro il nostro schema concettuale! Per dirla in modo positivo, la nostra esperienza dell'oggetto (B) può solo corrispondere all'oggetto stesso (C), se il nostro concetto dell'oggetto (A) corrisponde anche all'oggetto stesso (C). Parimenti, l'esperienza cognitiva che abbiamo di noi stessi (2) corrisponde alla nostra costituzione cognitiva reale e al nostro impegno effettivo nel conoscere (3), solo se il nostro autoconcetto cognitivo (1) corrisponde anche a questi ultimi (3). Per dirla in modo negativo e critico, per quanto il nostro concetto dell'oggetto (A) o similmente il concetto cognitivo che abbiamo di noi stessi (1) mancano di corrispondere ai 'loro' oggetti (C, 3), possiamo scoprire e correggere questa mancanza di corrispondenza, sebbene solo attraverso tentativi sorretti e mirati di comprendere i nostri "oggetti" (C, 3) attraverso l'uso dei nostri concetti (A, 1) nella nostra esperienza di quegli oggetti (B, 2). Questi tentativi ci possono informare sul se e sul come i nostri concetti (A, 1) possono e debbono essere rivisti per migliorare la loro corrispondenza con i loro "oggetti" (C, 3). Inoltre, il nostro concetto dell'oggetto (A) e il concetto cognitivo che abbiamo di noi stessi (1) devono corrispondersi l'un l'altro, nel senso che concepiamo l'oggetto (A) in modi che possono essere conosciuti secondo il nostro autoconcetto cognitivo(1), e quest'ultimo (1) è il concetto di soggetti cognitivi che possono conoscere tali oggetti secondo come sono concepiti (A). Questi concetti non devono semplicemente essere coerenti, ma devono sostenersi l'un l'altro. Parimenti, la nostra esperienza dell'oggetto (B) e la esperienza cognitiva che abbiamo di noi stessi (2) devono sostenersi reciprocamente. In ultimo, il nostro concetto dell'oggetto (A) deve essere tale da rendere intelligibile la nostra autoesperienza cognitiva (2), e il nostro autoconcetto cognitivo (1) deve rendere intelligibile la nostra esperienza dell'oggetto (B). Riassumendo, i quattro aspetti (A, B, 1, 2) devono corrispondersi e sostenersi reciprocamente, nel senso che si fondano o giustificano l'un l'altro. Tuttavia, questi aspetti possono operare così solo in quanto i nostri concetti (A) e (1) corrispondono ai loro oggetti (C) e (3). Al livello generale dell'esame critico di concetti chiave della conoscenza empirica umana, dove concetti (o modelli) diversi degli oggetti della conoscenza empirica richiedono concetti diversi (o modelli) di conoscenza empirica, questo complesso di corrispondenze è un criterio sufficiente della verità, e quindi anche la giustificazione, di un'epistemologia. Dobbiamo subito notare un punto importante. Il criterio hegeliano di giustificazione epistemica contiene immediatamente una spiegazione fallibilista della giustificazione filosofica. Per un verso, questo fallibilismo risulta dal fatto che, secondo Hegel, una teoria filosofica della conoscenza può essere giustificata solo attraverso tentativi mirati (non solo precedenti, ma anche correnti e futuri) di usare i suoi concetti principali in connessione con gli 'oggetti' di tali concetti, per rendere conto della conoscenza empirica umana. Il fallibilismo di Hegel risulta anche dalla circostanza, centrale per la sua spiegazione della "negazione determinata", che una epistemologia possa essere giustificata attraverso una critica completa, strettamente interna, di teorie della conoscenza alternative. Tuttavia, queste non costituiscono affatto una serie chiusa. A partire dal 1807 è stata sviluppata un'ampia serie di nuove teorie della conoscenze, insieme con nuove varianti di più antiche forme. Tutte queste teorie devono essere attentamente considerate per ristabilire, e per quanto possibile, preservare, migliorare, o se ci fosse bisogno, sminuire, la giustificazione di una epistemologia, di Hegel o di chiunque altro. Detto semplicemente, l'epistemologia hegeliana, e la sua connessa meta-epistemologia, ci richiede molto lavoro intensivo. Non c'è dubbio che sia anche per questa ragione che i filosofi abbiano cercato teorie della conoscenza più semplici e più lineari. Chiaramente, e specialmente dal punto di vista di Hegel, autocritica e critica reciproca costruttive richiedono un esercizio accurato e completo di giudizio maturo. Il giudizio maturo è cruciale per la giustificazione razionale, per la vita pubblica, e ancora di più in una comunità globale, dato che è cruciale per il discorso e il ragionamento pubblico. Il problema di cui Grozio ed altri del primo Illuminismo si sono resi conto, in rapporto agli scismi della religione cristiana, si estende direttamente al problema del pluralismo culturale. Fondamentalmente, culture diverse possono essere basate su differenze religiose inconciliabili o su altre forme di tradizione sociale. La globalizzazione del commercio e del discorso, a lungo sviluppata ed ancora in espansione, ci impone di trovare modi di convivenza reciprocamente accettabili e rispettosi, minimizzando la conflittualità a qualsiasi livello possiamo, e cercando mezzi pacifici di risolvere il conflitto quando sorge. Un punto importante riconosciuto da figure del primo Illuminismo, e da Kant ed Hegel, è che l'esercizio pubblico della ragione, del giudizio maturo, nel tentativo di risolvere i contrasti in modi mutuamente accettabili, è coerente con un uso "privato" della ragione che basa le conclusioni o le azioni di ciascuno su qualsiasi particolare prospettiva religiosa o tradizione culturale uno aderisca. Vi prego di osservare che il grande principio kantiano, che dovremmo rispettare ciascun essere umano come un libero agente razionale, è costruito proprio su una spiegazione pragmatica della giustificazione, che Kant stesso ha delineato per primo. Proprio a causa della nostra fallibilità, possiamo considerare giustificate le nostre proprie affermazioni e principi nella misura in cui resistono allo scrupoloso vaglio pubblico. Considerare gli altri come capaci di una valutazione critica delle proprie affermazioni e principi E' rispettarli come liberi agenti razionali (sebbene questo sia un aspetto centrale, non esaurisce naturalmente ciò che è richiesto per rispettare gli altri come liberi agenti razionali). Hegel ha riconosciuto l'importanza centrale di questa intuizione fondamentale di Kant, e l'ha sviluppata in modo molto più completo ed esplicito. Noi non possiamo ragionare in modo legittimo senza ragionare in modo autocritico, pubblico, multilaterale, senza cercare attivamente e rispondere seriamente alla valutazione critica di tutti gli altri che sono interessati o coinvolti dal punto o dal principio in discussione. Vorrei concludere con quest'ultima considerazione: le qualità di giudizio che ho messo in rilievo come appartenenti al giudizio maturo sono virtù intellettuali cardinali. Tuttavia, queste qualità non possono essere apprese "seguendo un corso" su di loro, come dice Wittgenstein. Esse sono il risultato indiretto di preparazione ed educazione su soggetti più specifici. Esse sono correlate a una comprensione sottile di un argomento, ma non sono riconducibili al padroneggiamento della componente fattuale dell'argomento compreso. (13) La razionalità, nella forma del giudizio maturo, può anche non fare tutto ciò che vogliamo o di cui abbiamo bisogno. Ma è ciò che di meglio abbiamo per contrastare la finitudine e la fallibilità umane, inclusa la conflittualità. Vorrei terminare suggerendo, nel modo più sincero e convinto di cui sono capace, che il giudizio maturo è la meta ultima dell'educazione più alta. La filosofia, a causa della sua mancanza di presupposti sostanzialmente rilevanti e metodologici, ha un obbligo speciale, sebbene niente affatto esclusivo, nell'aiutare a diffondere il giudizio maturo, per quanto possibile. Per dirla in modo semplice, questo E' Illuminismo. (Trad. di Cinzia Ferrini, Università di Trieste) Note (*) Presento qui
la traduzione italiana del testo di una conferenza tenuta il 26 marzo 2002
presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Trieste, con il titolo:
"Rationality and Relativism: Historical and Contemporary Significance of
Hegel's Reply to Sextus Empiricus" (la versione originale verrà pubblicata
negli Annali del Dipartimento). Desidero esprimere tutta la mia
gratitudine ai partecipanti alla discussione, particolarmente ricca e
stimolante; a Cinzia Ferrini, per aver organizzato l'incontro e reso più
agevole il dibattito con la traduzione simultanea, a Pierpaolo Marrone per
l'invito a pubblicare questo saggio in Etica
& Politica. back (1) Cfr. Jerry Schneewind, The Invention of Autonomy, Cambridge, Cambridge University Press, 1998. back (2) Per una discussione approfondita e dettagliata di questi tre punti, rimando alla mia introduzione a Frederick L. Will, Pragmatism and Realism, Lanham, Md., Rowman & Littlefield, 1997, pp. xiii—lxi. back (3) Si vedano i
contributi di W. P. Alston, P. Kitcher e H. Longino in Frederick Schmitt (a
cura di), Socializing Epistemology,
Lanham, Md., Rowman & Littlefield, 1994; cfr. anche: Miriam Solomon,
"Social Empiricism", Nous
28 (1994) 3, pp. 325–43; il capitolo 6 di Susan Haack, Manifesto of a Passionate Moderate, Chicago, University of Chicago
Press, 1998; J. McDowell, Mind and World,
Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1994. back (4) Cfr. A. Bierce, The Devil's Dictionary, New York, Dover, 1958, p. 123. back (5) Ho utilizzato
la traduzione italiana (ancora inedita) di Emidio Spinelli, che qui ringrazio
per la cortese anticipazione. Nel
testo originale, viene utilizzata la traduzione inglese di R. G. Bury (Sextus
Empiricus, Outlines of Pyrrhonism Works, 4 voll., Cambridge, Harvard
University Press, 1933): "In order to decide the dispute which has arisen
about the criterion [of truth], we must possess an accepted criterion by which
we shall be able to judge the dispute; and in order to possess an accepted
criterion, the dispute about the criterion must first be decided. And when the
argument thus reduces itself to a form of circular reasoning the discovery of
the criterion becomes impracticable, since we do not allow [those who make
knowledge claims] to adopt a criterion by assumption, while if they offer to
judge the criterion by a criterion we force them to a regress ad infinitum. And furthermore, since
demonstration requires a demonstrated criterion, while the criterion requires
an approved demonstration, they are forced into circular reasoning". Cfr.
anche PH II, 14. 116-117. back (6) Cfr. The
Collected Papers of Bertrand Russell (a cura di J. Passmore), London,
Routledge, 1994, vol. 9, p. 39: "I should take to the 18th
century as a battle-cry, if I could entertain any hope that others would rally
to it". back (7) Cfr. E. Nagel & R. Brandt (a cura di), Meaning & Knowledge: Systematic Readings
in Epistemology, New York:
Harcourt, Brace & World, 1965, p. 381; P. Moser & A. van der Natt (a
cura di), Human Knowledge: Classical
& Contemporary Approaches, New York, Oxford University Press, 2nd
ed. 1995, pp. 87–88. back (8) Mi sono occupato in particolare di questo
aspetto in: Hegel's Epistemological
Realism: A Study of the Aim and Method of Hegel's Phenomenology of Spirit,
Dordrecht & Boston, Kluwer, 1989; "Hegel's Solution to the Dilemma of
the Criterion", versione rivista in: J. Stewart (a cura di), The Phenomenology of Spirit Reader: A
Collection of Critical and Interpretive Essays, Albany, State University of
New York Press, pp. 76–91. back (9) P. Strawson, The Bounds of Sense, 1966, p. 29: "nearly two hundred years after they were made, [Kant's key insights] have still not been fully absorbed into the philosophical consciousness". Le intuizioni centrali sottolineate da Strawson riguardano la nostra abilità nel distinguere fra l'ordine oggettivo degli eventi e l'ordine soggettivo della nostra esperienza di essi. Inoltre, che questa distinzione è implicita nei concetti sotto cui sono condotti i contenuti dell'esperienza. back (10) Mi riferisco in particolare al mio "Hegel's Solution", cit.; e ai seguenti lavori in corso di pubblicazione: "Hegel's Manifold Response to Scepticism in the Phenomenology of Spirit," Procedings of the Aristotelian Society 103 (2003), e Hegel's Epistemology: An Introduction to his Phenomenology of Spirit, Cambridge, Mass., Hackett Publishing Co., 2003. back (11) Si veda supra la nota 9. back (12) W. Sellars, "Empiricism and the Philosophy
of Mind", in id., Science,
Perception and Reality, London, Routledge & Kegan Paul, 1963, p. 170:
"Above all, the
[foundationalist] picture is misleading because of its static character. One
seems forced to choose between the [foundationalist] picture of an elephant
which rests on a tortoise (What supports the tortoise?) and the [coherentist]
picture of a great Hegelian serpent of knowledge with its tail in its mouth
(Where does it begin?). Neither will do. For empirical knowledge, like its
sophisticated extension, science, is rational, not because it has a foundation
but because it is a self-correcting enterprise which can put any claim in
jeopardy, though not all at
once" back (13) Per una discussione più
approfondita di questi temi, rimando al mio "Integrating Philosophies of
Mind and of Education: Comments on Cunningham" Philosophy of Education 1999 (Urbana, Ill., Philosophy of Education
Society, 2000), pp. 147–52. back |