Un
maquillage molto leggero: considerazioni sulla riformulazione della giustizia
come equità di John Rawls. Dipartimento di Filosofia, Università di Torino «Questo libro ebbe origine come
lezioni per un corso di filosofia politica che Rawls tenne regolarmente ad
Harvard negli Anni Ottanta. Con il tempo le lezioni divennero una
riformulazione della sua teoria della giustizia come equità, rivisitata alla
luce dei suoi saggi più recenti e del suo trattato Liberalismo Politico.
… [Rawls] offre una larga panoramica delle sue principali linee di pensiero ed
esplora anche temi specifici mai affrontati prima in alcuno dei suoi scritti».
Così viene presentato il volume di
John Rawls, Justice as Fairness: A
Restatement (Cambridge Mass.: Harvard University Press, 2001) Il filo conduttore di queste lezioni è il tentativo di riesporre la ben nota teoria della giustizia come equità, mostrando in che modo le novità e correzioni introdotte a partire dagli anni Settanta si inseriscano nell’architettura generale della teoria. Come è noto, la proposta teorica di Rawls nasce nei secondi anni Cinquanta, viene sviluppata in una serie di saggi negli anni Sessanta e trova la sua formulazione canonica in Una teoria della giustizia del 1971. Da allora l’A. non ha mai smesso di lavorare alla sua teoria nel tentativo di rispondere alla nutrita serie di sfide lanciate alla sua proposta. Non è qui il caso di ricordare per l’ennesima volta la vicenda del successo del libro di Rawls e delle varie teorie che gli sono state contrapposte. Il filosofo di Baltimora ha dedicato la sua intera vita professionale dapprima a sviluppare e poi a ritoccare e perfezionare la sua teoria della giustizia. Questa dedizione così assoluta al proprio progetto intellettuale ha qualcosa di impressionante. Se da un lato ispirano rispetto la serietà e costanza con cui quest’uomo ha lavorato alla sua impresa, d’altro canto viene da chiedersi se non vi sia qualcosa di ossessivo e maniacale nel non distogliere mai lo sguardo dalla tela che si sta tessendo. Rawls sembra essere stato preso nella propria ragnatela, condannato a non abbandonarla mai. Questo spiega perché i suoi lettori tendano a dividersi in modo netto tra ammiratori disposti a seguirlo con dedizione nel lavoro di cesello, e lettori insofferenti che non ne condividono l’impostazione, e che non sopportano la ripetitiva autoreferenzialità del Nostro. Senza tentare alcuna improbabile conciliazione tra atteggiamenti opposti, spero di riuscire a mostrare l’utilità di comprendere le ragioni di entrambi. Quest’opera aiuta a chiarire l’ambito, lo scopo e i presupposti della teoria di Rawls, nella forma che essa ha assunto alla fine degli anni Ottanta, ma tracciarne un quadro d’insieme è tanto necessario quanto difficile. È necessario poiché l’A. sostiene una concezione olistica della giustificazione di una teoria, la quale deve potersi presentare come l’alternativa complessivamente migliore tra quelle realistiche e disponibili. Una teoria perciò va valutata per le sue qualità e “prestazioni” globali, poiché deve servire da concezione fondamentale (e pubblica) dei principî che regolano la convivenza politica e la cooperazione sociale (“la struttura di base della società”); essa non può quindi essere uno strumento da usare quando offre risposte convincenti e da accantonare nei casi in cui teorie alternative sembrano più perspicue e persuasive. D’altro canto qualunque presentazione schematica implica omissioni e ripetizioni, a causa del carattere altamente strutturato e stratificato della costruzione rawlsiana. Non è facile dipanare la fitta matassa di rimandi, precisazioni, ripetizioni e variazioni; anche perché la coerenza interna della teoria è molto importante e l’A. insiste, in modo quasi ossessivo, nel mostrare tutti i modi in cui le sue diverse idee, ipotesi e assunzioni si sostengano e presuppongano reciprocamente. Tuttavia, dato che l’A. stesso annette grande importanza alla chiarezza, applicabilità e comprensibilità di una concezione pubblica della giustizia, una tale schematizzazione è tutt’altro che inutile. I presupposti dai quali la teoria prende le mosse possono, con una certa approssimazione, essere divisi in tre gruppi di assunzioni: a) quelle fattuali; b) quelle sui fini; e c) quelle normative. Una tale suddivisione va però utilizzata con notevole elasticità, poiché spesso una stessa idea presenta diverse dimensioni. Vi sono innanzitutto alcune assunzioni fattuali riguardo alle condizioni storiche e sociali delle moderne società democratiche. L’A. ne enumera cinque: 1) la presenza permanente del pluralismo; 2) l’esistenza di un unico mezzo per sopprimere il pluralismo: l’uso oppressivo del potere; 3) la necessità che un regime democratico durevole poggi su un consenso maggioritario presso la cittadinanza; 4) la presenza nella cultura politica di un regime democratico di idee e valori sufficienti a elaborare una concezione della giustizia; 5) l’esistenza di fattori (chiamati “oneri del giudizio”) che rendono improbabile il consenso di cittadini ragionevoli su molte questioni fondamentali. Vi sono poi le ben note assunzioni riguardanti le condizioni in cui si pongono problemi di giustizia, e che possono essere così sintetizzate: i principî di giustizia possono essere applicati solo in quelle situazioni di scarsità moderata in cui la cooperazione è possibile e fruttuosa. Detto altrimenti laddove vigono abbondanza illimitata, scarsezza estrema o dove la cooperazione è un gioco a somma zero, non si dà, a rigore, giustizia. Vi sono poi alcune assunzioni che l’A. qualifica come “sociologia di senso comune”, un’etichetta imbarazzante sotto cui si cela l’ipotesi secondo cui istituzioni e principî che danno buona prova di sé tendono a guadagnarsi la fedeltà dei cittadini e a suscitare fiducia, spirito cooperativo e rispetto reciproco nella cittadinanza. Bollare certe assunzioni come senso comune sembra una sorta di salvacondotto che esime dall’esibire qualunque evidenza empirica; così facendo ci si appella più al temperamento del lettore che all’osservazione dei fatti. Infine vi sono le assunzioni riguardanti la psicologia morale dei cittadini. In questo caso è molto difficile separare in modo chiaro quanto vi è di descrittivo e quanto di normativo nella psicologia morale di Rawls e nella sua concezione di cittadino. A questo proposito comunque l’A. ha offerto in opere precedenti (1) un sostegno empirico abbastanza articolato (e anche convincente) alle sue ipotesi, ma sarebbe opportuno affrontare anche le considerazioni che evidenziano le difficoltà che esse devono affrontare. Egli riesce a mostrare in modo persuasivo che in determinate circostanze gli esseri umani siano in grado di sviluppare disposizioni e sentimenti morali capaci di guidare in modo generalmente efficace la loro condotta. Trascura però di analizzare il peso che possono avere disposizioni e passioni meno civilizzate nel condizionare il comportamento politico degli individui. Rawls ha ragione a voler indagare le condizioni che rendono possibile il sorgere e il consolidarsi del senso morale, ma dovrebbe anche chiedersi quali tensioni e conflitti genereranno quelle stesse condizioni sociali. Egli afferma spesso di voler illustrare un caso ideale, un caso in cui, per così dire, tutto è filato liscio, tutto è andato bene. Ma così facendo dà l’impressione di descrivere un mondo sociale e psicologico pacificato e sereno, un mondo che appare ingenuamente utopistico, in cui invidia, opportunismo e brama di potere, benché non scomparsi, sono sempre contenuti dall’efficacia del senso di giustizia. Il secondo gruppo di assunzioni riguardano le finalità della filosofia politica e di una concezione pubblica della giustizia. L’A. individua innanzitutto quattro funzioni fondamentali della filosofia politica: 1) il ruolo pratico che consiste nel cercare un consenso sotteso alle divisioni che pervadono la società; 2) il ruolo orientativo di spiegare e illustrare il significato della cittadinanza (status, diritti e obblighi, relazioni tra cittadini e tra questi e le istituzioni); 3) il ruolo riconciliatore che richiede di comprendere la storia e il significato delle istituzioni, ossia la loro “razionalità”, intesa almeno come intelligibilità; 4) il ruolo di realistica utopia, in base al quale essa deve esaminare, e ampliare, i limiti delle concrete possibilità politiche. Quella che emerge è pertanto una concezione pratica o pragmatica della filosofia politica in contrapposizione a una concezione cognitivo-epistemologica della stessa. Detto più semplicemente, ciò che si ricerca non è una teoria vera e fondata, ma una dottrina praticabile e in grado di far fronte a quelli che appaiono i problemi più pressanti. Questo modo di concepire la teoria politica da un lato la àncora alla situazione storica e ai problemi e alle risorse che essa offre, dall’altro implica che si riescano a individuare e fronteggiare davvero i problemi più urgenti. Ma il problema che Rawls trascura è proprio il rapporto che esiste tra l’apparato concettuale adottato da una teoria e il genere di problemi che essa mette a fuoco. Se l’agenda fissata dalla teoria non corrisponde alle priorità e alle esigenze del momento storico, allora l’impresa teorica si condanna alla futilità, o peggio, all’ideologia. Un sospetto molto forte che investe il progetto rawlsiano è proprio la sua attualità, poiché sembra che alcune delle sue assunzioni di partenza, unitamente al carattere di teoria ideale, non le permettano di affrontare diverse questioni che sembrano diventate molto urgenti. Basti qui accennare a problemi come il ruolo e l’autorità degli stati nazionali, la crisi ecologica planetaria, la ridefinizione di concetti come vita, persona e famiglia, la crescente interdipendenza economica internazionale, l’incapacità di controllare i movimenti dei capitali, il ruolo di attori sociali quali le imprese multinazionali e le organizzazioni non governative, i costi crescenti dei diritti, il controllo demografico e dei flussi migratori, il problema del terrorismo. Questi sono solo alcuni esempi di temi sui quali la riflessione di Rawls non sembra avere granché da offrire. Non voglio sostenere che essa non dica nulla di rilevante in proposito, di fatto, nella sua opera spunti e riflessioni interessanti su alcuni di questi temi si trovano, ma essi non sono il nucleo attorno al quale la sua costruzione è edificata. Il terzo e ultimo gruppo di assunzioni comprende quelle normative. Si è già accennato alla difficoltà di separare queste ultime da quelle fattuali e ideali, poiché sia la concezione del cittadino sia quella di società, sia, ancora, l’idea di ragionevolezza, comprendono in sé elementi descrittivi, ideali e normativi. In ogni caso le tre assunzioni normative fondamentali su cui viene edificata la teoria sono la concezione del cittadino, quella di società bene-ordinata e quella di ragionevolezza. Il cittadino è concepito come persona morale libera ed eguale, capace di avere senso di giustizia - cioè di conformarsi alle norme giuste in una situazione di reciprocità garantita - e di sviluppare e perseguire una propria concezione del bene. Detto altrimenti, il cittadino della società bene-ordinata è un individuo capace di perseguire i suoi fini individuali nel rispetto dei vincoli di giustizia che garantiscono a tutti un’eguale libertà ed eque opportunità. La società bene-ordinata a sua volta è descritta come un equo sistema di cooperazione stabile nel tempo; ovvero come un’intelaiatura istituzionale che garantisce che permangano le condizioni di una cooperazione basata su eguaglianza, rispetto e reciprocità. La ragionevolezza è una concezione che va compresa in rapporto alla razionalità. Mentre quest’ultima richiede solo di pensare in modo non contraddittorio ed efficiente, la ragionevolezza combina una componente cognitiva e una morale. Sul piano cognitivo la ragionevolezza esige che si riconoscano le evidenze di dominio comune e che si ammettano la legittimità del dissenso - dovuta ai limiti delle nostre capacità di osservazione, valutazione e inferenza. Sul piano normativo invece la ragionevolezza richiede la disponibilità a riconoscere l’eguale dignità degli altri e a cooperare su basi di reciprocità, ma esige anche la capacità di tenere fede ai propri impegni, a rispettare gli obblighi assunti in situazioni di equa eguaglianza. Possiamo chiarire l’ampio campo semantico coperto dal concetto di ragionevolezza per contrasto. Per Rawls è irragionevole sia chi rifiuta i dati osservativi evidenti sia chi non accetta le forme di inferenza comunemente riconosciute, sia chi rifiuta di dare ascolto a chi dissente, sia chi vuole imporre le proprie credenze. Parimenti è irragionevole tanto chi si ostina a pretendere vantaggi arbitrari, quanto chi agisce in cattiva fede accettando degli accordi che è pronto a denunciare non appena si trovi nella posizione di farlo. Il problema della concezione del ragionevole è che nella sua componente normativa esso include sia una serie di regole formali da imporre al ragionamento pratico, sia un appello alla capacità di dominio di sé dell’agente. Il ragionevole richiede sia una capacità teoretica - ragionare nel rispetto di regole di imparzialità e uguaglianza - sia una certa forza di volontà - la capacità di rendere effettiva l’adesione a certe norme e accordi. Ciò che è meno convincente nella concezione del ragionevole è proprio questo secondo aspetto, il suo postulare l’efficacia motivazionale dominante dell’adesione ai principî accettati. In questo modo Rawls sembra eliminare ciò che John Searle ha definito il “gap”, l’elemento di indeterminatezza che persiste tra la deliberazione razionale e il comportamento effettivo (2). In questo spazio vivono alcuni familiari fenomeni umani quali l’irrazionalità, la debolezza del volere, l’indecisione, la paura, le pressioni ambientali per non citarne che alcuni. Un principio normativo può legittimamente imporre dei vincoli al nostro ragionamento e alla nostra condotta, ma non può postulare la nostra inflessibilità nel restarvi concretamente fedeli. Ogni principio normativo non può non tenere conto della sua possibile inefficacia. I principî normativi si distinguono dalle leggi di natura proprio per il fatto che lo spazio logico della loro esistenza è l’ambito della non necessità, della libertà. È vero che l’A. si preoccupa di selezionare i principî tenendo conto del fatto che essi non devono risultare eccessivamente gravosi (un’importante argomento a favore dei due principî di giustizia si basa sulla convinzione che essi impongano delle richieste - “oneri dell’impegno” - meno gravose rispetto alle concezioni concorrenti), ma non c’è modo di stipulare per via speculativa l’efficacia di un principio morale. Purtroppo il realismo in politica impone di affrontare non solo il problema del dissenso e del conflitto (cosa che Rawls fa), ma anche il problema dell’irrazionalità, dell’irragionevolezza, della debolezza e del male in generale. Ai concetti di persona, società e ragionevole possono essere agevolmente ricondotti tutti gli altri concetti normativi adottati da Rawls. Così l’idea di eguaglianza è riconducibile alla concezione di persona, in quanto un eguale status è riconosciuto a tutti coloro i quali hanno la potenzialità di sviluppare le due capacità morali fondamentali: perseguire la giustizia e il bene. In modo simile i valori dell’eguale rispetto e della reciprocità possono essere dedotti dalle concezioni di cittadino e di società. Anche concetti normativi più specifici, come la concezione di legittimità - «il potere politico è legittimo solo quando è esercitato in conformità con una costituzione (…) gli elementi essenziali della quale i cittadini, in quanto ragionevoli e razionali, possano accogliere alla luce della loro comune ragione umana» (p. 41) - , possono essere chiaramente ricondotti ai tre concetti basilari sopra ricordati. È infatti facile vedere che tale concezione rispecchia la simmetria richiesta dall’eguaglianza e ragionevolezza dei cittadini, e dal carattere cooperativo della società. Chiariti i presupposti dell’A., risulta facile comprendere le finalità e l’ambito della sua teoria. Rawls vuole individuare dei principî di giustizia che rendano possibile una cooperazione sociale stabile e giusta nel contesto di società caratterizzate da un irriducibile pluralismo di valori e credenze. L’esistenza di un tale consenso su dei principî socialmente riconosciuti rende possibile l’instaurarsi di un clima di cooperazione e di fiducia, il quale, a sua volta, costituisce il presupposto migliore affinché vengano accettati e interiorizzati i valori e i principî fondamentali per rendere possibile un’armonica convivenza tra fini individuali e collettivi, o, se si preferisce, tra beni privati e beni pubblici, tra bene e giusto. L’A. ritiene che se si riuscissero a realizzare delle istituzioni giuste in circostanze favorevoli, allora gli individui correttamente socializzati in un tale contesto avrebbero la possibilità di trovare un’armonia tra aspirazioni individuali e obblighi sociali. Ciò significa che ciascuno non vedrebbe più un conflitto tra le sue aspirazioni e le richieste della società, ma si renderebbe conto che la partecipazione a una società politica bene-ordinata è per lui un bene di grande valore, anche se non necessariamente un bene che pretende un ruolo preminente - è cioè un bene che può essere realizzato anche senza dedicare particolare interesse ed energie alla vita politica, ma semplicemente rispettando i propri doveri verso i concittadini e le istituzioni-, oltre che il mezzo più sicuro per garantire la persistenza di condizioni sufficientemente stabili, libere e armoniche, ossia di un ambiente sociale ragionevolmente favorevole al perseguimento dei propri fini individuali. In breve l’A. vuole mostrare che per gli uomini una vita giusta è possibile, purché si riescano a edificare istituzioni sociali giuste. Questo è concepibile poiché a livello psicologicosi possono integrare in modo armonioso aspirazioni individuali ragionevoli e norme sociali giuste. Vivere in una società bene-ordinata non solo consente di godere di uno spazio di libertà e di una quota di beni sufficiente per perseguire i propri fini individuali permissibili (cioè rispettosi di diritti e dignità altrui), ma rende altresì possibile realizzare fini collettivi apprezzabili quali il mutuo riconoscimento, la sicurezza e la fiducia. Si può dire che Rawls sia alla ricerca di un nocciolo di principî che costituiscano un punto di equilibrio sia tra le pretese ragionevoli di eguali cittadini che avanzano rivendicazioni in conflitto, sia tra le aspirazioni dell’individuo e le esigenze della vita sociale. Se si considerano l’assunzione riguardo al pluralismo sociale e la concezione di legittimità liberale adottata, risulta facile capire perché l’A. limiti l’ambito della sua teoria al politico. Il pluralismo e il riconoscimento degli “oneri del giudizio” (vale a dire di tutta una serie di fattori che spiegano come possano verificarsi le divergenze tra le credenze e le valutazioni di individui diversi) impongono a Rawls di astenersi dall’invocare il valore politico della verità. Il consenso politico si persegue invece attraverso la ragionevolezza, che pur non essendo priva di una valenza cognitiva, tuttavia è compatibile con un’ampia diversità di credenze, convinzioni e fedeltà. La verità al contrario è un concetto più invadente e una volta che si sia stabilità una verità pubblica è difficile che questa non proceda a ritroso, esigendo una profonda ristrutturazione e adeguazione del proprio bagaglio personale di credenze e valori. Una simile invadenza della politica sulla sfera delle credenze private per Rawls è indesiderabile, oltre che irraggiungibile in una situazione di pluralismo, ma a suo giudizio non è nemmeno necessaria, poiché il consenso politico può coagularsi anche grazie alla meno esigente nozione di ragionevolezza. In fondo si potrebbe vedere la ragionevolezza come il tipo di razionalità necessaria per realizzare il bene di una società giusta, un bene che è vantaggioso sia per l’individuo sia per la collettività. La ragionevolezza sarebbe perciò la logica sottesa al gioco della società bene-ordinata: se si vuole giocare questo gioco, allora occorre rispettarne le regole costitutive rappresentate dai due principî di giustizia. Chiariti i presupposti fondamentali della teoria di Rawls, credo sia utile chiarire come procede la giustificazione della teoria. Ho spesso sentito attribuire al consenso per intersezione un ruolo fondativo o almeno giustificativo. Questo è un equivoco che va rimosso e che quest’opera aiuta a confutare. Prima è forse utile specificare una differenza sottile, ma significativa, all’interno della proposta di Rawls. È bene non confondere la giustizia come equità, che è una dottrina della giustizia, con il liberalismo politico che è invece una dottrina della legittimità liberale. Anche se hanno un contenuto grosso modo identico (3), la prima mira a fornire le basi normative di una società giusta, mentre il secondo spiega come sia possibile raggiungere un libero consenso in una situazione di pluralismo, vale a dire come possa verificarsi un consenso per intersezione. Non bisogna pensare che il consenso per intersezione abbia soppiantato la posizione originaria o l’equilibrio riflessivo nel giustificare la teoria. In realtà, come l’A. ha più volte spiegato, il consenso per intersezione è stato sviluppato per sostituire quello che in Una teoria della giustizia era l’argomento della congruenza a livello individuale tra il perseguimento del proprio bene e il rispetto dei vincoli di giustizia. Rawls ha abbandonato l’idea che il rispetto delle norme di giustizia sia parte del bene individuale in quanto rappresenta un modo per agire in modo autonomo e per realizzare la propria natura morale. Queste credenze kantiane sono certo coerenti e compatibili con la teoria, ma non possono essere presupposte in tutti i cittadini una volta che le libertà siano garantite e abbiano prodotto il pluralismo. Rawls ha dunque compreso che se il pluralismo è l’esito spontaneo dell’esercizio delle libertà fondamentali, allora i principî di giustizia devono essere sostenuti da persone che abbracciano dottrine e credenze divergenti, quindi il consenso e l’adesione intorno ai principî fondamentali della società devono potersi basare su ragioni e convinzioni differenti. Da qui nasce l’idea di presentare la giustizia come equità come una concezione esclusivamente politica, un modulo capace di innestarsi sul tronco di diverse “dottrine comprensive ragionevoli”. Il che significa che la possibilità che si verifichi un consenso per intersezione ha solamente lo scopo di illustrare che la teoria proposta è stabile, ossia che una società bene-ordinata, una volta realizzata, è in grado di conservarsi, di promuovere la conformità ai suoi principî fondamentali pur nel rispetto dell’inevitabile pluralismo. La possibilità di un consenso per intersezione ha solo lo scopo di dimostrare che la proposta non è utopistica, non è un disegno istituzionale incapace di generare le forze necessarie a sostenerlo (e lo fa senza tradire i principî che afferma). La possibilità del verificarsi di un consenso per intersezione è la condizione necessaria perché sia soddisfatta la concezione liberale di legittimità. Ma essa non ci dice nulla (o quasi) sulla correttezza dei principî di giustizia proposti da Rawls. La loro giustificazione è ottenuta tramite il criterio dell’equilibrio riflessivo, l’artificio della posizione originaria e il superamento di un test di stabilità. Il metodo riflessivo di giustificazione richiede di sottoporre ad attento scrutinio le assunzioni normative da cui si parte (i “giudizi ponderati”) e in seguito di testarle attraverso confronti reciproci, correggendole laddove risulti necessario. Quando questo processo viene condotto a termine con successo dovremmo aver emendato i nostri principî generali e giudizi particolari in modo tale che essi siano coerenti e che i secondi siano deducibili dai primi. Va precisato che nel corso della nostra riflessione e dei nostri controlli qualunque elemento può essere emendato o abbandonato. Non vi sono dunque delle verità indiscusse e la struttura della giustificazione non è fondazionalista. Non è nemmeno meramente coerentista, poiché, almeno nella sua concezione ampia (che è quella adottata da Rawls) l’equilibrio riflessivo non richiede solo di rendere coerenti e non contraddittori i vari principî e giudizi, ma prescrive anche di confrontarli con criteri alternativi e con le ragioni che li sostengono. Quando il confronto è allargato ai giudizi ponderati degli altri e delle varie dottrine presenti nella tradizione, allora esso non persegue solo la coerenza interna, ma anche il tentativo di accogliere quei giudizi e principî sostenuti dalle migliori ragioni disponibili. L’obbiettivo finale è una condizione in cui le nostre convinzioni morali sono state ad un tempo esaminate, corrette e rese coerenti e sistematiche. Il tutto partendo dalle nostre ragioni e convinzioni attuali, di uomini figli della loro epoca e cultura. Questo metodo sembra garantire un buon equilibrio tra le esigenze di pensiero critico (in quanto permette di dare voce alle diverse tradizioni e opinioni che convivono in una società pluralista e informata da diverse tradizioni ) e quelle di radicamento psicologico nelle credenze accettate, poiché è da queste che muove. Il celebre argomento della posizione originaria si comprende correttamente solo se lo si inserisce nel quadro del metodo riflessivo. Come è noto, la posizione originaria è una situazione ipotetica in cui delle parti collocate in condizioni di simmetria e uguaglianza, e sottoposte a restrizioni sull’informazione e a vincoli formali nel ragionamento devono scegliere i principî di giustizia definitivi per la società in cui (essi stessi o i loro rappresentati, come accade nelle formulazioni più recenti dell’esperimento mentale) andranno a vivere. Essa costituisce un utile espediente euristico ed espositivo, poiché permette di concentrare in un’unica immagine un gran numero di assunzioni normative e di semplificare il ragionamento (che dovrebbe approssimarsi a un ragionamento deduttivo, ma, saggiamente, Rawls riconosce che non può essere deduttivo in senso rigoroso) poiché molte assunzioni normative vengono incarnate da vincoli esterni e da restrizioni sull’informazione. In questo modo il ragionamento delle parti può basarsi solo su considerazioni razionali, dato che l’equità e la giustizia della decisione sono garantite dalla situazione in cui esse sono poste e dalle motivazioni attribuite loro. Una volta collocata la posizione originaria nel quadro più ampio del metodo riflessivo, si comprende come essa sia un artificio molto efficace sia per produrre dei principî generali da porre a confronto con i nostri giudizi ponderati su casi particolari, sia per confrontare teorie diverse nel quadro di una situazione ipotetica in cui il ragionamento risulta semplificato. La riflessione ci guida nel costruire la posizione originaria e i suoi vincoli, e questi a loro volta ci guidano nel mettere alla prova convinzioni radicate e alternative teoriche. Vi è però ancora una prova che una dottrina deve superare prima di potersi considerare giustificata: essa deve mostrare di essere realisticamente realizzabile, nel senso debole di non essere in sé contraddittoria, di non generare da sé fattori di perturbazione e instabilità che la conducano al fallimento. Quindi essa deve dimostrare in primo luogo che i principî scelti in assenza di un certo tipo di informazione, sentimenti e disuguaglianze possano risultare ottemperabili anche quando nella vita reale questi fattori entrano in gioco. In secondo luogo essa deve anche mostrare di essere accettabile per cittadini che non condividono una medesima visione del mondo (“dottrina comprensiva”), ma al contrario sono divisi da credenze e aspirazioni diverse. Ho già spiegato in che modo l’idea di consenso per intersezione risponde alla seconda esigenza. Al primo requisito invece si cerca di rispondere mostrando che la teoria normativa proposta esige dai cittadini sacrifici più sopportabili rispetto alle teorie alternative (in sostanza rispetto all’utilitarismo). Solo quando una concezione della giustizia è stata scelta nella posizione originaria, ha superato i test di stabilità e ha raggiunto l’equilibrio riflessivo, solo allora essa può fregiarsi del titolo di miglior proposta normativa praticabile alla quale siamo riusciti a pensare noi qui e ora. In fondo è solo questa la rivendicazione alla quale l’A. si sente legittimato: aver proposto una teoria normativa che offra la soluzione al momento più convincente nel fornire un nucleo di principî sui quali possa formarsi un consenso tra cittadini con diverse concezioni del bene. Valutare il grado di novità presente in quest’opera è un compito che facilmente darà adito a controversie. E’ probabile che gli esegeti di Rawls evidenzieranno tutte le piccole migliorie e precisazioni contenute nel testo e attribuiranno loro una certa importanza. I critici meno benevoli invece non potranno che sottolineare la ripetitività dell’A., che sembra reiterare all’infinito il suo mantra limitandosi a correggere le virgole. Da ammiratore di Rawls mi duole dare ragione agli insofferenti, poiché di novità autentiche ve ne sono ben poche, e queste a loro volta o sono delle piccole migliorie a qualche argomento (in genere si tratta o di tentativi di rispondere a osservazioni critiche (4) o dell’accettazione di qualche suggerimento (5) ), oppure sono accenni decisamente troppo sommari per suscitare molto interesse. Tra le cose che meritano di essere segnalate includerei il modo più chiaro e netto in cui vengono distinti gli argomenti a favore del principio di differenza (6) rispetto a quelli a sostegno delle eguali libertà e opportunità. L’A. spiega che la regola di maximin (7) non viene invocata a causa di una particolare avversione al rischio delle parti, ma in considerazione delle carattere del tutto peculiare (sia per l’informazione disponibile, sia per la posta in gioco) della scelta. Il che non stupirà i lettori più attenti di Rawls. È invece sorprendente scoprire che tale regola viene adoperata nella scelta del primo principio, mentre non riveste alcun ruolo nell’argomento a favore del principio di differenza. Tale ragionamento infatti si basa quasi esclusivamente sulle conseguenze psicologiche del principio. Queste sono di due tipi: vi sono le richieste che il principio avanza nei confronti dei cittadini e i conseguenti oneri che esso impone, e vi sono anche gli effetti che esso ha sulla cultura pubblica e il clima sociale. In entrambi i casi il principio di differenza si avvantaggia sul principio di utilità media, poiché richiede sacrifici meno gravosi e poiché incoraggia lo spirito cooperativo e la fiducia. Questa osservazione ci conduce direttamente a un altro aspetto che non è una vera e propria novità, ma sul quale l’A. insiste come mai in precedenza, mi riferisco al ruolo educativo di una concezione pubblica della giustizia. Essa esercita un’importante influenza sul modo in cui i cittadini concepiscono se stessi e deve promuovere il loro riconoscersi come cittadini liberi ed eguali. Inoltre i principî di giustizia, se effettivamente realizzati, avrebbero anche l’importante funzione di promuovere le virtù politiche (come la disponibilità alla tolleranza e al compromesso, e la disposizione a rispettare le regole e a giustificare le proprie pretese) e cooperative, oltre che la concordia e la fiducia. Un’importante qualità dei principi che propone risiede secondo Rawls nella loro capacità di promuovere e coltivare quelle virtù civili che costituiscono un importante bene pubblico e un vero e proprio «capitale politico» (118). Questo avviene sia ad opera del riconoscimento di un eguale status di cittadinanza attraverso il primo principio, sia mediante il criterio di reciprocità incorporato nel secondo. L’effetto combinato dei due principî di giustizia è di istillare nei cittadini un sicuro senso del proprio valore e la consapevolezza che a nessuno è consentito avvantaggiarsi a loro danno. Purtroppo questo può essere vero solo se i cittadini sono in grado di assumere sulla vita politica uno sguardo sufficientemente distaccato e proiettato sul lungo periodo, poiché i conflitti politici non di rado hanno un carattere meno “signorile” di quanto suggerisce Rawls. La limitatezza delle risorse, l’incompatibilità di pretese in conflitto e il carattere posizionale o simbolico di certi beni fanno sì che certe battaglie politiche siano davvero a somma zero, e in questi casi è difficile che l’esistenza di istituzioni giuste mitighi l’asprezza dei conflitti e il loro potenziale di lacerazione. Temo che uno sfondo istituzionale giusto col tempo tenda a suscitare soprattutto assuefazione nei cittadini, che lo danno per scontato e si concentrano invece sulle battaglie politiche del giorno. Comunque queste riserve nulla tolgono al grande valore pedagogico che le idee di Rawls possono avere nel quadro di una moderna democrazia costituzionale. In particolare mi sembra un notevole risultato da riconoscere all’A. l’aver mostrato che esistono dei beni pubblici importanti e significativi il cui perseguimento può costituire un importante cemento sociale senza per questo sacrificare il pluralismo di credenze e di progetti di vita dei cittadini. Si può essere uniti nella ricerca di alcuni beni pubblici pur essendo divisi nei propri valori, aspirazioni e fedeltà privati. Vi sono infine due temi potenzialmente di grande interesse in quest’opera, mi riferisco all’idea che in una società bene-ordinata non sia necessaria una crescita continua della ricchezza e all’idea di democrazia a proprietà diffusa (8). Purtroppo però questi spunti non vengono approfonditi in modo soddisfacente, restano a livello di mere suggestioni. Questo risulta particolarmente deludente nel caso del concetto di democrazia a proprietà diffusa, che l’A. contrappone a un capitalismo welfarsistico. Quasi nulla viene detto a proposito del tipo di istituzioni che un tale sistema richiederebbe, né si affrontano i potenziali conflitti tra il carattere procedurale e non intrusivo delle regole che disciplinano le transazioni economiche e la necessità di evitare concentrazioni di potere e di capitali nelle mani di pochi. Infine non è nemmeno ben chiarita la differenza tra un socialismo liberale e la democrazia a proprietà diffusa. Se la filosofia politica deve avere uno scopo pratico allora, quando la realtà è così palesemente distante dall’ideale che viene proposto, non si può eludere il problema della transizione rifugiandosi dietro il proposito di offrire solo una teoria ideale. Se si invoca la realtà della cultura politica democratica e della sua consolidata diffusione per sostenere la possibilità di un consenso per intersezione, non si può poi trascurare il radicamento e la forza del capitalismo e della concentrazione della ricchezza che esso porta con sé. L’A. dovrebbe almeno suggerire un percorso plausibile attraverso il quale si può disperdere la ricchezza e la proprietà dei mezzi di produzione, così come ha tratteggiato il percorso che può condurre da un modus vivendi a un consenso per intersezione. La mia impressione è che la leggerezza degli strumenti concettuali di cui si può servire una concezione che sia solo politica permetta di affrontare il problema della legittimità, ma divenga insufficiente quando si vogliano trattare temi che investono l’evoluzione e il destino delle nostre società. In questi casi occorrono concezioni del bene più sostanziali di quelle a cui può fare appello Rawls, oppure si deve essere disposti a mettere in gioco gli ideali democratici contro gli ideali (o forse i sogni) di ricchezza, competizione e autoaffermazione così presenti nelle nostre società. Il rischio di una tale mossa però è la sconfitta dell’austero ideale civile di una repubblica di uomini liberi e frugali, più attaccati al proprio ethos civile che al proprio benessere materiale. Forse questo è il vero conflitto che si va delineando nella nostra epoca, lo scontro tra una società individualista e competitiva orientata a uno sviluppo economico senza fine, da un lato, e un ideale civile di una società unita dal desiderio di conservare le proprie libertà politiche e civili anche a costo di una minore opulenza materiale, dall'altro. L’eredità dell’Ottantanove forse è la fine dell’illusione che il capitalismo e la democrazia potessero marciare affiancati nel promuovere un futuro di ricchezza e libertà per tutti. ° ° Note (1) Anch’esse non sono del tutto nuove per Rawls, si trovano accennate rispettivamente in The Law of Peoples (§ 15.2, in particolare la nota 33) e nella Preface alla revised edition di A Theory of Justice. back (2) Si vedano in
particolare il saggio «Il senso di giustizia» (in John Rawls, La giustizia
come equità, Napoli, Liguori, 1995) e il capitolo VIII di Una teoria
della giustizia (Milano, Feltrinelli, 1982). back (3) John Searle, Rationality in Action, Cambridge Mass., MIT Press, 2001. back (4) Il principio di differenza è parte integrante della prima, ma può essere escluso dal secondo. back (5) A questa categoria appartengono, ad esempio, i tentativi di spiegare il ruolo della famiglia in una società bene-ordinata e di mostrare che gli interessi di donne e bambini verrebbero adeguatamente tutelati in essa, oppure il tentativo di mostrare che i beni primari sono sensibili al tipo di reale influenza che hanno sulle prospettive di vita dei cittadini, poiché il loro fine è proprio rendere questi ultimi in grado di esercitare e sviluppare le loro capacità di agire secondo giustizia e di perseguire il proprio bene. Queste riflessioni sono tentativi di risposta alle osservazioni critiche (ma non ostili) rispettivamente di Susan Moller Okin e di Amartya Sen. back (6) E’ il caso, ad esempio, dell’argomento intorno alla giustizia tra generazioni. Qui non si assume più che le parti abbiano un interesse per il benessere dei propri discendenti, ma si richiede invece che le parti debbano volere che il principio scelto sia stato rispettato da tutte le generazioni precedenti. back (7) Il principio di differenza stabilisce le condizioni in base alle quali è lecito allontanarsi da una distribuzione egalitaria. Esso autorizza solamente quelle disuguaglianze che facciano stare meglio anche i meno avvantaggiati. Detto altrimenti ci si può allontanare da distribuzioni egalitarie solo fintanto che i benefici in termini di efficienza vadano a favore di tutti, non appena le disuguaglianze comincino a beneficiare solo alcuni, a scapito di chi è nella situazione meno favorevole, esse non sono più permesse. back (8) Nella teoria della scelta razionale, la regola di maximin prescrive di decidere in favore dell’opzione che presenta le possibili conseguenze negative meno nefaste. In pratica si considerano gli esiti peggiori di ciascuna possibilità e si sceglie quella che presenta il miglior esito peggiore (maximin sta per maximum minimorum). back |