Chiusure politiche

Edoardo Greblo

Università di Trieste, Dipartimento di Filosofia

 

Non è possibile in questa breve nota affrontare il rapporto tra spazio e politica quale si presenta nella intera tradizione del pensiero politico, rapporto ricostruito da Galli nel modo abitualmente illuminante e convincente. Anche se Spazi politici permette assai efficacemente di correggere quella sorta di miopia concettuale che impedisce di guardare alla globalizzazione come a un fenomeno che, pur con tutte le distinzioni fatte valere da Galli, è connaturato alla politica sin dai Greci – dato che la politica, in quanto organizzazione della vita comune degli uomini, è sempre stata conquista, controllo e amministrazione dello spazio inteso come il luogo in cui si sviluppa l’azione umana –, il tema oggetto di queste osservazioni è decisamente più circoscritto. La questione, in sintesi, è la seguente: è pensabile una forma politica cui riferire la globalizzazione, un ordine politico in grado di tracciare le coordinate dello spazio globale, una sorta di nuovo nomos della terra? Come si ricava dalle persuasive analisi di Galli, che sottolinea le differenze specifiche tra la forma attuale, peraltro ancora da definire, e tutte le forme tradizionali di ordinamento politico come la polis, l’Impero e lo Stato, non vi sono risposte semplici a questa domanda, che scaturisce dalle novità introdotte dall’era globale. Le categorie della modernità appaiono infatti inadeguate e insufficienti: né l’idea kantiana di una grande confederazione degli Stati, né la teoria schmittiana dei Grandi Spazi, né il sogno jüngeriano di uno Stato mondiale sembrano delineare ipotesi teoriche adeguate al nuovo livello dei problemi.

Il tema in discussione si riferisce, dunque, alla questione della "discontinuità" fra età moderna ed età globale, ossia, con le parole di Galli, al problema della globalizzazione concepita come "l’insieme dei processi in cui tutte le tendenze della modernità esplodono, in configurazioni compiutamente post-moderne", al punto "che tutte le contraddizioni spaziali inerenti il rapporto fra universale e particolare, tutte le difficoltà a far coesistere spazio chiuso e spazio illimitato, qui si manifestano come aporie, che non producono più né forma politica né libertà". Con il risultato che "lo spazio tutto aperto (o almeno che tende a presentarsi come tale) della globalità può essere tanto soffocante quanto quello angusto (che tendeva a presentarsi come chiuso) della statualità" [Galli 2001, pp. 132-133]. L’ipotesi che in questa nota si vorrebbe sottoporre alla discussione è la seguente: la sfida "spaziale" dell’età globale, determinata dalla denazionalizzazione della produzione economica e dalla caduta delle barriere territoriali del capitale, soprattutto finanziario, è destinata a seguire imperativi sistemici largamente indipendenti da ogni quadro di regolazione inter-nazionale dell’economia mondiale, oppure sono ancora possibili, almeno in prospettiva, forme tendenziali di ‘chiusura’ politica in grado di influenzare politicamente con orientamenti di tipo normativo l’automatizzarsi del sistema economico globale? Ovvero, con le parole di Galli: "si possono organizzare spazi politici senza più poterne tracciare i confini?". Il che significa: "che ne è dello spazio della politica (che dalla metà del XX secolo coincide con la democrazia) dopo il collasso delle figure e dei confini che lo costituivano nelle varie fasi dell’età moderna: soggetto, società, Stato, sistema internazionale degli Stati, conflitto Est/Ovest?" [Galli 2001, pp. 151-152]. Poiché ritiene che vi sia una netta cesura tra età moderna ed età globale, Galli sembra considerare come utopica ogni possibilità di rispondere con forme tendenziali di ‘chiusura’ politica alla mano invisibile di processi socioplanetari i quali si presentano come fenomeni che (seppur contraddittoriamente) si autoregolano spontaneamente sganciandosi da ogni forma di obbligazione politica, poiché tende a considerare scarsamente realistica (in quanto regressivamente ‘moderna’) la proposta di universali etico-politici in grado di promuovere l’anticipazione normativa di una globalizzazione rispondente a un progetto umano e razionale. Quest’ultima viene infatti considerata come una riproposizione della "tradizionale aporia della spazialità politica moderna, enfatizzata ma non superata nell’età della globalizzazione", in base al fatto che "nessun universale può essere oggettivamente tale, ma resta sempre un particolare, mentre d’altra parte nessun particolare è realmente uno spazio chiuso, ed è deformato dalla potenza dell’universale" [Galli 2002, p. 158].

Ora, citando Polanyi, Habermas ha di recente affermato che ci troviamo attualmente di fronte a una "seconda grande trasformazione", capace di promuovere una chiusura spaziale in grado di favorire una forma politica non economicisticamente immiserita. In La grande trasformazione [Polanyi 1944], il fascismo viene descritto come una chiusura politica tardiva e fallimentare, perché regressiva, al crollo del liberismo economico che tra Otto e Novecento si era basato sulla stabilità della moneta aurea. Una forma di liberismo, ci viene ricordato da Polanyi, che se da un lato assecondava la nascita di un mercato globale liberalizzando spinte sistemiche indipendenti dalla volontà dei soggetti politico-economici coinvolti, dall’altra era tutt’altro che priva di regolazione politica, poiché l’indipendenza del sistema dei commerci da forme di controllo politico dei mercati era in realtà promossa e garantita dal dominio imperiale britannico. Non a caso, alla aberrante chiusura totalitaria dei conflitti economici si risponde, sul finire della Seconda guerra mondiale, con gli accordi di Bretton Woods, che garantiscono il commercio mondiale nella forma di un capitalismo istituzionalizzato all’ombra della pax americana, espressione di una rinnovata chiusura politica capace di dare avvio, nei paesi occidentali, alle politiche di welfare. Tra Otto e Novecento, alla deregolamentazione dei mercati si è così risposto con una duplice modalità di regolazione politica: quella regressiva dei fascismo e quella, politicamente riuscita, che ha preso forma nelle istituzioni sovrannazionali del secondo dopoguerra. A partire dagli anni Settanta, con la fine degli accordi di Bretton Woods, anche questo ultimo assetto è venuto meno. Si tratterebbe allora di vedere se la difficoltà di "far coesistere spazio chiuso e spazio illimitato", che attualmente sembra appunto esprimersi in "aporie, che non producono più né forma politica né libertà", non stia in effetti riproponendo la necessità – ma anche la opportunità – di una nuova "grande trasformazione", ossia, nella prospettiva di Polanyi, alla possibilità di promuovere forme rinnovate di chiusura politica senza ricadere in quelle soluzioni, come la nazione, la classe o lo Stato, che hanno prodotto le catastrofi all’origine delle sue ricerche.

Tra i presupposti che stanno alla base dell’ipotesi di una netta discontinuità tra età moderna ed età globale vi è probabilmente il fenomeno che si potrebbe chiamare di ‘destatalizzazione’ del mondo, nel senso che alla pluralità di significati connessi all’espressione globalizzazione sembra coessenziale la rilevazione della crisi della centralità dello Stato, in particolare della forma organizzativa dello Stato-nazione. Se è vero, cioè, che l’assetto mondiale è ancora caratterizzato dalla supremazia del territorio, dei confini e dei poteri nazionali nella distribuzione del potere e della ricchezza, è anche vero che organismi internazionali come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio mettono fine al sistema economico internazionale che vedeva gli Stati stabilire i confini tra le economie interne e le relazioni commerciali esterne. Quanto più le attività di organizzazione socio-economica, di territorialità e di distribuzione del potere trascendono le frontiere nazionali, tanto più risultano messi in discussione i principi spaziali della vita sociale e politica moderna, basati sul principio della corrispondenza tra società, economia e politica nel contesto di un territorio nazionale spazialmente delimitato e protetto. La globalizzazione dei mercati assume così il profilo di una economia transnazionale che provoca crescenti deficit di legittimazione all’interno dei singoli Stati, in quanto li priva di quella capacità di controllo del ciclo economico che è alla base, tra l’altro, dei processi di implementazione democratica, dal momento che a venir meno vi è quella simmetria e corrispondenza tra sovranità, territorio e legittimità che ne era alla base. Si è in questo modo infranto il legame tra territorio e potere politico e ciò ha favorito l’affermazione di istituzioni internazionali e transnazionali che hanno trasformato la sovranità in un esercizio del potere – di controllo dello spazio – che non è più facoltà esclusiva di uno Stato sovrano, ma che viene condivisa o sostituita da sistemi di potere politico, economico e culturale di livello regionale o globale.

Si potrebbe però pensare che la registrazione della dissoluzione degli Stati-nazione si spinga ad anticipare una tendenza che sembra registrabile solo nel caso dell’Unione europea, sottovalutando inoltre la rinascita di quei nazionalismi, di quelle forme di ri-spazializzazione artificiale e talvolta coatta, che hanno recentemente portato alla costituzione di nuove entità statuali su base prevalentemente etnica. Tra i fenomeni più vistosi indotti dalla globalizzazione vi sono infatti i fenomeni di radicalizzazione delle identità etniche e della disgregazione multiculturale, i quali generano una domanda di integrazione che un liberalismo appiattito sulla logico monodimensionale del mercato non sembra in grado di soddisfare. Non a caso, in parallelo alla proclamata de-statalizzazione della politica mondiale, riemerge con forza la tendenza a riscoprire le ‘piccole patrie’, ovvero l’idea che la società politica possa esistere unicamente come comunità locale, vincolata a un territorio e in competizione con altre comunità territoriali. L’invenzione di nuovi nazionalismi regionali o subregionali, interessati a enfatizzare modelli localistici di sviluppo economico (come ad esempio il ‘Nordest’ opposto al ‘Sud’), non è certamente una specifica creazione della nostra cultura politica. Probabilmente la valorizzazione del livello locale risponde a più esigenze, presentandosi sia come volontà di rispazializzare la vita sociale intrecciando la riorganizzazione degli apparati sistemici con la vita soggettiva a uno stadio intermedio tra la dimensione puramente locale e quella globale, sia come un fenomeno speculare ai processi di ri-spazializzazione interna ai singoli spazi economici. La riscoperta delle piccole patrie o del nazionalismo coincide infatti con un processo di ‘balcanizzazione’ all’interno delle società più ricche, differenziando le regioni dominanti tra aree più o meno ricche e promuovendo nuovi processi di esclusione sociale. In questo senso, la globalizzazione unifica lo spazio esterno, ma contribuisce a frammentare gli spazi nazionali in comunità di villaggi globali reciprocamente differenziati, quando non ostili l’uno nei confronti degli altri. La globalizzazione come sconfinamento, come sfondamento dei confini si converte in nuove forme di ri-spazializzazione che ripropongono regressivamente il richiamo alle radici locali e territoriali, quando non etniche, o addirittura alla propria civiltà, sulla base del radicamento tellurico delle popolazioni sia in senso materiale che ideale.

Se la globalizzazione non genera la destatalizzazione o la denazionalizzazione che ne sarebbero dovute coerentemente derivare, ma produce, al contrario, la ri-nazionalizzazione, le ‘piccole patrie’, il localismo o addirittura nuovi Stati, promuovendo nuove spazialità, nuovi confini (anche interni, come quando i con-cittadini finiscono per percepirsi come reciprocamente stranieri), il problema sembrerebbe allora consistere nella necessità di evitare la riproposizione di ‘chiusure’ politiche dello spazio liberisticamente allargato che si limitino a riproporre forme di ri-spazializzazione della politica fondate su forme di coscienza nazionale, e cristallizzate intorno al sentimento di una comunanza etnica, linguistica e storica. In altre parole, sembra che gli sviluppi della globalizzazione stiano sotto il segno di una ambivalenza caratteristica: da un lato si assiste al risorgere di quei nazionalismi che sono stati il vettore della costituzione degli Stati, dall’altro si diffonde l’idea che lo Stato stia progressivamente perdendo le proprie capacità di controllo politico – a favore, di volta in volta, di una situazione dominata da rapporti di contratto-scambio, secondo la variante liberista, o dal diritto delle organizzazioni internazionali, secondo la variante cosmopolita. Tutto ciò viene certamente a confermare l’ipotesi di Galli, secondo cui questi fenomeni starebbero appunto riproponendo la "tradizionale aporia della spazialità politica moderna, enfatizzata ma non superata nell’età della globalizzazione". La prospettiva da verificare sarebbe allora la seguente: è possibile pensare a un universalismo senza uniformità, come quello che ha dato origine alle conquiste storiche della prima modernità, senza che lo Stato-nazione si irrigidisca nella propria identità proprio nel momento in cui i due processi che sono stati alla base della formazione degli Stati, la monopolizzazione militare e fiscale, vengono chiaramente messi in crisi dall’avanzare della globalizzazione? È possibile una forma di universalismo che eviti sia la spazializzazione (apparentemente) liscia e senza confini della globalizzazione sia una forma di rispazializzazione nostalgica di quel mito dell’unità politica dei vecchi Stati nazionali che viene attualmente riproposto, in forma solo maggiormente formalizzata e stilizzata, dalle teorie monistiche sull’ordinamento giuridico mondiale? Ogni previsione è certo azzardata, ma forse la politica potrebbe tenere il passo con la crescita dei mercati non attraverso una (del tutto irrealistica) razionalizzazione facente capo a uno Stato mondiale accentrato nei suoi poteri, quanto piuttosto mediante la nascita di macro Stati regionali dotati di competenze su aree continentali. Ciò sta appunto accadendo con l’Unione europea, che è per certi aspetti sia "meno che uno Stato" sia "più che uno Stato". Se è improponibile la semplice riproposizione dell’universalismo regolamentato della prima modernità, ossia chiuso e regolato dallo Stato di welfare tra il 1950 e il 1980, che ha assicurato le condizioni formali (e in parte materiali) per l’equiparazione e la tutela giuridica di tutti i cittadini, la sola possibilità di fronteggiare i conflitti della seconda modernità può consistere in una rinnovata chiusura politica che giuridifichi democraticamente i mercati e rinnovi i patti di solidarietà tra i cittadini attraverso uno "sforzo prosaico, ma anche appassionato, di tracciare nuovi confini che siano di nuovo in grado di stabilire che c’è uno spazio in cui non tutto è possibile" [Galli 2001, p. 171].

È certamente vero, infatti, che i processi di spazializzazione politica messi in atto dallo Stato-nazione sono stati sotto il segno di un’ambivalenza di fondo: se da un lato la cittadinanza universalistica del demos, che ha dato luogo a una associazione politica di liberi ed eguali, ha garantito agli Stati legittimazione democratica, dall’altro il principio nazionalistico e particolaristico dell’ethnos ha garantito invece l’integrazione sociale. Come ha scritto Habermas, "questa tensione tra l’universalismo di una egualitaria comunità giuridica e il particolarismo di una comunità storica di destino è costitutiva del concetto di stato-nazione" [Habermas 1996, p. 128]. Si tratta di vedere se, nel momento stesso in cui lo Stato-nazione, indebolito nelle proprie capacità d’azione dalla fine della sua omogeneità culturale, della sua intangibilità territoriale, del suo monopolio della coercizione, non possa essere liberato dalla ambivalenza da cui aveva tratto impulso per sfruttare su scala più vasta l’orientamento universalizzante della modernizzazione sociale costruendo capacità politiche d’azione a livello sopra-nazionale – una possibilità che sembra appunto testimoniata dai faticosi processi di integrazione europea. In altre parole, è possibile riscattare il contenuto normativo dello Stato-nazione, che è stato capace di creare vincoli di solidarietà tra estranei non solo sulla base dei legami (peraltro immaginari) tra gli appartenenti etnici, ma anche a partire dai diritti alla libertà privata e alla ripartizione sociale e culturale, nonostante i giganteschi processi di denazionalizzazione dell’economia? Ora che la globalizzazione ha fatto in modo che le società pluralistiche tendano ad allontanarsi in modo sempre più evidente dal vecchio modello dello Stato-nazione con popolazione culturalmente omogenea, è forse diventato possibile risolvere quella ambivalenza originaria, e separare l’universalismo di una egualitaria comunità giuridica dal particolarismo di una comunità storica di destino in vista della realizzazione di universali non generici ma concreti, compatibili con le specificità locali entro spazi politici dotati di senso.

Si tratterebbe di vedere, cioè, se questo processo di modernizzazione universalizzante non sia altro, come viene spesso sostenuto, che un fenomeno specificamente europeo, la cui estensione e applicazione generalizzata non serve che a difendere, sotto il mantello dell’universale, una ragione etnocentrica e spazialmente localizzata, oppure se alcuni principi universali sono realmente ispirati da esperienze comuni a tutta l’umanità e fondati sulla universale ragione umana. Detto diversamente: gli universali della globalizzazione ‘europea’ sono un fenomeno spaziale specificamente occidentale oppure (anche) "moderno" (e liberale, oltre che liberista)? L’origine locale è responsabile unicamente del sorgere di questi fenomeni o è costitutiva, per così dire, della sua ‘essenza’? La decadenza dello Stato-nazione promuove la necessaria dissoluzione di ogni forma di socializzazione politica basata su forme di universalismo differenziato, e condanna i cittadini a vivere in un mondo di relazioni anonime, di sistemi funzionali che si autoproducono e si autoregolano, nel quale si tratta di scegliere tra possibilità sistemicamente prodotte, oppure è ancora possibile promuovere assetti, procedure e condizionamenti in grado di ri-spazializzare il sistema economico globale mediante un universalismo sensibile alle differenze?

Ora, che la concezione universalistica dello Stato democratico di diritto possa in certa misura rendersi autonoma da una forma di coscienza nazionale fondata sulla appartenenza a una comunità di destino sembra dimostrabile precisamente in base alle vicende dell’Unione europea. L’Europa non si sta costruendo come uno Stato nazionale basato sulla appartenenza alla cultura di un popolo o su una qualche appartenenza ‘naturale’ – che, di fatto, o è stata costruita narrativamente dalle élite politiche e intellettuali oppure è solo storicamente più antica. L’Europa sta nascendo, oppure può nascere, unicamente come scelta consapevole di un popolo che da nazione diventa (certo non solo) corpo elettorale, e che trasforma in senso universalistico affiliazioni locali, lealtà tradizionali o appartenenze nazionali di tipo ascrittivo. Che ai valori dell’universalismo europeo-occidentale sia proprio un elemento di radicamento spaziale non è ovviamente in discussione, ma la differenza tra questi valori e le appartenenze naturali consiste nel fatto che la cultura politica comune permette, entro uno stesso spazio politico, la coesistenza, giuridicamente equiparata, di forme di vita culturali, etniche e religiose separate dal piano della identità politica complessiva. E che, non a caso, si presentano in una molteplicità abbastanza differenziata da richiedere una esplicita attività di scelta, discussione, riconoscimento razionalmente motivato. In questo senso, se c’è un universale europeo questo consiste precisamente nel fatto di sganciare le singole identità spaziali dalla costrizione ‘naturale’ dell’appartenenza etnica e di secolarizzare l’appartenenza ‘naturale’ trasformandola in una sorta di contratto sociale tra i cittadini europei. Ciò sembra dimostrare che l’universalismo può imparare a reggersi in piedi da solo. Questo modello di ri-spazializzazione politica parrebbe illustrare una possibilità di uscire dall’aporia denunciata da Galli, ossia il fatto che "nessun universale può essere oggettivamente tale, ma resta sempre un particolare, mentre d’altra parte nessun particolare è realmente uno spazio chiuso, ed è deformato dalla potenza dell’universale". Non solo, infatti, nonostante in questo processo siano all’opera anche potenti forze ‘spaziali’ di tipo localistico, esso non è il prodotto dell’ethos di una comunità radicata etnocentricamente nella propria tradizione, ma rappresenta (almeno in fieri) una prima approssimazione alla costruzione di un macrosoggetto politico concepito secondo una grandezza appropriata a gestire, per riprendere la terminologia di Polanyi, la seconda "grande trasformazione".

Questa visione dell’Europa "come uno spazio politico dotato di senso […] in cui le sfide e le opportunità della globalizzazione sono non rifiutate ma neppure accettate supinamente, sì anzi raccolte e messe a valore" [Galli 2001, pp. 170-171] è del resto quella ipotizzata dallo stesso Galli. L’alternativa europea alla globalizzazione come deformazione delle geometrie politiche, come uno sconfinamento che non produce pluralità ma solo dispersione è dunque un’Europa come "terra della differenza", ossia come un equivalente (forse) altrettanto funzionale di quello Stato-nazione che è stato capace di coniugare la nazione dei cittadini con la nazione etnica e che ora, minacciato all’interno dall’esplosione del multiculturalismo e dall’esterno dai problemi della globalizzazione, andrebbe riscattato nel suo contenuto normativo piuttosto che liquidato [Habermas 1996, p. 140]. Ciò, naturalmente, a condizione che l’Europa "abbia del tutto consumato il proprio tramonto nichilistico" [Galli 2001, p. 170], ossia, se si prende per buona l’accezione che se ne è data in queste righe, come presa di congedo da ogni spazialità politica fondata su presunte appartenenze ‘naturali’. Che l’universalismo delle differenze nato all’ombra dello Stato-nazione possa sganciarsi dalla ambivalenza che a suo tempo gli è stata costitutiva è una esigenza da cui, come ricorda Galli, non si può certo dedurre alcuna realtà effettuale. Tuttavia, sottolinea ancora Galli, non è impossibile immaginare un progetto costituente in chiave federale tenuto insieme non soltanto dal mercato e dal potere amministrativo, ma anche da una rinnovata chiusura politica concepita come un allargamento dei processi democratici di inclusione tra consociati giuridici liberi ed eguali, cioè come uno spazio politico in cui ciò che è partecipato a livello prepolitico sia riflessivamente stipulato a livello contrattuale e costituzionale, senza con ciò cadere in quella "mistica unitaria del potere costituente" che sarebbe destinata a sfondare, ancora una volta, ogni chiusura istituzionale e politica. Non si tratta di un progetto del tutto irrealistico: la storia degli Stati Uniti dimostra come lo Stato nazionale possa assumere e conservare una forma repubblicana anche in assenza di una popolazione culturalmente omogenea. Certo qui il nazionalismo è stato surrogato da una religione civile che aderiva (e aderisce) alla cultura di una maggioranza, ma anche l’Europa, "consumato il proprio tramonto nichilistico", può far valere l’eredità normativa dello Stato democratico di diritto – che è ormai diventata, dopo la fine dei totalitarismi di ogni colore, anch’essa cultura di maggioranza – come una carta da giocare contro la dinamica incontrollata della globalizzazione. La seconda "grande trasformazione" sarebbe così auspicabile (e praticabile) appunto come la peculiare chiusura politica della seconda modernità, a condizione che il principale protagonista politica della prima, lo Stato-nazione, abbia la capacità di superare se stesso costruendo capacità politiche d’azione a livello soprannazionale a partire da un fondamento diverso da quello rappresentato dal legame spaziale con un territorio connotato in termini etnici. Il fatto che non esista ancora qualcosa come un ‘popolo europeo’ non è di per sé un ostacolo insuperabile: le forme e le procedure dello Stato costituzionale non soltanto sono in Europa, appunto, ormai cultura di maggioranza, ma esse promuovono, attraverso la loro modalità democratica di legittimazione, un nuovo livello di coesione sociale, culturale e politica. Se i presupposti della democrazia non derivano dal popolo in quanto comunità di destino, ma da una società che intende darsi forma politica, allora il progetto di "una costituzione politica fondamentale" richiamato da Galli può essere davvero la via per promuovere l’anticipazione normativa di quel nuovo livello di coesione politica che, al di là di ogni valutazione empirica delle difficoltà contingenti, può garantire allo spazio politico europeo la possibilità che il processo democratico soprannazionale impedisca agli imperativi economico-funzionali della globalizzazione di porre fine a ogni spazializzazione politica dotata di senso. Se, in altre parole, solo la globalità è suscettibile di offrire un orientamento universalistico, e se soltanto la localizzazione permette all’universalismo di convertirsi in forme non distruttive di radicamento, forse, allora, è proprio l’Europa che sta cominciando faticosamente a delineare il profilo di una forma di statualità soprannazionale in grado di promuovere una base istituzionale sufficientemente solida da coniugare questi due livelli. Il processo di unione dell’Occidente europeo sta avendo quale principale effetto quello di creare una nuova "frontiera generale". Dentro questa spazialità la scomposizione e la ricomposizione di nuove territorialità può ripristinare una forma di relazione simmetrica e congruente tra i decisori politici e i destinatari delle decisioni. Il processo federale europeo per aggregazione di Stati può così favorire in ogni singolo Stato un processo federale per disaggregazione che non sia meramente regressivo in almeno due momenti essenziali: quello tra i cittadini elettori e quei decisori che essi hanno delegato a rappresentarne e a tutelarne gli interessi, e quello tra le decisioni di politica pubblica prese dai decisori e i loro rispettivi collegi, ossia il popolo di un territorio spazialmente determinato. È forse in questo modo che la tensione tra l’universalismo di una egualitaria comunità giuridica e il particolarismo di una comunità storica può trovare nuovi punti convergenza, ed evitare che la casa "propria" della politica, e in particolare il modello dell’autonomia democratica, si trasformi in una prospettiva sempre più enigmatica e sfuggente.

 

Riferimenti bibliografici

Galli, C.,

Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Bologna, Il Mulino, 2001.

Habermas, J.,

L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (1996), Milano, Feltrinelli, 1998;

La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia (1998), Milano, Feltrinelli, 1999.

Polanyi, K.,

La grande trasformazione (1944), Torino, Einaudi, 1974.