Spazi politici e governo mondiale

Renato Cristin

Dipartimento di Filosofia, Università di Trieste

 

Con la seguente nota rispondo, molto volentieri, alla richiesta, rivoltami dalla redazione di "Etica & Politica", di esprimere alcune considerazioni sul saggio di Carlo Galli intitolato Spazi politici, edito da Il Mulino nel marzo 2001.

Io credo che un libro sia come una città osservata da differenti prospettive: ogni lettore vi vede qualcosa in particolare, qualche scorcio che solo da quel punto di vista si può scorgere, qualche elemento che ad altri e da altrove può sfuggire. Tanto più ricco è un libro, tanto maggiore la quantità e la qualità delle prospettive. Ed è proprio in nome di questo prospettivismo che spero di poter aggiungere il mio sguardo a quello di altri, molto più competenti, lettori di questo libro, che appartiene certamente alla classe di quelli densi di spunti. E anche in virtù di questa interna ricchezza testuale, la mia lettura si tradurrà anche in alcune considerazioni non classificabili né come recensione (per la loro incompletezza), né come discussione critica (per la loro "superficialità"), ma definibili come semplici osservazioni marginali (e brevi).

Prima di leggere il saggio di Galli in modo sistematico e, tutto sommato, in modo ortodosso, conforme cioè al modo migliore di studiare un libro, l’ho sfogliato qua e là per vedere quali emergenze mi si rivelavano a una prima occhiata, e sono stato attratto da alcune riflessioni, nelle pagine conclusive, sul tema della globalizzazione, e poiché le stavo leggendo proprio nei giorni immediatamente successivi al summit del G8 di Genova di fine luglio 2001, mi ci sono soffermato con particolare curiosità. Sarà quindi proprio questo il campo visuale principale di queste mie brevi considerazioni. Tanto più che dopo l’ 11 settembre 2001 la riflessione filosofico-politica, da qualsiasi punto di vista essa si collochi, non può evitare di confrontarsi con la questione della globalizzazione, intesa come questione del governo mondiale.

Lo spazio politico della globalizzazione, dell’epoca cioè che si afferma grosso modo alla fine degli anni ‘80, viene interpretato da Galli come uno spazio puramente virtuale, anzi, paradossalmente, come una "assenza di spazio politico". Il campo della globalizzazione equivarrebbe ad uno spazio politicamente vuoto in cui emergono, di volta in volta, attori virtuali che, secondo le circostanze, impongono una determinata decisione o una particolare prospettiva. In questa atmosfera rarefatta e inafferrabile si producono differenze radicali rispetto a quelle categorie politiche moderne che hanno finora determinato la prassi politica occidentale e, al tempo stesso, la percezione che gli uomini, quanto meno in Occidente, hanno di tale prassi. Tra le diversità indicate da Galli, una mi sembra particolarmente importante: "come in economia, anche in politica la globalizzazione implica che il baricentro si sposti dalla produzione (il progetto) al consumo (la passività)". Secondo questa tesi, lo spazio politico (in senso generale) non viene più costituito da attori che creano le condizioni di possibilità della politica, ma viene occupato, dislocato e, in definitiva, anche distorto da fattori che rispecchiano soltanto la sfera quantitativa del consumo, fattori che si riducono a mere istruzioni per l’uso della politica e delle sue implicazioni.

Riprendendo l’idea jüngeriana della mobilitazione in quanto movimento totale che attraversa e sconvolge il Novecento e le masse che si distribuiscono lungo le sue linee di forza, Galli (che del saggio di Jünger Die totale Mobilmachung è stato anche il traduttore italiano) usa il concetto di "mobilitazione globale" per definire la situazione di estremo e universale dinamismo che caratterizza la realtà globalizzata attuale. Se questo concetto rispecchia adeguatamente tale realtà (e di ciò Galli fornisce abbondanti prove), allora è evidente che lo stesso concetto di spazio in generale (e non solo di quello politico) dev’essere ridisegnato. La perdita di centralità della dimensione spaziale nella crescita e nella diffusione delle nuove forme della tecnica, la cui "perfezione" (per usare l’espressione del fratello minore di Jünger) si manifesta non più soltanto nella sua entelechia (e per ipotesi) ma nelle sue concretizzazioni reali (e quindi con la certezza della prova), è un fatto che non possiamo però semplicemente accettare, ma che, come ritiene Galli, dobbiamo analizzare in vista di contromosse e di ri-pensamenti che possano produrre un’inversione di questo processo di dissoluzione dello spazio e, di conseguenza, della politica che su tale distruzione si genera.

Scomparso il nomos della terra, e superato ormai anche quello del mare, la mobilitazione globale ci presenta un’integrazione di norme e di vincoli che a sua volta produce però un’infinita proliferazione di regole particolari e di schemi locali. Pur trovandosi – anche sotto il profilo teoretico – a proprio agio nel nuovo scenario della globalizzazione, Galli avverte con preoccupazione, così almeno mi pare, la scomparsa di un riferimento spaziale – sia in senso proprio che in senso metaforico – in grado di rinnovare i concetti moderni della politica senza abbandonarne gli elementi costitutivi, che si situano nell’ampio orizzonte che va dall’affermazione delle libertà individuali alla difesa delle regole democratiche.

I molteplici spazi di cui si compongono le attuali società avanzate non solo si ridisegnano in base a nuove emergenze o nuovi processi, come accade per lo spazio statale, di cui Galli ci offre una dettagliata esposizione e interpretazione, ma si intrecciano e, in parte, si sovrappongono con modalità inedite e sempre più complesse. Il reale, come si presenta nell’epoca della mobilitazione globale non solo non è affatto razionale, ma è anche più contraddittorio che mai. È un mondo che vorrei definire "leibniziano", nel senso che l’incessante intersecarsi del finito e dell’infinito, del particolare e dell’universale, di singolarità eccezionali e di generalità regolari, di macroeventi e microfenomeni, in un vortice che non consente più alcuna distinzione precisa, può essere associato alla visione leibniziana dell’universo monadologico in cui gli opposti si incrociano senza distruggersi. Ed è intorno alla contraddizione come essenza della realtà globalizzata che Galli fa ruotare il proprio sforzo teoretico: il semplice uso del termine "glocale", segno caratteristico dell’epoca presente, sembra rivelare tutta la contraddittorietà del mondo attuale. E tuttavia è proprio con questa contraddittoria complessità che bisogna fare i conti, ed è in essa che bisogna continuare a far vivere la politica. Su questo punto Galli, che nell’insieme del libro sembra piuttosto freddo e un po’ distaccato nelle analisi, mostra una passione che forse ne diminuisce la precisione da scienziato della politica ma che certamente, almeno a mio avviso, aumenta l’intensità del suo sguardo sul proprio tempo.

In questo senso mi pare di poter leggere anche le sue considerazioni su alcuni risvolti psicologici della realtà globalizzata, che tuttavia riguardano non solo la psicologia delle masse ma anche l’azione politica concreta. A mio parere, le conseguenze della globalizzazione sugli individui non sono soltanto aspetti di carattere psicologico di un macroprocesso sociale. L’agorafobia o la xenofobia non vanno viste soltanto come espressioni personali, reazioni singolari di fronte ad una spinta universale. Sono fenomeni che vanno considerati come indizi di un sommovimento più profondo e più diffuso che troverà, e già ha, radici collettive. E se per un verso si tratta di reazioni eccessive, per un altro sono forme di rifiuto di un’imposizione – la circolazione globale di tutto – che, liberando spazi e persone, nega al tempo stesso libertà esistenziali e sociali non riducibili soltanto alla sfera della libertà privata e a quelle che molti ancora, soprattutto tra i sedicenti avversari della globalizzazione, considerano, dispregiativamente, le libertà borghesi.

È vero che gli spazi politici moderni (compresi quelli della seconda metà del XX secolo) stanno svanendo, ma questo processo forse non si realizzerà mai completamente, e i loro surrogati, che si stanno affacciando, non sono una completa negazione della modernità, bensì una ripresa di alcuni suoi tratti essenziali sotto nuove forme. L’esempio, di grande attualità, che ancora una volta torna utile a questo proposito è quello (dopo il grande esordio del 1991 con la guerra del Golfo) del rapporto fra gli Stati democratici (l’Occidente nel suo complesso) e i cosiddetti Stati "teppisti" o "terroristi". A mio avviso nel modo di rapportarsi a questi Stati e alle organizzazioni terroristiche che li occupano (talvolta in modo parassitario ma più spesso godendo del loro pieno appoggio) c’è un carattere fondamentalmente moderno: la difesa della libertà, ma non solo della libertà di un popolo, e neppure della libertà "di" o "da", bensì della libertà in generale, che sul piano metafisico costituisce l’essenza dell’essere umano e su quello politico rappresenta la forma simbolica dell’esistenza collettiva. In questo senso, non solo la politica, ma anche la prassi militare è extramoderna e moderna al tempo stesso, come testimonia l’esempio della guerra in Afghanistan.

Per superare le antinomie del moderno e alcuni suoi prodotti ormai consunti, come lo Stato e le categorie che gli sono correlate, Galli cerca di sottrarsi ai limiti e ai vincoli della modernità, ma quando valorizza la necessità della spazializzazione politica mostra un’evidente attaccamento a certi fondamenti del moderno. E, a mio avviso, questo vincolo sotterraneo costituisce il nucleo pulsante della sua riflessione. Quando, pacatamente ma con una dose di angoscia, afferma che "senza una determinazione politico-spaziale concreta c’è solo virtualità informe. E non c’è neppure pluralità, bensì solo dispersione", segnala un’esigenza, un’urgenza, una via che la politica (e la riflessione che ne sta alla base) deve imboccare. E indicando questa necessità, Galli incontra l’Europa, un’entità che, pian piano, riemerge da nebbie mitologiche e da catastrofi storiche.

Assegnando all’Europa un compito minimale, quando auspica che "si proponga almeno come uno spazio politico dotato di senso", egli interpreta con molto realismo il nostro presente, dal momento che è difficile oggi intravedere per l’Europa, all’interno del vortice planetario che trova via via sempre nuovi centri (penso al prossimo e imponente ruolo della Cina, che tra alcuni decenni sarà potenza mondiale di primo livello), una dimensione politico-economica arcontica nei confronti delle altre aree avanzate del mondo. Sul piano dei rapporti intraeuropei e delle strutture politico-istituzionali che devono sorreggere la creazione di questo nuovo spazio, Galli colloca l’esigenza di stilare una Costituzione europea, una carta fondamentale su cui forgiare poi le nuove strutture comunitarie. A mio avviso, se connessa con il recupero e con il rinnovamento dell’idea di polis, questa carta costituzionale può servire da base per una riappropriazione da parte degli europei di un loro spazio vitale e culturale, che è oggi messo a rischio da fattori esterni e difficilmente controllabili, di carattere sia economico che culturale.

Ora, se gli spazi politici moderni scompaiono, ciò che, pur con grandi trasformazioni, sembra ancora resistere nei nuovi scenari globalizzati sono gli spazi culturali. Meno soggetti alle regole che vincolano l’azione politica, meno legati agli aspetti procedurali che determinano l’azione istituzionale, gli spazi culturali conservano margini di autonomia e di recupero di forme tradizionali di pensiero, anche politico, che non sono mere appendici residuali di un’inarrestabile tendenza all’omologazione. Insomma, gli spazi culturali che si possono individuare nell’orizzonte della società globale non sono mere riserve per preservare alcuni esemplari culturali dall’estinzione, né meri musei in cui conservare forme e processi culturali pronti ormai per essere riposti nell’archivio della storia. Anche gli spazi culturali sono incalzati dal vento globale, ma sembrano offrire ancora riparo a ipotesi "terze" rispetto alle due opzioni attuali, quella, largamente maggioritaria, della cultura globale (nella quale finisce per ricadere anche il tentativo "glocal"), e quella, del tutto minoritaria, della cultura locale (non uso l’espressione no-global, perché la ritengo, nel suo insieme, tanto vicina al globalismo di cui si proclama antagonista da risultare soltanto un suo altro risvolto, più ideologizzato e proprio perciò più pericoloso).

Il non-spazio della mobilitazione globale facilita non solo la dissoluzione della politica tradizionale ma anche quella di posizioni culturali acquisite, in vista di fusioni arrischiate e, per lo più, inconsulte. L’antropologo Marc Augé ha parlato di "non-luoghi" per indicare i nuovi spazi del meticciato e del multiculturalismo, ma l’Europa non è un non-luogo e non dev’essere considerata tale. L’Europa è un luogo dai precisi connotati culturali e dotato di un’identità in sé molteplice ma dai tratti comuni sufficientemente numerosi per poterci permettere di parlare, sia pure con una certa cautela, di una identità europea. Il rischio di una semplificazione che svuota gli spazi socio-culturali del loro senso tradizionale e che li riduce a neutri non-luoghi pronti per essere riempiti con nuove creazioni e nuove donazioni di senso è, tra l’altro, quello di considerare equivalenti, dal punto di vista culturale, le spinte immigratorie che opprimono oggi i Paesi occidentali, l’Europa in primo luogo, e le ondate di emigrazione europea dei secoli precedenti. Questa equiparazione non solo è sbagliata scientificamente, dal punto di vista cioè della storia e della sociologia delle migrazioni, ma anche eticamente, perché mentre la gran parte degli emigranti europei del XIX e XX secolo si recava in Paesi e territori poco popolati e, talvolta, desertici, chi viene oggi in Europa si trova di fronte a una civiltà plurimillenaria, che ha edificato quasi tutto ciò che era possibile sia in senso materiale che spirituale. Bisogna pertanto opporsi a quella forma di naturalismo, oggi più o meno consapevolmente accettato dall’ideologia corrente, che permette alla forza del numero di soppiantare le ragioni dell’identità culturale. Guardando all’Europa come possibilità di un nuovo spazio politico, Galli si trova inevitabilmente dinanzi a problemi e interrogativi di carattere identitario a cui va data, rapidamente e concretamente, una risposta.

Per concludere, al di là dell’apprezzamento incondizionato per le grandi capacità sia di sintesi che di ricostruzione esibite da Galli, al di là di una totale condivisione di molti punti centrali della sua esposizione (il che mi ha reso difficile presentare controargomentazioni e, in definitiva, interloquire criticamente con l’Autore), mi rimangono due dubbi. Un dubbio teorico: Galli avrebbe modificato qualcosa nelle sue pagine di riflessione teorica autonoma, soprattutto in quelle sulla globalizzazione e sul governo mondiale, se avesse dovuto scriverle dopo l’11 settembre 2001? E uno politico: scriverebbe ancora che le azioni di polizia internazionale (la forma che la guerra ha assunto nell’epoca della globalizzazione) sono "un utile strumento di cui gli Stati Uniti si servono […] in nome del "primato americano""? E, infine, una piccola curiosità intellettuale (ma anche politica): avrebbe lasciato lo stesso spazio ad analisi come quelle di Hardt e Negri sul nuovo Impero, così inquietanti per la loro contiguità con i proclami del terrorismo antiamericano?