La giustificazione trans-religiosa dell’ethos

Sapere della giustizia e politiche dello spirito

Pierangelo Sequeri

Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale (Milano)

 

1. La strada del rapporto con l’ideale dell’essere è segnata dalla sua individuazione nel luogo di una promettente convergenza della rivelazione della verità e della assicurazione della giustizia.

L’originario della sintesi che dà luogo all’utopia della conciliazione eticamente qualificata dell’esistere — l’essere comme il faut, come è necessario che sia per essere-bene, come ha da essere per essere-bello — converge nella costellazione di un’esistenza giustificata. La verità dell’essere attestata dalla stabilità del bene. L’episteme dei greci e l’emet degli ebrei (le due tradizioni che hanno plasmato il mondo dell’Occidente) convergono intorno alla densità simbolica di questa integrazione dell’oggetto del desiderio morale con il tema della rivelazione salvifica). Particolarmente suggestivo è del resto il fatto che il termine ebraico — che indica essenzialmente un legame stabile e affidabile - venga tradotto dai LXX proprio con questi tre termini greci: aletheia, pistis, dikaiosyne (1).

La questione della verità, all’origine del pensiero occidentale, affonda effettivamente le sue radici nella problematica religiosa della rivelazione e in quella etica della giustizia. Il poema parmenideo pone l’inizio dell’impresa filosofica della conoscenza incontrovertibile dell’essere - dell’essere come ha da essere pensato secondo rettitudine, ossia in vista di una giustificata persuasione della sua verità — sullo sfondo di una rivelazione più vicino a quello del Siani che non a quello delle meditazioni cartesiane.

 

2. La coscienza che si va affermando come post-moderna - nella tipica autonomia sentimentale del suo principio di giustificazione dell’esistere, e nell’autoreferenzialità della sua scena di rivelazione dell’essere - è ormai altra cosa rispetto alle figure della soggettività illuministica, ma anche rispetto a quelle plasmate dalla coscienza storica.

Essa non è più dia-cronica rispetto all’orientamento progettuale, costruttivo, emancipatorio della libertà. Ma neppure sin-cronica, come gli strutturalismi vorrebbero (funzionalismo, costruttivismo, contrattualismo) per il loro bisogno di coerenza. Si potrebbe definirla cronica: legata ai valori simbolici del flusso temporale e diffidente nei confronti di ogni stabilità dell’essere nei suoi legami (come verità o come giustizia). Legittima difesa — faute de mieux — di una soggettività che ha talmente assimilato la lezione della propria ineluttabile condizionatezza (biologica, psichica, sociale, culturale) da interpretarla paradossalmente come una vera e propria physis. Senza poter per altro rinunciare alla irreversibile scoperta della libertà e della soggettività che mediano la qualità degna di fede di ogni senso presentabile della verità e della giustizia. Il presentarsi di una tale configurazione del senso, per quanto affidabile, è pur sempre insidiata dal sospetto che esso sia in realtà la giustizia d’altri e non la propria; la verità d’altro, e non di ciò che si presenta.

L’erosione del rapporto fra coscienza e manifestazione, indotto dalla separazione fra esperienza della verità e apprezzamento della giustizia è istruttivo. L’approfondimento radicale dello scavo di ciò che si trova ‘alle spalle’, ovvero ‘all’origine’ della coscienza attuale, ha finito per portare una pregiudiziale destabilizzazione della manifestazione effettiva. Il fenomeno si è prodotto nella linea di una paradossale eterogenesi dei fini. Lo scavo sistematico e l’esame critico di ciò che si trova alle spalle della coscienza fu avviato allo scopo di garantire la sua autonomia. Il risultato è un’imponente esposizione di tutto ciò che vi resiste: rendendo totalmente problematica la sua evidenza e impraticabile la sua giustificazione. Non per caso registriamo oggi come ‘maestri del sospetto’ nei confronti della coscienza e della manifestazione, quelli che in realtà nacquero come precettori della sua emancipazione.

Il dubbio, che investe persino l’immediato sentimentale della coscienza, non è più soltanto l’ombra della fallibitlià dell’umano. Esso appare come il protocollo critico dell’atteggiamento epistemologico congruente con la struttura della coscienza. Non senza la sua surrettizia metamorfosi in imperativo etico.

 

3. La lingua che prescrive la censura di ogni evidenza dell’incondizionato della verità, destituendo di valore il primato della coscienza nell’ordine della dignità etica della giustizia, continua a rivestire una tipica connotazione religiosa e morale.

La conseguenza di questa regressione dell’incondizionato è la risoluzione della coscienza morale nella riqualificazione etica dell’immediatezza emozionale dell’apparire. Coscienza allude qui alla sfera di un sentimento morale che viene interpretato come moralità del sentire: l’immediatezza del secondo funge da Ersatz dell’incondizionatezza del primo, immunizzandosi nei confronti della coscienza critica mediante la sua riconversione etica nella figura della intimità inviolabile dell’individuo. La riscossa dell’io empirico — l’incondizionato residuale dell’evidenza morale universalmente disponibile — cumula gli esiti della separazione di coscienza e manifestazione. Da un lato l’omologazione morale del senso che appare nell’estetica affettiva del sé, unica evidenza etica apparentemente disponibile; dall’altro la rassegnazione alla destabilizzazione del sapere della coscienza, risolto nel carattere indiretto e problematico dell’evidenza noetica. La coscienza morale è guidata dal raffronto con il modello noetico della conoscenza, al quale l’incondizionato della giustizia risulterebbe appunto precluso, come ogni presunta assolutezza della verità. L’assunto problematico appare per altro giustificato da una pregiudiziale etica irrinunciabile, formulata com un a priori della giustizia che non ha bisogno di verificazione: la pretesa assolutezza del sapere a riguardo del senso è presunzione ingenua, eticamente censurabile.

L’interpretazione politica del principio dell’ideale dell’evidenza noetica, inteso come assolutezza che ha il diritto di imporsi alla coscienza indipendentemente dall’evidenza della sua giustizia e dalla dignità del consenso, ha così potuto concorrere a mantenere intatta — anche dentro la modernità, e oltre — la connotazione dispotica dell’ideale veritativo che veniva segnatamente rimproverata al naturalismo metafisico della giustizia e alla dogmatica religiosa della verità.

 

4. La deriva contemporanea della secolarizzazione europea ha generato una nuova figura: l’agnosticismo interessato alla religione e indifferente alla fede. L’assetto di questa figura si esprime oggi volentieri nella dichiarazione di "essere laico": e quindi, ovviamente, "non credente".

Molti tratti differenziano questa "non credenza" dall’idea tradizionale di "incredulità", che indicava prevalentemente una scelta oppositiva alla fede e la negazione di ogni valore della religione. D’altro canto, essa mostra di considerare problematica non tanto la tradizionale pretesa di "assolutezza" dei simboli e delle manifestazioni del "sacro", quanto piuttosto l’idea di una fede che si identifica con l’assolutezza della sua verità. Essa esprime di fatto un’intenzionalità disposta a lasciarsi coinvolgere culturalmente ed emotivamente dalla tematica religiosa, ma rimanendo accuratamente a distanza dall’assunzione teorica e pratica di una identità credente.

La nuova coscienza non credente resiste positivamente ad essere assimilata all’idea di una fede: sia pure implicita o trascendentale. In compenso accetta più volentieri di riconoscere la funzione positiva della tradizione religiosa e dei suoi simboli per la comprensione dell’umano. Il suo inquadramento teologico con le categorie "classiche" risulta dunque più difficile: sia per riferimento alla coppia dogmatica fede/incredulità, sia in rapporto alla coppia apologetica fede/ragione. Nella sua indeterminatezza, la confessione della propria laica estraneità alla fede ha spesso la forma di una semplice epoché di ogni identificazione confessionale. In parte è una dichiarazione imposta dal ruolo: la professione pubblica e il protagonismo culturale traggono credito (e mercato) dall’assunzione (o almeno, dalla simulazione) di questo profilo. In parte, su tratta realmente di uno stato di coscienza considerato apprezzabile per il suo spessore culturale: indica maturità umana, ragionevolezza critica, moderazione democratica. Vi si associa facilmente un’immagine di tolleranza etica e di apertura pluralistica.

Lo status civile di non credente è facilmente distinto anche dall’atteggiamento di scetticismo e di disimpegno del classico agnosticismo. Non di rado questa dichiarazione lascia largo spazio all’interesse, al rispetto, alla vera e propria simpatia nei confronti della fede religiosa in senso lato. Non esclude neppure una certa qual forma di disponibilità esplicita a riconoscere il senso positivo del "sacro" e del "trascendente" nella vita e nella cultura dell’uomo. La nuova cultura della non credenza preferisce il confronto breve e mediatico sulle implicazioni antropologiche e sociali della religione, piuttosto che l’impegno critico e teorico sul problema dei fondamenti. La relativa morbidezza di questo atteggiamento si iscrive largamente nello spazio della nuova cultura civile post-moderna, caratterizzata — a quanto sembra — da un’etica egualitaristica di tutte le opinioni (political correctness) e da una filosofia minimalistica dei legami con la verità (pensiero debole). Mentre la retorica civile rimane per inerzia attestata sulla rappresentazione di un soggetto moderno orientato dal rigore razionale della ricerca della verità e del concorso alla edificazione di valori comuni, la coscienza individuale va rapidamente assimilando una specie di a priori del dubbio metodico nei confronti dell’affidabilità di ogni ricerca dei fondamenti e di ogni pretesa univocità dei valori nella sfera del senso.

 

5. Un secondo aspetto riguarda la necessità di sottrarre allo status dell’agnosticismo postmoderno il troppo agevole insediamento nello spazio umanistico di una condizione neutrale. In attesa, sostanzialmente "passiva", che la pretesa confessante della fede fornisca al tribunale della ragione rappresentato dall’incredulità, buoni motivi per essere creduta.

Con tutto il rispetto, la non credenza — in qualsiasi forma — è una specifica determinazione della coscienza confessante dell’uomo. E’ di grande rilievo esistenziale e di grande influsso sociale. Ma non rappresenta affatto l’umano che è realmente comune, a fronte di una religiosità che introduce una variante anomala cui incombe esclusivamente l’onere della prova. (Che succede se uno "diventa credente": cede una quota di diritti civili, perde il diritto alla rappresentanza dell’umano, non riesce più a vedere le stesse cose con l’imparzialità "tipica" del laico?). Qui non è questione della semplice volontà di mantenersi a distanza dalla disciplina "ecclesiastica" o di non voler morire "democristiani". La questione è serissima: impegnarsi a prendere distanza dalla fede teologale, in qualsiasi forma ciò avvenga, è sempre faccenda antropologicamente seria. Interpretare questa decisione come un puro permanere al livello della ragione umana, non è affatto cosa che vada da sé. Implica una specifica resistenza al carattere originariamente interlocutorio della vita cosciente nei confronti del divino e del religioso. La coscienza avvisa sempre del mistero ultimo dal nome impronunciabile al quale siamo affidati. E opera sempre in vista del giudizio ultimo che deve ristabilire la giustizia violata e la salvezza sperata. E’ ancora la convinzione di Kant e di Voltaire, del resto, se li si vuole conoscere.

Un conto sono le forme economiche e politiche della secolarizzazione nei confronti del modello teocratico dello Stato o del potere civile della Chiesa. Tutt’altro conto è la teorizzazione della ovvietà culturale della non credenza etica e religiosa nello spazio della coscienza umana.

Nella cultura dell’uomo, semplicemente non è mai esistita — e non esiste — alcuna possibilità di enunciare una qualsiasi figura della verità, del senso, della giustizia, del diritto e del dovere, del valore e del fine, dell’origine e della destinazione, se non per riferimento — positivo o polemico che sia — alla testimonianza di una coscienza credente. E mai tale enunciazione si produce, o viene fatta valere presso la coscienza, senza una determinata presa di posizione che include — esplicitamente o remotamente — un atto di consenso o di dissenso nei confronti della tradizione religiosa che ha plasmato la coscienza e il linguaggio. Valori assoluti, come si ama dire oggi, non sono soltanto soggettivamente indispensabili all’equilibrio eistenziale della coscienza: sono semplicemente inevitabili per il suo costituirsi come pensiero e responsabilità, indisgiungibilmente. Non si tratta di costrutti razionali del logos, bensì di attestazioni morali del nomos che indirizza alla giustizia e attira necessariamente la libertà: perché senza di essa il nomos non vuole agire nella coscienza; e la libertà di coscienza, dal canto suo, sempre vi si rivolge, perché senza di esso non avrebbe nulla di umano da pensare e nessun logos da discernere.

 

6. Non credere responsabilmente a una religione, o alla religione, è pur sempre un modo di credere la religione. Dove credere non vuol dire soltanto opinare — né tanto meno sapere — bensì essere convinti a ragion veduta della migliore giustizia di un’interpretazione irreligiosa della religione medesima: quale che essa sia.

L’equivoco della dottrina del "cristianesimo anonimo" è appunto nella precipitazione con la quale tende a sancire l’equivalenza di questo credere con la fede religiosa e cristiana. Rimane il fatto che, in Europa, l’incredulità della "ragione laica" è sicuramente un modo esplicito e talora confessante di "credere il cristianesimo". Include una teologia, parla necessariamente di teologia (buona o cattiva che sia).

La brillante formulazione del filosofo Jean-Luc Nancy mi sembra, a questo riguardo, sinteticamente suggestiva. L’ateismo umanistico, se vuole essere culturalmente serio, deve riconoscere di potersi argomentare soltanto come elaborazione teologica della coscienza religiosa (e, in Europa, del cristianesimo: d’altronde, è un fenomeno tipicamente europeo e cristiano). La sua serietà vive dunque del proporzionale rigore della sua competenza teologica: il suo progetto umanistico è inevitabilmente un progetto sul cristianesimo, che ha imparato dal cristianesimo il suo linguaggio e le sue motivazioni. Non deve forse cercarne continuamente la pertinenza, confrontandosi — oltre che con le altre interpretazioni — con l’autocomprensione confessante del cristianesimo interessato alla sua autenticità e alla sua coerenza con il progetto evangelico originario? La fede confessante, analogamente, deve imparare a pensarsi come un punto di vista fra i molti — reali e possibili — esiti storici ed effetti culturali indotti dal cristianesimo stesso e dalla cultura (o dalle culture) che ha interpretato e prodotto, assimilato e respinto. E’ legittimo che la confessione cristiana consideri molti di questi effetti esiti eterogenei rispetto ad una fede coerente con le sue premesse evangeliche. Ma non è utile — né per la Chiesa, né per la cultura europea — che ci si sforzi di pensare l’alta cultura occidentale come un fenomeno semplicemente estraneo all’elaborazione di un pensiero più o meno coerente del cristianesimo e sul cristianesimo. Pensare teologicamente, sapendo che del cristianesimo stesso si dà una storia ermeneutica e pratica plurale, non è la stessa cosa che argomentare come se non esistesse. O come fosse semplicemente storia della ragione separata o del sapere mondano.

 

7. La necessità di porre mano al superamento della cittadella anarchica delle specializzazioni (Humboldt) e delle professioni (Weber), che costituisce attualmente uno dei pilastri della democrazia culturale, è oggi ampiamente condivisa. Ma è anche giustamente diffusa la coscienza della delicatezza di questa revisione umanistica, dato il rischio incombente di compromettere il suo equilibrio verso opposte derive. Quella di offrire copertura ad ogni irresponsabile fanatismo ideologico e stravaganza intellettuale, da un lato; e quella di concedersi — per contrappeso — al rigore puramente tecnocratico dell’informazione e del mercato, dall’altro.

In questa congiuntura di rischi, il legame fra Università dei saperi e democrazia dei poteri è strettissimo e nevralgico. Metterci mano tocca equilibri assai più strategici di quelli che appaiono nell’odierno dibattito (si fa per dire) sulla scuola e sulle scuole. Il processo di superamento "umanistico" della logica universitaria dei "dipartimenti", in ogni caso, va anzitutto rigorosamente approfondito e coltivato dentro l’università, non fuori.

I difetti del modello vigente, che dipende congiuntamente dalla degenerazione del modello humboldtiano di università (equivalenza formale di tutti i saperi razionalmente ammessi, autoreferenzialità insindacabile della specializzazione dipartimentale) e dal compromesso epistemologico della democrazia formale (che sottrae formalmente ad ogni professione specialistica il potere di istituire i fondamenti del sapere comune, ma sancisce l’inappellabile autoreferenzialità dei suoi principi nella costituzione dell’ethos pubblico del sapere), sono ormai vistosi.

Gli aspetti essenziali del meccanismo degenerativo sembrerebbero due.

Il primo si evidenzia nel fatto che la legittimazione teorica di un sapere, che dà titolo per interloquire autorevolmente in un determinato campo, è relativa ai protocolli di una competenza istituita e regolata corporativamente dalla omologazione professionale, più che non dal merito specifico dell’oggetto e dalla qualità generale delle argomentazioni. Nessuno può intervenire credibilmente, per definizione, su un oggetto che appartiene ad un campo professionalmente diverso dal proprio. Nemmeno se ci riesce. In compenso, tutti possono intervenire autorevolmente su tutto, purché dichiarino di farlo entro i limiti del punto di vista della propria qualificazione professionale. Anche quando essa sia definita, proprio in ragione di una rigidissima astrazione degli oggetti e del punto di vista, in un’area assolutamente remota dal punto di merito in questione. E per quanto la relativa specializzazione cognitiva risulti estranea ai legami della coscienza effettiva con i temi generali del senso.

Il secondo aspetto, strettamente collegato, riguarda l’avanzato fenomeno di contaminazione esistenziale della competenza professionale. Nonostante la tenuta della retorica legata alla qualità meramente professionale delle competenze, esse valgono nella realtà come titoli di identificazione esistenziale. La pratica professionale è così automaticamente legittimata a diventare il referente critico di una interpretazione globale delle questioni di senso. Nella odierna situazione - di profondo alleggerimento del sapere che concerne il senso e di debole riconoscimento pubblico dell’identità umana effettiva (e affettiva) del citoyen - il peso dell’identificazione professionale, usata come filtro protettivo per l’elusione di più ampi e impegnativi confronti esistenziali, è destinato a crescere. L’ipertrofia di una cultura specialistica registrata intorno ad un sapere di alta sofisticazione analitica e tecnica, e di inesistente apertura riflessiva alle questioni proprie dell’umano comune, requisisce ormai interi percorsi di formazione individuale e civile. E si tratta di competenze certamente non idonee per l’apertura critica sulle questioni del senso (proprio come la metafisica per il calcolo dei cementi armati).

 

8. Il carattere nevralgico delle implicazioni etico-umanistiche di lunga portata della istituzione universitaria, comprensibilmente eluso dalle forze politiche, deve interpellare responsabilmente anche la coscienza credente culturalmente più attrezzata.

E per cominciare, lasciando da parte gli inutili bizantinismi di ingenue teorie del dialogo tra fede e saperi, o di presuntuose ambizioni di una teoria filosofica unificata, penso per esempio ad una sensibile convergenza dei credenti e non credenti — ovvero degli uomini di buona volontà che sono la maggioranza in entrambi i campi - sul progetto della costituzione di connettivi umanistici capaci di mettere in rete ogni ambito di specializzazione universitaria o professionale.

L’area di questi nuclei — come insegnano l’antica e più spregiudicata università medievale, e anche la battaglia umanistica contro la sua degenerazione corporativa ed ecclesiastica - avrebbe a che fare sostanzialmente con i profili fondamentali dell’esperienza estetica, etica e religiosa. Sarebbe elemento comune a tutti i possibili percorsi. Avrebbe pari dignità formativa e, proporzionalmente, pari livello di elaborazione critica. Il suo stabile insediamento dovrebbe mostrare almeno due cose. La prima è che non è vero che tutti i saperi sono ugualmente competenti nell’interpretare e nell’indirizzare l’umano: ma in questo elementare assunto non è affatto questione di delegittimazione e di dignità. Semplicemente non ci sono pregiudizi o privilegi confessionali / aconfessionali di competenza: che scaturiscano dal registro dei battesimi o dall’albo delle professioni. La seconda è che una sapienza critica dei temi che mettono direttamente in gioco la densità spirituale dell’umano è realmente accessibile a tutti: perché è un sapere fondamentale per la disciplina dell’umanesimo comune, non l’ideologia di una corporazione separata. E’ proprio per questo che richiede, a sua volta, competenze realmente specifiche. Ed è per questo che è tema di più severo confronto critico. L’umanesimo selvaggio, cioè incolto, non istruito e non attrezzato mediante un sapere onesto ed effettivo — ossia adeguato al suo oggetto - nuoce sempre. Fuori della religione, dentro la religione.

Sulla distanza, una simile integrazione, sottrarrebbe alibi alla superficialità e fornirebbe una base linguistica praticabile dello scambio sociale fra tutti i cittadini e tutte le professioni sui temi comuni relativi alla topica umanistica del senso: che riguarda, infine, i legami più cari e più sacri per la coscienza degna di questo nome; e include certamente l’esperienza religiosa. Edificherebbe infine gli interlocutori reali di ogni possibile confronto, rendendolo culturalmente attrezzato: e dunque, effettivamente praticabile in condizioni di pari dignità. Ma anche religiosamente corretto: e perciò, capace di impegnare il credente ad onorare la lealtà intellettuale richiesta, con un pensare teologico all’altezza del suo contributo civile.

 

 

Note

 (1) M. Cimosa, Guida allo studio della Bibbia greca, società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1995, p. 124. Cfr. anche G. Quell — R. Bultmann, aletheia, in TWNT I, 232-251 [tr. it. Grande Lessico del Nuovo Testamento, I, 625-674]; R. Bultmann — A. Weiser, pisteuo, TWNT, VI, 175-231 [tr. it., Grande Lessico, cit., X, 337-488]. back