Identità e solidarietà
Identità e personalità
Chiunque osservi le società contemporanee dal punto di vista psicologico rimane colpito da un paradosso: da un lato, alcuni processi epocali (di cui tratteremo poco oltre) tendono a limitare, negare e perfino rimuovere il diritto alla soggettività (1 ). Dall’altro, proprio perché le società contemporanee appaiono come molto individualizzate, emerge con maggior enfasi il modo in cui gli individui si confrontano con la loro "identità personale", con chi propriamente essi sono nel loro più profondo e di come pertanto vogliono essere riconosciuti. L’impressione è che essi attribuiscano alle relazioni con gli altri un ruolo minimo, mentre sembra piuttosto che vivano con allarme il rischio che si disgreghi la società in cui sono impegnati a ricercare la propria "identità personale". Parallelamente, emerge con frequenza la paura che, di fronte alla complessità e varietà dei diversi ruoli sociali a cui ciascuno deve esporre la propria identità, quest’ultima si frammenti (2). I tentativi di definizione del concetto d’identità sono molteplici e da questi dipende anche il tipo di analisi e di risposte che possono venire date alle osservazioni sopra presentate.In questo contributo, pur aperto a tutti gli apporti che sono pertinenti al tema dell’identità, ci limitiamo ad un approccio strettamente psicodinamico e per questo ci sembra che l’ambito più adeguato per descrivere l’identità sia il concetto di personalità in termini di un sistema probabilistico estremamente complesso, risultante dall’insieme dei processi che consentono all’individuo umano di interiorizzare ed integrare in modo omeostatico le informazioni provenienti dall’ambiente, cioè coerentemente alla sua specificità e singolarità psicobiologica (3). Questo sistema è formato principalmente da tre sotto-sistemi: quello biologico, quello della cultura e quello psichico/mentale. In questa prospettiva, l’identità personale può essere vista come quella funzione o aspetto centrale della coscienza di sé, che consente la rappresentazione e la consapevolezza della specificità e continuità del proprio essere personale e, al tempo stesso, della sua diversità in rapporto agli altri e alla realtà. In quanto esperienza empirica del sentimento d’identità (4), (o, se si vuole, della propria irrepetibile singolarità psicobiologica) - il quale, con caratteri relativamente durevoli benché non necessariamente stabili, rappresenta un fattore di continuità nel tempo – l’identità personale implica, a sua volta, sia una permanente coerenza con se stessi, sia una persistente condivisione di qualche carattere essenziale con altri (5). Questa condizione coinvolge la soggettività nella globalità della sua esperienza cosciente che - in modo non astratto, bensì nel concreto del contesto ambientale - affonda le proprie radici nell'inconscio e lo manifesta nella sfera cosciente. Per tale ragione, la ricerca sullo specifico dell'identità umana ha risentito in modo incisivo delle condizioni storiche determinate in cui si è svolta e dei cambiamenti epocali a queste associati, in particolare di quelli relativi al significato dei concetti di natura e di storia.
Costruire l’identità: il processo d’individuazione Quanto detto dell’identità non prefigura, tuttavia (come forse è avvenuto talora in passato), un modello definito ed in certo modo rigido a cui ispirarsi o conformarsi, bensì un "fattore" che, partendo da condizioni minimali viene costruendosi attraverso un processo, che costituisce poi un compito essenziale e diremmo irrinunciabile per la personalità umana: quello di portare a compimento la propria identità. Questo processo viene comunemente detto processo di individuazione, in conformità all’iniziale denominazione di C.G. Jung (6). Nei suoi termini generali, tale processo può essere descritto come l’impegno umano ad agire con operazioni complementari di differenziazione e di integrazione, in modo che la personalità si costituisca in un tutto unitario ed organico e la sfera inconscia si integri con quella della coscienza, permettendo all’individuo di giungere alla sua pienezza o, se vogliamo, ad una identità compiuta (7).
I fattori del processo di individuazione tra le condizioni che tutta la tradizione psicodinamica (e non solo) ritiene necessarie per poter vivere adeguatamente il processo d’individuazione vi è la ricerca di senso, la quale implica a sua volta la scelta di una "filosofia" dell’esistenza e di valori che siano assunti, almeno soggettivamente, come "assoluti" (8). Questa componente si è però molto modificata nel contesto di pluralismo e di relativismo etico che stiamo vivendo, il quale sembra richiedere nuovi paradigmi (9) e dunque anche un tipo diverso di attenzione, per coglierne orientamenti e prospettive.
Trasformazioni epocali ed identità La collocazione stessa dell’identità in riferimento al sistema di personalità esige che essa venga considerata strettamente solidale con la storia, sia personale che sociale, ed è pertanto necessario tracciare - almeno schematicamente - la mappa del contesto storico culturale contemporaneo (10).
Concetto di natura e valori Il cambiamento epocale forse più gravido di conseguenze sul concetto stesso di personalità - e quindi di identità - che non si estende solo alle loro rappresentazioni sociali, ma che sta determinando una mentalità che si esprime in scelte etiche, politiche, economiche fino ad oggi inedite per l’umanità, è il diverso modo d’intendere e di conferire valore al concetto di natura. Quest’ultimo è infatti passato da una visione statica della realtà, connessa a precisi indirizzi di pensiero filosofico, ad una concezione dinamica, forse originariamente sollecitata dalle teorie evoluzionistiche, ma che comunque presenta un’ampia gamma di interpretazioni. Tale cambiamento ha inciso profondamente anche sul concetto di valore, giungendo fino a mettere in discussione - come valore assoluto - la vita stessa e, conseguentemente, l’identità individuale. Si sono venute così determinando ripercussioni tali, che noi tutti - pur testimoni sovente partecipi di questo processo - ancora non riusciamo, tuttavia, a valutarne compiutamente neppure la portata.
La dimensione del tempo In conseguenza del riferimento debole tra tempo e natura e, ancor più, sotto la spinta sia delle aumentate complessità sociali sia delle facilitazioni tecnologiche che consentono velocità mai prima immaginate, è divenuto molto difficile per ogni persona inquadrare e fronteggiare la dimensione del tempo. Relativizzato (forse opportunamente) sia il tempo cronobiologico che quello legato alla natura (stagioni, luce solare o notte ecc.), abbiamo bisogno di una molteplicità di indicatori per estrapolarne il tempo soggettivo, quello vissuto, quello che è realmente fruito in funzione del processo d’individuazione e che si integra nell’identità. Il tempo vissuto è infatti una sommatoria di spazi legati a determinazioni per lo più indipendenti da noi e dalle nostre esigenze: tempo di lavoro e tempo libero o vacanze, calendari che variano a seconda che siano riferiti all’anno economico o a quello sociale o ad altri parametri. E tutto questo incide talmente sulla nostra identità che, quando si tratta d’impegnare del tempo di cui possiamo o vogliamo realmente disporre, lo leghiamo subito alla nostra identità relazionale: se p. es. - alla richiesta di un appuntamento o di un impegno - rispondiamo "non ho tempo", sovente intendiamo esprimere in realtà un dato relazionale, cioè "non ho tempo per te", così come inversamente diciamo "per te troverò il tempo". Da questi brevi cenni è abbastanza agevole rendersi conto di quanto sia problematico integrare tale frammentazione del tempo in un processo unitario di crescita della personalità, e della difficoltà di gestire armoniosamente questa variegata gamma di esigenze. Nella generazione in crescita, soprattutto adolescenti/giovani, questa situazione dà luogo ad una dispercezione del tempo, sia nel senso dell’accelerazione (che si esprime come incapacità di attesa, di accettare che la nostra evoluzione avviene cogliendo le esperienze per frammenti e per gradi), che determina spesso conseguenze di fragilità nella costruzione dell’identità o anche esiti drammatici (11), sia nella completa irrilevanza della distinzione giorno/notte, anzi con marcata preferenza per quest’ultima. La riflessione su questi dati evidenzia quanto sia oggi rilevante il valore del tempo e come la scelta di dedicare o no una parte di esso ad attività pro-sociali o legate alla solidarietà, acquisti - purché sostenuta da motivazioni adeguate - una valenza molto pregnante in rapporto al progetto di compiutezza dell’identità.
La relativizzazione della storia Un’altra dinamica che segna le trasformazioni epocali è quella che potremmo chiamare la relativizzazione della storia, talmente marcata che nelle generazioni giovani si presenta piuttosto come un’amnesia, se non addirittura come una vera e propria rimozione. Le ragioni sono molteplici, due le principali. La conoscenza odierna è di tipo prevalentemente, se non esclusivamente, esperienziale e proprio questa dimensione è scarsamente trasferibile da parte delle generazioni più adulte. Se prendiamo un qualsiasi ambito - p. es. il lavoro - è facile constatare come i modelli che hanno caratterizzato le diverse forme del lavoro fossero fondati sulla trasmissione di conoscenze e di esperienze, che oggi invece - proprio perché contrapposte al concetto d’innovazione - sono, di fatto, poco utilizzabili e quindi relegate nell’immaginario patetico (il medico di famiglia, l’artigiano che vediamo solo nelle mostre dell’artigianato, il contadino-filosofo ecc.) o anche semplicemente scomparse. Questi elementi costituiscono il terreno su cui si sta alimentando la crisi - non già, credo, dell’identità - ma dello stesso modello dell’identità personale e sociale, facendone una questione a tutt’oggi aperta. Come acutamente osserva U. Galimberti, poiché le basi sopra indicate hanno dissolto il riferimento della maggioranza delle persone ad un modello d’identità sostanziale collegata direttamente ad un certo principio naturale e hanno messo, di fatto, tra parentesi la possibile assolutezza della verità, è emerso di conseguenza un interesse sull’identità - legato attualmente al progresso delle scienze - considerata nel suo aspetto funzionale nei confronti della rete di relazioni con le varie dimensioni che costituiscono il mondo (12). In questa dinamica è stata coinvolta anche la spinta evolutiva che, per secoli, è stata la ricerca della sapienza oppure della salvezza, nel cui contesto si radicava la costruzione dell’identità nel suo aspetto riflessivo. Le grandi tradizioni religiose o filosofiche sono tutte narrazioni storiche e - come tali - di faticoso approccio, mentre il riservarsi del tempo per riflettere in modo introspettivo non sembra essere oggi una pratica frequente. Avviene così che, per grande parte delle persone almeno nel mondo occidentale, l’autocoscienza della propria identità non passerà attraverso uno scavo nella propria interiorità, bensì attraverso uno sguardo rivolto, non più a se stessi, ma fuori di sé, a quelle regole o norme che, in un dato periodo ed in una data società, descrivono che cos’è una persona normale o sana o adeguata. In tale contesto, dove il soggetto è sempre meno "individualizzato", mentre aumenta la complessità delle relazioni, dei rapporti interpersonali e degli spazi di libertà interiore, la scienza che sembrava (e per alcuni tuttora è) l’ultima deriva dell’avventura umana si avvicina talmente al concetto di tecnica, da sembrare quasi appiattita su di essa.
La logica tecno-logica È importante tenere presente che la tecnologia non è solo una delle possibili forme - o forse, al momento attuale, la migliore - di assicurare la produzione di oggetti materiali, che si svolge nel rigore dell’oggettività di rappresentazioni formali, ma dà luogo ad una logica sua propria, che diviene poi visione della realtà. Sulla base delle premesse già descritte, la logica tecnologica dischiude la mente ad un orizzonte in cui il futuro è dato effettivamente dalla proiezione di pensieri e desideri che divengono teoricamente possibili/realizzabili. È ovvio che, almeno fino ad oggi, la "salvezza" tecnologica, come pure l’ancoraggio dell’identità a questa novella religio finora del tutto inedita e quindi sconosciuta, abbia avuto dei costi elevati. Senza voler in alcun modo negare quanto ha prodotto in termini di miglioramento della qualità di vita, va però detto che essa ha determinato anche lo strutturarsi, implicitamente o forse inconsciamente accettato, di una perdita di soggettività e quindi di libertà. Non è forse vero, p. es., che per la maggioranza delle persone l’identità non si esprime nel libero pensare/scegliere il proprio modo di evoluzione, bensì nello scegliere all’interno di quanto è già stato disposto? e che, se così non avviene, la scelta di una data persona verrà ritenuta atipica, talora un po’ ironicamente originale, oppure folle?
Due ricadute specifiche sulla costruzione e sul vissuto dell’identità Fra le molteplici conseguenze prodotte dalle trasformazioni epocali descritte, sia sul processo di costruzione che sul vissuto dell’identità, mi sembra che due - forse più facilmente rilevabili dal versante della clinica psicodinamica - siano più immediatamente ricollegabili alla relazione con gli altri e quindi alla solidarietà.
Il problema del lavoro Un fattore che sta acquisendo un peso sempre maggiore nella percezione di sé, e quindi nella costruzione della propria identità. è quello della accresciuta importanza data al lavoro come condizione di identità personale e sociale. Si tratta di un problema molto ampio, perché non riguarda soltanto - come poteva essere il caso più frequente alcuni decenni fa - le persone che sono in attesa d’inserirsi nel mondo del lavoro ma, sempre più spesso, coinvolge quanti - in età adulta, ma ancora piena di potenzialità e di capacità produttive - debbono lasciare un lavoro che avevano, determinando una sorta di duplice paradosso. Da un lato, l’invasività (13) della tecnologia - forse governata unidirezionalmente - sta riducendo le opportunità di lavoro, e quindi facilita se non addirittura induce crisi di identità a vari livelli del ciclo di vita ma, al contempo, la società nel suo insieme si rivolge a chi lavora, a chi ha un’identità lavorativa, non basta cioè avere delle conoscenze o delle competenze, queste debbono essere riconosciute attraverso un meccanismo sociale (p. es. un contratto di consulenza o di lavoro). Inoltre, quello che è stato uno dei sogni più arcaici e ripetuti della persona umana - la liberazione dal lavoro per avere più tempo personale - si sta trasformando in un incubo. Queste considerazioni ci portano a constatare come la nostra realtà sociale ha fatto coincidere il concetto di lavoro con il diritto alla vita o con l’essere considerato attivo - è evidente a tutti l'equazione secondo cui chi non lavora non esiste dal punto di vista sociale: non ha diritti, non ha potere contrattuale, non ha soddisfazioni, insomma non ha più un’identità in senso pieno - rimuovendo, come sopra detto, in modo molto grave il fattore che è invece dietro ad ogni lavoro: un uomo o una donna che lavorano (14). Rispetto all’analisi marxista dell’alienazione nel lavoro (di cui ancora sopportiamo le conseguenze), noi ci troviamo oggi confrontati con un quadro psicosociale differente, quello dell’alienazione da lavoro che consiste nel completo appiattimento dell'uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse divenuta l’unico indicatore della riconoscibilità sociale e sovente anche personale, nel senso dell’autoriconoscimento della propria identità di uomo. Oggi siamo testimoni, più consapevolmente partecipi, della comparsa e della diffusione di un nuovo "tipo umano", quasi fosse il risultato di una sorta di selezione adattiva della specie. Si tratta dell’ "uomo che lavora" come vera tipicizzazione dell’essere umano, che occupa sempre più gli scenari della società e va gradualmente impregnando di sé l’immaginario collettivo. Questo tipo di individuo umano è già parte talmente radicata dell’identità sociale, che il dichiararsi disoccupato vuol dire - sotto il versante psicosociale - presentarsi come "senza identità", soprattutto nelle fasce più deboli. L’assenza di un lavoro riconosciuto e remunerato viene vissuta come assenza dalla vita, essendosi affermata la convinzione che la vita è qualche cosa di accessibile e fruibile solo attraverso il lavoro ed il denaro. È il problema dell’identità che ancora non ha trovato il modo di declinarsi nella sua singolarità psicobiologica, svincolandosi dall’obbligo di modellarsi su quanto la realtà socioculturale - soprattutto politica ed economica - propone in modo esigente e fin arrogante. Il modello vincente è quello della persona capace d’iniziativa, di rischio, d’intraprendenza, che pone in secondo piano il mondo degli affetti, delle emozioni e dell’interiorità, rispetto alla richiesta d’investire in logiche ed obiettivi che sovente debbono essere accolti in modo acritico e che, comunque, sfuggono nelle loro reali connessioni con la maturazione umana, ma per i quali - soprattutto nell’area aziendale - viene richiesto un forte senso di responsabilità e di appartenenza. Ritengo che, di fronte ad una simile pressione, sorga una forma di depressione collettiva (15), che esprime l’incapacità - e forse l’impossibilità - di decidere percorsi più individualizzati e personalizzati, aggravata dal logorio di una realtà epocale in trasformazione, la cui complessità aumenta secondo modalità poco prevedibili, mentre il fattore "soggettività" non trova spazio se non nelle forme di protagonismo e sovente di narcisismo esibito. In quest’orizzonte, prendere consapevolezza del proprio stato d’animo come melanconico o depresso è socialmente, ma anche personalmente, mal tollerato e per questo viene negato. Non sto riferendomi ad un quadro clinico in senso tradizionale, ma ad una dinamica collettiva che sollecita inconsciamente meccanismi di difesa di gruppo, o appunto collettivi (come p. es. negare l’esistenza della depressione nel senso da me ora indicato, riducendola a puro fattore di squilibri biochimici facilmente restaurabili con un po’ di psicofarmaci e una dose di "pensare positivo"), oppure l’attribuisce all’inadeguatezza delle persone, con giudizi del tipo "non avere fegato", "essere smidollati" ecc. Vorrei porre in evidenza come la riduzione alla dimensione biochimica di un vasto stato d’animo, quello appunto della depressione collettiva, non rientra nell’ambito delle erudite disquisizioni che gli specialisti (e anche i non specialisti...) offrono periodicamente come una sorta di recital diversivo sui vari scenari mediatici, ma è finalizzata - anche se non necessariamente in modo consapevole od intenzionale - a staccare il problema della depressione, e quindi dello "star male", da quello del "mal essere" e cioè dalla considerazione del problema in rapporto al come l’identità si colloca e si confronta nel mondo in cui vive. L’articolazione delle strategie difensive inconsce - e, a mio parere, collettive - non si esaurisce tuttavia nella negazione, ma determina un agire (un acting out) molto particolare, che si traduce in un rapporto compulsivo con il lavoro, talmente incistato con le nostre motivazioni profonde che quasi non ci accorgiamo di come anche le modalità di utilizzare il tempo libero - p. es. le vacanze - tendano sempre più spesso ad essere "scelte" all’interno di uno dei possibili pacchetti offerti dagli operatori del settore, rappresentando così - a ben vedere - una sorta di programma di lavoro o almeno di attività a cui adeguarsi. Già questa prima ipotesi interpretativa di gran parte della realtà sociale pone l’interrogativo su quale spazio e quale senso possa trovare l’individuo per relazioni ed impegni che sfuggano al mondo del lavoro.
Comunicare senza corpi ma solo con gli organi... Un secondo fattore di grande importanza è dato senza dubbio dalle nuove modalità con cui le persone si mettono in rapporto tra loro, soprattutto dal sistema della rete o Internet. Questo, insieme a TV e computer, è infatti uno strumento che ha determinato modalità realmente nuove di conoscenza e di relazioni, in quanto sta modificando radicalmente il nostro modo di pensare, trasformandolo da analitico, strutturato, sequenziale e referenziale, in generico, globale, e comunque - rispetto alla cultura di poco tempo fa - poco articolato e differenziato. Questa trasformazione non è necessariamente negativa, ma costituisce una frattura oggettiva tra la cultura dei giovani e le modalità - come pure, in parte, le tematiche - che vengono trasmesse dalla cultura scolastica. La cultura giovanile è quanto di più dissonante vi possa essere rispetto alla cultura scolastico-accademica, proprio perché fondata sull’esperienza vissuta e non sull’analisi delle esperienze o sulla loro spiegazione verbale, tesa all’immediatezza e non alle lunghe scansioni dei tempi dell’apprendimento scolastico. Nel processo di costruzione dell’identità giovanile, la scuola e spesso l’università costituiscono delle realtà non solo aleatorie ma museali, tanto che il frequentarle è una sorta di finzione scenica, mentre la vita autentica, quella che si esprime in emozioni globali, sta altrove: nei loro luoghi d’incontro (discoteche, p. es. ) ma soprattutto nella cultura della rete, con i suoi linguaggi, mobilità/instabilità, potenzialità senza confini, assenza di norme rigide ecc. (16) Questo ha già prodotto dei passaggi nel tipo di intelligenza, nel privilegiare la visione e, secondariamente, l’udito (17) e, di conseguenza, nella percezione e nell’autodescrizione di un’identità, in cui il soma diviene secondario o almeno parcellizzato.
Tra vivere e sopravvivere: un nuovo modello d’identità? L’impatto delle trasformazioni epocali, e in particolare dei fattori che ho sottolineato, è anche la fonte di una certa delusione che comincia dal declino dell’ottimismo fideista nella scienza, peraltro facilmente osservabile nel moltiplicarsi non solo di "medicine alternative", ma di tutta una serie di movimenti che ricercano vie alternative, di salvezza, di guarigione, di serenità, di liberazione (18). Si tratta di movimenti che esprimono un modo di sentire la vita molto difficile da decodificare e soprattutto da esplicitare, pur avendo già un suo spessore nel pensiero e nell’immaginario di molte persone. Alle generazioni più adulte e alle stesse persone che si occupano di politica, educazione e persino di filosofia o di religione, sovente sfuggono sia le angosce che sovrastano le generazioni giovani, sia i movimenti di reazione in senso costruttivo che già sono in atto. Basti pensare che fin dalle più importanti esperienze dell’esistere, come l’iniziazione alla vita sessuale e all’amore, grava l’ombra p. es. dell’AIDS, come pure la convinzione di non avere una possibilità di essere protagonisti se non a costo di competizioni e rinunce, unita alla consapevolezza che l’aumento teoricamente illimitato di opportunità è, di fatto, precluso alla maggioranza dei giovani; questo fa parte dell’opinione consapevole di moltissimi di loro che, con una visuale non del tutto priva di fondamento, guarda con angoscia latente all’evolversi del problema ambientale, alla continua riproduzione di conflitti e guerre, alla perversione di strumenti, di per sé neutri o positivi, come Internet, alla scarsa possibilità di esprimere e di far valere sul serio la propria soggettività. Per questo non è raro leggere in filigrana l’ambiguità tra il desiderio di vita e il dubbio se la vita non sia un male in sé e comunque fino a che punto valga la pena di vivere (19). Non dobbiamo lasciarci ingannare su questo punto: p. es., una buona parte della ricerca scientifica sta reagendo a sua volta alla stessa modalità di depressione collettiva epocale, in quanto quest’ultima coinvolge anche l’identità dei ricercatori e le loro reali motivazioni, inducendoli a gettarsi in una sorta di ricerca anch’essa compulsiva, fatta di annunci simili a comunicati di guerra o a spot commerciali, i cui scopi sono ben difficilmente collegabili con il ben-essere dell’umanità. In otto anni di partecipazione al Comitato Nazionale per la Bioetica sono rimasto molto dubbioso se il nostro o un qualsiasi altro Comitato bioetico riceverà mai un sostegno politico, tale da riuscire ad indicare autorevolmente dei fini "etici", p. es. alla ricerca biomedica (in senso ampio): credo anzi che, sul medio e lungo periodo, nessun Comitato bioetico riuscirà neppure a far mantenere ai ricercatori dei limiti (20). Questo scenario, dato che per molte persone il vivere o la vita sono concetti slegati da un impianto religioso e persino da una filosofia della vita, crea un versante difensivo di tipo maniacale, per cui ogni bisogno e ogni desiderio debbono trovare nella scienza la loro riposta e, al tempo stesso, la loro giustificazione. Dall’altra parte, vi è una reazione delusionale e angosciante, allorché ci si rende conto di quanto sia complessa, e per molti versi rischiosa, la potenza di un mito della scienza che sembra peraltro volere, e sovente riuscire, ad eludere qualsiasi controllo o normativa che non siano le risorse economiche. Di fronte alla consapevolezza dell’irrilevanza del singolo rispetto allo strapotere politico e tecnologico, come anche di fronte alla constatazione del moltiplicarsi delle scelte etiche offerte ma, parallelamente, della loro relativa non incidenza, si sono venute formando delle aggregazioni di persone che, in modo estremamente variegato, hanno iniziato a reagire assumendosi delle responsabilità nei confronti dell’ambiente, dei soggetti socialmente deboli, di alcuni valori come la pace e simili. Questi movimenti, che fino ad ora si sono espressi in forme cooperative o di volontariato, presentano un connettivo sovente del tutto nuovo rispetto al passato, cioè non fondato sull’appartenenza religiosa o politica e, al limite, neppure ideologica. Molto spesso, essi sono portatori di valori che vogliono scegliere in modo consapevole e autonomo, con tendenza a rifiutare ogni forma di morale che dipenda da un principio di autorità. Al tempo stesso, riflettono tuttavia molto seriamente su come, in un mondo dove tutte le scelte sono state rese tanto possibili quanto revocabili, sia necessario un forte incremento della coscienza della propria responsabilità, quale radice e garanzia della libertà e dell’autonomia della propria identità. I molteplici aspetti che abbiamo preso in considerazione non sono affatto secondari, nel loro insieme, né per una comprensione odierna dell’identità né per il suo rapporto con la solidarietà. Il giudizio sui dati esposti, infatti, induce alcuni a parlare di un’identità personale contemporanea come priva di un centro, "multiforme" e "proteica". In ogni caso, è difficile predire quali saranno le conseguenze a medio e lungo termine di un tipo di mutamenti, che si traducono soprattutto in un aumento della competizione individuale e della conflittualità sociale, magari latente. Fin d’ora, un dato è comunque evidente, che cioè questo meccanismo, se per un verso produce ricchezza, per l’altro crea esclusione. Si può allora scegliere di sottolineare gli aspetti negativi della cultura laica, razionalista, individualista della modernità, aspetti che sono sotto gli occhi di tutti. Oppure, al contrario, si può considerarne con equilibrio, insieme a quelli negativi, anche gli aspetti positivi. Ma se vorremo capirne qualcosa di più dovremo probabilmente liberarci dall'abitudine a ragionare soltanto in termini di agenti collettivi, di enti anonimi, per prendere invece in considerazione la tematica del costruirsi dell’identità personale, e quindi il problema del modo di porsi di ciascuno. Da un’angolatura strettamente psicodinamica e perfino direi clinica, partendo dall’evidenza che, oggi assai più di ieri, l’identità non è data alla nascita ma deve essere costruita in un ambiente che senza dubbio produce differenze, marginalizzazioni ed esclusioni, possiamo però cogliere anche in tutte queste dinamiche il segnale di un’emancipazione più vasta, di un nuovo modo di vivere il processo d’individuazione (21). Giddens afferma appunto che attualmente, in un ordine sociale globale - che egli chiama "post-tradizionale" - il costruire in modo libero la propria identità è un progetto, entrato nella cultura come compito individuale inedito e aperto al rischio. È ben noto che non tutti hanno, a questo riguardo, uguali opportunità, tuttavia gli aspetti emancipativi sono, nell’insieme, prevalenti. Nella nostra società, che si presenta ovunque in grande cambiamento, le prospettive di autodeterminazione (ovvero di costruzione di sé, di sviluppo personale secondo le proprie inclinazioni) che scorrono di fronte agli occhi dei singoli - in particolare dei giovani - sono migliori rispetto al passato, soprattutto se confrontate con le società tradizionali, con gli aspetti di chiusura che le caratterizzano, come ben sappiamo. La tendenza alla re-invenzione delle identità individuali, che consegue al dissolversi dei modelli di identità che una determinata società - magari attraverso la mediazione dei genitori - aveva previsto e precodificato, è un fenomeno che, per quanto produca nuove drammatiche diseguaglianze, pure ha contribuito e soprattutto contribuisce a liberare le potenzialità umane. Di queste, la solidarietà è un indice e al tempo stesso una funzione, nell’ambito di un paradigma nuovo di costruzione dell’identità. È appunto all’interno di queste osservazioni che la riflessione psicodinamica ha rivisitato e recuperato alcuni dati, riguardanti la relazione tra soggettività e l’interesse per gli altri. Il termine solidarietà, soprattutto in riferimento all’identità, non è ancora generalmente usato in psicologia. I primi studi si sono attestati sull’altruismo o anche sul cosiddetto comportamento pro-sociale, partendo dapprima da riferimenti di tipo etologico (22) per estendersi poi all’ambito della psicologia sociale (23). Già Freud aveva tuttavia indicato nell’altruismo un compito evolutivo, necessario per il superamento delle posizioni altruistiche che sono tipiche dello stadio narcisistico dello sviluppo. A partire da questa considerazione, l’aspetto del comportamento altruistico è stato poi approfondito da autori come E. Erikson, S. Sullivan e altri, fino a produrre ricerche e pubblicazioni molto approfondite che considerano proprio la funzione "necessaria" dell’interesse altruistico o del comportamento pro-sociale per il processo di maturazione dell’identità (24). Il risultato più stabile e ricorrente degli studi sul comportamento pro-sociale - e quindi sulle diverse forme di solidarietà, incluse quelle del volontariato - è tuttavia l’emergere di un quadro estremamente complesso e variegato, per quanto riguarda le motivazioni di questi comportamenti, e quindi il loro rapporto con l’identità. Mi sembra, tuttavia, che da tale complessità sia anche possibile enucleare alcuni elementi che danno forma al tumultuoso intreccio degli attuali processi di cambiamento riguardo al nostro tema. Le generazioni in crescita - forse ancor più di quelle degli anni ’68 - sentono, infatti, in termini molto acuti il tema della partecipazione, come tentativo di risposta al clima caotico di tensioni, sottese a questo momento culturale e sociale: un narcisismo che sembra rinnegare ogni legame sociale che non sia di tipo strumentale, la ricerca di forme di fusione totalizzante in cui possa annegare l’individualità, la tendenza ma anche la spinta all’aziendalizzazione della propria vita o alla chiusura in tribù a forte inclusione, con esclusioni altrettanto forti. È proprio attorno a questi nuclei caldi che le persone - soprattutto, ripeto, i giovani - sembrano in grado di trovare motivi di aggregazione, vivendo momenti d’intensa e convulsa ricerca di un modo di ri-comporre creativamente le tensioni, facendole incontrare e scontrare fino a generare qualcosa d’ignoto ed inedito eppure più soddisfacente rispetto al senso stesso dell'esistere. Da questo punto di vista, il dato più rilevate è la diffusione e l’incremento, già in atto da qualche anno, di quella modalità di solidarietà che è il volontariato (25). In questo contesto, molte persone giovani hanno trovato e trovano la possibilità d’intravedere e d’impegnarsi in un percorso di individuazione, facilitate dall’essere attivamente partecipi, in uno spazio dove il senso non viene organizzato secondo i criteri della razionalità strumentale e dell’impersonalità burocratica, ma quasi si fonda sul mondo delle motivazioni e delle relazioni, opponendolo criticamente al sistema sociale e politico. A quest’ultimo, infatti, viene contrapposta una sorta di microsocietà giovanile autonoma, esente da quella competitività e dalla frenesia produttiva che caratterizzano il mondo del lavoro o comunque della società, per creare una sorta di ambiente straordinariamente fraterno e solidaristico, con una tendenza generale ad elaborare molto pacificamente il conflitto (26). La solidarietà diviene allora strumento - e al tempo stesso, possibilità - di condivisione, di costruire insieme percorsi di identità e d’impegno, la cui caratteristica non è tuttavia di natura primariamente etica, bensì etico-affettiva, cioè di un'etica che si radica nell'affettività. Questi ambienti hanno consentito una cultura aperta alle informazioni più ampie sulle varie diversità, dall’omosessualità, alla malattia mentale, alle differenze etniche, ecc. A mio parere, proprio il clima non conflittuale consente a molti giovani di confrontare la propria identità con quelle diversità che sono insite nel processo d’individuazione di ciascuna persona, imparando a guardare in faccia le loro ansie, le paure, i pregiudizi e quanto costituisce, in fondo, la loro Ombra o l’ambito del rimosso (27). Da questi percorsi si genera molto spesso, dapprima la sensazione e poi la convinzione che vale la pena di abbandonare il livello della soddisfazione narcisistica immediata o la paura di essere come sopraffatti dall’emozione del legame con ideali e persone, in vista della costruzione di un progetto che diviene un valore di riferimento certo e dove la propria identità può finalmente sentirsi "appartenente" e "libera" al tempo stesso. Oggi è già possibile riscontrare come, in questi ambienti, la soggettività riesca ad assumersi responsabilità di tipo parentale, l'attitudine cioè a ‘farsi genitori’ di quelli che sono in situazioni di disagio, che si dilata poi in una forma più generale di comprensione e compassione - ripeto, fondata prevalentemente sull’affettività - verso tutto ciò che di prezioso e di fragile occupa l’immaginario di questa generazione, dall’ecologia all’emarginazione. Queste modalità di costruzione dell’identità, inclusa la tendenza a coniugarla con la solidarietà, pongono certamente alcuni interrogativi soprattutto perché, in varia misura, si presentano slegate da filosofie della vita - e, ancor più, da ideologie o da valori ideali - che siano esplicitati e condivisi. Anche a voler considerare questi percorsi d’identificazione come espressioni di una sorta di egoismo maturo, che cerca il benessere altrui in quanto funzionale al proprio, questo tuttavia non esclude affatto che vi sia qui un terreno precursore per una maturazione ulteriore. Del resto, sarebbe forse auspicabile poter superare il falso dilemma tra egoismo e altruismo, per accedere ad una prospettiva che consideri i rapporti intersoggettivi come una trama in cui ciascun soggetto e ciascun sistema relazionale si costruisce e si definisce nell’ambito della relazione stessa. Anche i contesti familiari concreti delle nuove generazioni, così diversi da quelli del passato, dovrebbero costituire oggetto della nostra riflessione. Poiché la nostra è prevalentemente una società di figli unici, i giovani di oggi hanno scarsa esperienza dell’avere fratelli o sorelle. Questo potrebbe in parte spiegare l’impreparazione, e persino lo sconcerto, di fronte a quelle forme di rivalità, di lotta, ma anche di peculiare cooperazione, che era tipica della relazione fraterna soprattutto infantile. Da questo modo di crescere soli nasce anche la mancata esperienza delle caratteristiche d’impetuosità e di violenza della relazione tra fratelli, che determina in seguito una certa inadeguatezza nel fare i conti con il conflitto, con la violenza, con la differenza che contesta. Da questa, prende avvio la ricerca di una microsocietà in cui il gruppo sia davvero molto omologato e chieda di mettere in gioco, non le diversità, bensì gli aspetti comuni. Il fatto che il progetto sia affettivo e non ideale, concreto e non utopico, forse rappresenta anche una difesa contro le angosce indotte dalla complessità. La gente è in fuga dalla complessità, ne è spaventata, e questo spiega forse questa ricerca di forme di partecipazione che siano - a livello sociale - l'equivalente di quanto si realizzava in famiglia, dove regnavano pace fra le generazioni e una forte adesione al bene comune; in altri termini, la famiglia - considerata come microsocietà - è partecipativa e solidale, com’è dimostrato dal fatto che è in grado di organizzare lunghissime convivenze pacifiche; si è formata, pertanto, la tendenza ad esportare nella società tale modello, tuttavia con l’annesso limite che l’orizzonte della partecipazione si estende fin dove può spingersi il processo di familiarizzazione e lì poi si chiude. Come già ho detto, in rapporto alla soggettività, la solidarietà viene considerata (almeno dalla maggioranza dei soggetti) una funzione di espressività creativa ed anche un bene, tuttavia senza legami chiari e solidi con un sistema di valori o con una ideologia. Questa situazione presenta rischi evidenti: prevalenza di codici affettivi e parentali che tendono a privilegiare i propri figli e ad escludere chi non venga riconosciuto come tale, nuove polemiche sociali, rottura della solidarietà sociale in senso allargato. Tali chiusure sono d’altronde accentuate - se non addirittura esasperate - dall’opposta tendenza dell’organizzazione internazionale a formare aree comuni sempre più ampie, connotate da leggi, moneta, regole di mercato ecc. molto forti, ma che alimentano il vissuto d’insignificanza dell’identità soggettiva e non sembrano presentare, fino ad oggi, proposte valide per una filosofia dell’esistenza...e dei rapporti.
Identità e solidarietà: un invito alle generazioni adulte Nell’ambito dell’embriologia è noto come, nella generazione di nuovi tessuti o funzioni, quelli già formati e ben delineati sono più forti e resistenti, ma meno plastici, mentre quelli nuovi sono ricchi di potenzialità e di plasticità, ma intrinsecamente fragili. Se osserviamo lo strutturarsi di un nuovo scenario in cui s’inquadra il processo d’identità dei giovani contemporanei e consideriamo, non solo il suo rapporto con la solidarietà, ma anche la funzione che quest’ultima ha acquisito nel processo d’individuazione, allora le generazioni più adulte - e soprattutto le agenzie di socializzazione e di promozione dei valori etici - debbono evitare di guardare al futuro come... allo spostamento in avanti o alla proiezione dei propri desideri tuttora irrealizzati, riguardo a quella che si vorrebbe fosse l’identità dei giovani ed il loro legame con i valori e con la solidarietà. Aver chiare le trasformazioni epocali in atto - e, soprattutto, il concetto dinamico di natura o di creato - implica la rinuncia ad interpretazioni generali ed astratte riferite a processi o a meccanismi di un ‘altrettanto astratta e universale "natura umana", quasi già data nella sua forma compiuta. Il nuovo ed inedito legame fra costruzione dell’identità e solidarietà - proprio e persino in questa forma laica o secolarizzata che spesso, se non addirittura prevalentemente, osserviamo - esprime quel processo di ricerca del significato che attiva ogni scelta umana, non più intesa come mitica vicenda di un eroe solitario, bensì come espressione di una storia costruita da testimoni consapevolmente partecipi, la cui esistenza si dipana all’interno di reti di scambi comunicativi (al limite delle micro-culture) che danno un senso condiviso alla vita e ne catalizzano i processi psichici e psicosociali. Questa analisi delle trasformazioni epocali porta di fatto ad una ridefinizione degli ambiti di pubblico e privato, come pure dei loro rapporti reciproci: ad una nuova concezione del senso di responsabilità verso la comunità si annodano esperienze, passate attraverso valori post-materialistici, come l'intimità e le relazioni personali, la solidarietà, l’espressività, la creatività. Si riproduce un’esperienza che - sia pure solo analogicamente - ha caratterizzato l’inizio della chiesa cristiana e cioè che prima veniva l’esperienza della fede e poi la riflessione o la dottrina su questa esperienza, dove ‘prima’ e ‘dopo’ hanno qui un valore motivazionale e connesso al vissuto dinamico più autentico e profondo. Per orientarci in questi processi inediti credo che siano dunque validi i criteri di osservazione proposti da A. Scacciati e P. Paolicchi (28) per le loro ricerche sul tema: 1. è necessario osservare le dinamiche dei nuovi percorsi di costruzione dell’identità con un approccio funzionale interpretativo delle condotte e delle motivazioni che le sostengono, senza precodificazioni e precomprensioni. 2. Si tratta di accettare l’odierna prevalenza dei nessi e delle relazioni di tipo "simbolico" tra i differenti e variegati processi di individuazione che osserviamo e nel loro mutevole e talora frammentario collegarsi col senso di responsabilità, con il bisogno di senso e quindi con la solidarietà accettando, almeno per il momento, che tali processi non siano connessi da teorie, dottrine o visioni organizzate della vita, quanto piuttosto da lunghi e sovente dispersivi percorsi; in essi il valore viene accolto per frammenti non seguendo un determinato sistema ordinato secondo una coerenza logico-formale – come sarebbe stato più usuale per le nostre generazioni – bensì mediante esperienze che si presentan più o meno come un puzzle o oppure come una narrazione, in cui far emergere e forse anche trovare spiegazioni dei modelli culturali, delle motivazioni e dei comportamenti "altri", sovente fino ad oggi inediti. 3. Infine, l’ambito dell’identità solidale si colloca - nel quadro della produzione di sistemi di significato - nello scambio comunicativo tra individui che condividono un comune universo di esperienze, entro il quale i significati e gli scopi vengono ricostruiti e poi destrutturati e nuovamente rimessi assieme, ma a livello soggettivo, in una continua interazione con tutti coloro che entrano in relazione con lui. Si viene costruendo così un tipo di identità (o, se preferiamo, di personalità) che, riguardo (anche) al valore solidarietà, non può essere confrontata con le altre sulla base di un pattern di tratti stabili o di atteggiamenti specifici e ancor meno dall’appartenenza ad una qualche dottrina della solidarietà e della responsabilità. Si tratta, invece, di un insieme di esperienze di vita che producono una generale apertura verso gli altri e forniscono motivi ed opportunità di dedicare il proprio tempo e la propria attenzione con altri e a favore di altri, per un certo periodo o stabilmente, impegnandosi in modi ed attività diverse. Credo sia importante sottolineare ancora una volta che non dobbiamo aspettarci di trovare sistemi di significati e di valori, esteriorizzati ed articolati in principi astratti e universali, ma "ideologie vissute" o "storie di vita", sorrette da intrecci motivazionali e da atteggiamenti affettivi e cognitivi capaci di esprimersi in scelte verso l'azione ai quali, proprio il loro sorgere nel concreto scambio comunicativo con un gruppo, dona (nel sentire del giovane) legittimità e validità oggettiva. Per questi percorsi, si produce una percezione della propria identità in rapporto con gli altri, oltre i confini della famiglia o di altri piccoli gruppi stabili, ed il vivere un senso di responsabilità verso talune aree esistenziali, che non trova altro spazio se non nel sentirsi vicini agli altri e nel farsi carico parziale dei loro problemi. Questo tipo di identità non può rapportarsi con l’ethos, se non mediante i percorsi del linguaggio più diretto e semplice della solidarietà, vissuta come modo - non solo giusto - ma personalmente apprezzabile e soddisfacente di vivere con gli altri. Quando questi percorsi sono seguiti con impegno leale e tenace, allora la nostra identità non chiede più all’altro/altri conferme, né senso di vita, e diviene dunque possibile instaurare relazioni autentiche con chiunque perché egli non dipende più inconsciamente da noi e noi non siamo più determinati dal suo comportamento. A questo punto, siamo diventati così forti da poter manifestare i nostri bisogni al gruppo con cui lavoriamo, chiedendo dignitosamente aiuto, senz’alcuna garanzia che domani sarà lo stesso gruppo e neppure con la difesa della comune ideologia o filosofia esistenziale; avendo superato l’aspettativa che la persona che abbiamo di fronte ci capisca, ci accolga secondo il nostro desiderio, possiamo finalmente guardare all’altro come realmente altro, impariamo ad accoglierci reciprocamente con il limite creaturale che "siamo": né la nostra persona, né quella dell'altro ci appaiono più come un peso ingombrante. Quando l’autocoscienza dell’identità ha raggiunto questi livelli, non abbiamo più la preoccupazione di difendere il nostro spazio, né quella di invadere lo spazio altrui: il sentirci bene con noi stessi e la riconciliazione con la nostra interiorità consente, a sua volta, all’altro di sentirsi accolto senza giudizi né pretese e la relazione diviene adulta e matura. Si sperimenta allora il vissuto della libertà, l’assenza della paura, che cede alla consapevole fiducia che a ciascuno è dato liberalmente il diritto di essere ciò che realmente è, in altri termini si raggiunge la solidarietà che, quale frutto della verità dell’identità, diviene un elemento fondante della verità delle relazioni.
Note
(1) Per avere un’immagine intuitiva ma concreta di questo fenomeno, basta pensare a tutto il problema demandato alla bioetica, soprattutto nel campo della medicina, per non parlare del mondo del lavoro. Cfr. anche WILFRED F., Identità soppresse, alienate e perdute, in: "Concilium"2/2000, p.44-55 back (2) MUSSCHENGA A.W., VAN HARSKAMP A.. (edd.), The Many Faces of Individualism, Peeters, Leuven 2000. back (3) PINKUS L., Senza radici? Identità e processi di trasformazione nell’era tecnologica, Borla, Roma 1998. back (4) Una chiarificazione molto accurata dei termini che concernono l’identità, il sentimento d’identità, il Sé e altre espressioni si trova in: JERVIS G., La conquista dell’identità, Feltrinelli, Milano 1997, Appendice. back (5) ERIKSON E.H., The problem of ego identity, in: "Journ. Am. Psychoan. Ass.", IV, 1956, 57, p.56-119. back (6) JACOBI J., The way of individuation, engl.tr., Hodder & Stoughton, London 1967. back (7) TREVI M., Introduzione, in: JUNG C.G., L'Io e l'inconscio, Boringhieri, Torino 1967, p.9. back (8) Va rimarcato come per Jung l'individuazione è, o dovrebbe essere, una ricerca di fedeltà alle proprie disposizioni interiori, un itinerario di autorealizzazione, l'obbedienza ad un appello qualitativamente elevato dell’éthos.; Cfr. GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 1984; FERRARA A., L’eudaimonia della vita, Liguori, Napoli 1992. back (9) MIETH D., Continuità e cambiamento degli orientamenti ai valori, in: "Concilium" 3/1987, p. 73-87; POPE S., Expressive Individualism and True Self-Love, in: "Journ. of Religion" 71, 3 (1991) P. 383-399. back (10) PINKUS L., Senza radici? Identità e processi di trasformazione nell’era tecnologica,, cit. back (11) PINKUS L., Tossicodipendenza e intervento educativo, Erikson, Trento 1999, cfr. Appendice. back (12) GALIMBERTI U., La psicologia analitica nell'età della tecnica, in: AA.VV., Presenza ed eredità culturale di C. G. Jung, Cortina, Milano 1987, p.137-156. back (13) BELLOTTO M. (a cura di), Valori e lavoro, F. Angeli, Milano 1997. back (14) TOTARO F., Non di solo lavoro, V&P, Milano 1999. back (15) EBRENBERG A:, La fatica di essere se stessi. Depressione e società., Einaudi, Torino 1999. back (16) SIMONE R., La terza fase, Laterza, Bari-Roma 1999; CANTELMI T. e coll., La mente in Internet, Piccin, Padova 2000. back (17) SARTORI G., Homo videns, Televisione e post-pensiero, Laterza, Bari-Roma 1998 back (18) ALETTI M. (a cura di), Religione o psicoterapia?, LAS, Roma 1994. back (19) PELLIZZARI T., 30 senza lode, Mondadori, Milano 1999; NATOLI S., Progresso e catastrofe, Marinotti, Milano 1999. back (20) Non a caso, anche dove il Comitato Nazionale per la Bioetica si è pronunciato, i diversi Ministri continuano a crearsi comitati ad hoc nell’ambito dei diversi dicasteri! back (21) Faccio qui ampio riferimento al testo di G. Jervis, La conquista dell’identità, cit. back (22) SMUTS .B.B. e coll. Eds., Primate Societies , The Univ. of Chicago Press, Chicago. London 1987;. HINDE A. R., Individui, relazioni e cultura, tr.it. Giunti Barbera, Firenze 1989- back (23) MCGURK H. (Ed.), Lo sviluppo sociale del bambino, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1984; FONZI A., Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze 1997. back (24) SCHROEDER D.A. et al, The psychology of helping and altruism, McGRAW HILL, New York 1995; SOBER E., WILSON D.S., Unto others, Harvard Univ. Press, Cambridge (Massachussets) 1998. back (25) Ho fatto ampio riferimento ai contributi contenuti in: "Animazione sociale", febbraio 1999. back (26) Va osservato che le bande trasgressive, che privilegiano la guerra come soluzione ai conflitti, sono effettivamente una entità numericamente trascurabile. back (27) Cfr. GALIMBERTI U., Dizionario di psicologia, utet, Torino 1992. back (28) SCACCIATI A., PAOLICCHI P., Il volontariato come produzione di identità, in: "Orientamenti Pedagogici" 45 (1998) p. 122-136. back |