Semantica dialettica della libertà

Francesco Botturi

Dipartimento di Filosofia, Università Cattolica di Milano

 

I. Il concreto della libertà

Occorre un pensiero del concreto della libertà, ovvero un'idea della libertà sorpresa nel dinamismo del suo effettivo esercizio. Questa prospettiva permette forse di venire a sapere, attraverso un’indagine fenomenologico-ontologica, che cosa si predichi della libertà còlta nella sua esperienza, prima d’ogni ulteriore, eventualmente ontologica (J.L. Nancy) o metafisica (L. Pareyson), predicazione. L’ontologizzazione della libertà - l’essere o l’esistenza come libertà - in realtà è pensabile solo a partire dall’esperienza antropologica della libertà, così come non è possibile il pensiero dell’essere al di fuori o prima dell’esperienza degli enti. In questo senso una semantica della libertà è indispensabile e di fatto sempre eseguita, anche quando si pensa (con e oltre Heidegger) in direzione di una desoggettivazione della libertà (1).

La tesi fondamentale che l’esperienza sembra suggerire è che la libertà si dà solo "al plurale", cioè come organismo dialettico di molteplici significati: "organismo", in quanto ogni significato richiama ed esige altro significato e "dialettico", in quanto il passaggio da un significato all'altro è mediato dal negativo, cioè dall'insufficienza di ogni significato a dire l'esistenza della libertà.

Che il significato della libertà sia plurimo, non dovrebbe meravigliare, dal momento che la libertà ci appare come modalità dell'agire umano in quanto umano. Quando si dice libertà non si può intendere anzitutto che "agire libero". Ma l'agire è complesso e dunque plurimi saranno i modi della sua predicazione di libertà. Questo forse permette di conciliare a mo’ di paradosso gli aspetti contrastanti dell’essere-libero in quanto attivo e passivo, autonomo e dipendente, illimitato e limitato, ecc. Si tratta, dunque, di uscire dalla strettoia dell’univocizzazione della libertà, che, procedendo per esclusione di significati pur attestati dall’esperienza, produce antinomie insolubili. Altro invece è il discorso quanto alla composizione dei plurimi significati, che potrebbe aver bisogno del ricorso ad una logica del paradosso per potersi effettuare (2).

Se il concreto esercizio dell'agire libero è plurale e dialettico, allora queste caratteristiche definiscono anche la fisiologia dell'essere libero e, per opposizione, si trovano definite anche le situazioni di scissione patologica.

 

II. Libertà come automotivazione e (perciò) come autodeterminazione

L'autodeterminazione è la definizione analitica della libertà: lo spazio della libertà si apre là dove non vi è eterodeterminazione, ma un certo agire è in grado di autoconfigurarsi e di dirigere se stesso.

L'essere in grado di sembra dunque la prima e fondamentale categoria, intrinseca all'agire in quanto libero: autodeterminazione significa che l'agire è dotato della capacità di, cioè del potere di decidere di sé. La libertà appare anzitutto come esercizio di un potere, che traccia il confine tra ciò che dipende dal soggetto e ciò che non vi dipende e che, quindi, produce la distinzione tra eventi di prima ed eventi di terza persona.

Più precisamente, il potere che è la libertà, è il potere dell’automotivazione e conseguentemente dell’autodeterminazione e della scelta (come è ancora da chiarire). La libertà coincide con l’energia di attività assoluta senza antecedente, di cominciamento originario, di pura iniziativa. È il tema pareysoniano dell’"inizio", che è tale se "comincia dal nulla", se "è un puro inizio nel vuoto di tutto" ciò che non è libertà; non nulla metafisico - qui si porrebbe l’esigenza di un chiarimento con Pereyson - ma nulla d’altro che non sia libertà. Com’egli dice, "solo la libertà precede e può precedere la libertà", perché "sia come antecedente che come conseguente la libertà non tollera e non implica che la libertà" (3). Così che l’improcedibilità della libertà da un nulla di libertà esige che o la libertà sia metafisicamente assoluta (non solo come inizio) oppure che provenga da altra libertà, cioè ne sia un’immanente partecipazione (4). Fondamento della vocazione della libertà ad essere rapporto ad altra libertà, come si dovrà vedere.

Non è dunque la scelta al centro dell’essere della libertà, ma il suo autopossesso, il suo essere al principio del proprio agire e in questo senso il suo essere spontanea ed autonoma, espressione di sé stessa e regola a se stessa. Questa d’altronde è la linea speculativa prevalente che da Plotino va ad Agostino e a Hegel e Schelling, ma che va anche da Aristotele a Tommaso d’Aquino. L’analisi aristotelica del volontario, che pone nell’agente il principio, si applica all’uomo, rendendolo "padre" delle proprie azioni, in forza dell’intelletto che, distanziando l’agente dall’immediatezza della percezione, ridescrive e interpreta il dato esperienziale e così instaura lo spazio dell’indipendenza e della direzione del desiderio (5). A sua volta Tommaso, considerato generalmente per la fondazione della libertà di scelta sulla disequazione di bene totale e beni parziali, organizza l’idea di libertà intorno all’autonomia del volere basata sul carattere riflessivo del giudizio pratico e ultimamente sulla disponibilità che la volontà ha in proprio del suo stesso esercizio. In opere della maturità (De malo e Summa theologiae) (6) - il raffinamento della dottrina dei rapporti tra intelletto e volontà, pensati non più in termini di interazione causale tra realtà autonome, ma in termini di immanenza ilemorfica fa evolvere la teoria dell’atto libero. La distinzione tra la considerazione dell’atto della volontà (profilo dell’exercitium) e il suo oggetto (profilo dell’obiectum specificatore) serve a delineare un modello teorico in cui il rapporto della volizione con l’atto di scelta (volitio-electio) è incluso nel più ampio rapporto della volontà con la sua volizione (voluntas-volitio). La volizione, infatti, in forza della sua intrinseca e riflessiva razionalità, anzitutto si possiede e governa se stessa, costituendo lo spazio essenziale della libertà, che trova quindi espressione determinata nella scelta (7).

Anche in Tommaso, dunque, a questo livello in convergenza con Plotino, Agostino e Hegel, il libero arbitrio viene fatto insidere totalmente nella volontà che muove se stessa, così che, se con Pareyson è vero che la libertà è "inizio" e "scelta", è anche vero che i due termini non stanno sullo stesso piano, ma sono l’una la premessa e l’altro la conseguenza. Il costitutivo della libertà è, infatti, quell’automotivazione, che si fonda sulla trascendentalità riflessiva dello "spirito", che la rende principio assoluto di iniziativa. Se (e solo se) l’appetizione umana è intellettualmente innervata, la sua illimitata apertura, orizzonte d’ogni sapere e d’ogni agire, impedisce ogni motivazione "esterna", perché nulla può essere dato a lei che non sia originariamente in lei. Nulla perciò può pre-determinarla. L’apertura poi, in quanto trascendentale, è riflessiva e quindi l’iniziativa è essenzialmente volta verso se stessa.

In tal modo non è la scelta il costitutivo della libertà; la scelta piuttosto ne è l’espressione, come esercizio graduato della libertà nella relazione della sua struttura trascendentale con le determinazioni categoriali dell’esperienza. Esercizio graduato però, perché vanno ben distinte l’elezione e la decisione. Se l’elezione è cernita tra più possibilità, la decisione è invece la più radicale autodeterminazione per il sì o per il no (8). Eligere e velle non sono affatto coestesi. L’elezione è l’autodeterminazione che si configura in rapporto alla molteplicità degli oggetti; la decisione è l’autoconfigurazione che la libertà prende in rapporto a se stessa. In tal senso l’elezione è implicazione non necessaria della libertà, così che potrebbe darsi in linea di principio una condizione in cui essa fosse sospesa o annullata, senza che l’esercizio della decisione sia tolto e tanto meno sia tolta la libertà. Di questo si ha una premonizione nella condotta virtuosa, che connaturalizzando il bene all’uomo virtuoso rende la scelta ‘leggera’ e quasi superflua oppure nel caso più impegnativo in cui il contenuto di elezione susciti nel soggetto un’intensità di desiderio tale da renderlo esclusivo, per così dire senza paragone, dunque unico. È il caso dell’amore umano, quando raggiunge un gradiente di forza tale che crescendo si allontana sempre più dall’iniziale condizione di e-lezione per diventare pre-dilezione valida non in forza di confronto, ma di per sé, quasi che la volontà scegliendo l’amato decidesse immediatamente di sé: quanto più forte è il valore di ciò che è amato, tanto meno esso è oggetto di elezione e tanto più è prossimo al decidersi della volontà come tale, perché l’amato quasi si identifica con l’intimo centro dell’amante. Per questo l’enfasi portata sulla scelta d’elezione come sinonimo di libertà è in ogni caso sintomo di un’esperienza rimasta esteriore a se stessa, non ancora consapevolmente risalita al suo nucleo interiore.

La libertà perciò resta intatta anche quando non vi siano più possibilità, in condizioni di "scelta obbligata", cioè di semplice decisione della libertà. E ciò sarebbe vero tanto più in presenza del Bene totale, secondo la rappresentazione cristiano-medievale della beatitudine, in rapporto al quale l’elezione non avrebbe senso (essendo in esso compresa ogni bontà). Ma non per questo non avrebbe senso la decisione; al contrario, proprio l’interesse supremo suscitato dal Bene provocherebbe la decisione fondamentale e dunque l’esercizio estremo della libertà (9).

Il potere di autodeterminazione significa l'indipendenza dell'agente dagli antecedenti dell'azione ed anche dalla rappresentazione dei suoi conseguenti: in quanto autodeterminata l'azione si pone per se stessa, libera appunto da qualunque dipendenza. In questo senso si deve anche dire - in senso contrario al comune sentire - che l'azione autodeterminata è essenzialmente ir-responsabile, cioè non è dipendente da una risposta dovuta a qualcosa che l'anteceda o la segua. Al di là della retorica della "scelta responsabile", bisogna accettare la sfida dell'esistenzialismo di un Sartre o di un Polin, che evidenzia la contraddittorietà esistente tra la libertà e il riconoscimento di una tavola di valori precedente e preminente la libertà stessa. Nella sua accezione di automotivazione, la libertà rimane libera nella misura in cui non è determinata da altro, neppure da quella determinazione che è il vincolo nei confronti di valori che non siano identificabili con la libertà stessa; se il valore della libertà è la sua autodeterminazione, la libertà non può essere vincolata se non da se stessa.

Non muta la situazione fondamentale il dire con Kant che la ragion pratica, obbedendo alla legge, obbedisce a se stessa e quindi che la libertà è vincolata dall'indicazione della ragione. Se, infatti, la libertà esaurisse il suo significato nel suo potere, la ragione non potrebbe indicare alla libertà null'altro che il seguire la sua natura di potere di decisione. L'unico principio che questa libertà potrebbe riconoscere sarebbe dunque la sua "volontà di potenza", il suo potere di autodisposizione. Non si può dunque far coincidere la libertà con il suo potere di autodeterminazione e poi invocare un qualche senso di responsabilità per le sue scelte: perché appaia la figura della responsabilità, è necessario che si apra un diverso scenario della libertà.

In quanto principio di indipendenza, l'automotivazione è anche criterio di identità. Se la libertà traccia il confine tra ciò che dipende e ciò che non dipende da sé (gli eventi di prima e di terza persona, come si accennava), tale libertà è funzionale all'emergenza e all'espressione dell'identità soggettiva nella sua distinzione dall'alterità. Senza la libertà di automotivazione, sperimentata nell’autodeterminazione, non sarebbe possibile il senso dell'altro, meglio di altri, e quindi non sarebbe possibile neppure la relazione. Non per nulla la percezione del proprio potere di decisione è fondamentale per l'autoidentificazione, a livelli diversi, del bambino e dell'adolescente.

Ma la libertà come potere è identicamente il crinale del suo abisso. Essa è insieme il momento genetico e quello letale. Senza di essa non vi sarebbe affatto libertà, ma con essa soltanto la libertà va incontro alla sua autodistruzione. Il male della libertà umana sta infatti nella presunzione che la sua potenza d’autorelazione e il bene si identifichino. In tal senso il male per la libertà, la sua "malvagità", non è nell’ordine del difetto, ma della sovrastima. L’autoidentificazione con il bene pretende di istituire la libertà in una condizione di istantanea perfezione. Il caso Kirillov potrebbe essere riletto da questo punto di vista, come paradigma dell’identificazione del potere della volontà e del bene e quindi della necessità suicidaria di eliminare ogni condizione di dipendenza e di imperfezione. L’assolutezza della volontà è identificata con la sua perfezione e dunque con la sua unicità ed autosufficienza. Il male per la libertà non è qualcosa che le preesista e che essa scelga, è bensì - nella sua radice - il suo cattivo esercizio, un esercizio chiuso nella sua autorefenzialità.

Il potere assoluto dell’automotivazione, invece, si declina nella condizione relativa della scelta, nella sua duplice forma della decisione e dell’elezione: la libertà deve decidere di sé e deve eleggere l’altro da sé. Questo significa che il potere del soggetto libero è finito, perché non è la sua scelta e dunque non coincide e non può mai coincidere con se stesso. In altri termini, la finitezza della libertà comporta il vincolo della trascendentalità automotivantesi alla determinazione spazio-temporale e categoriale del suo svolgimento storico.

A questo livello prende corpo il tema dell’opzione fondamentale, che la libertà deve compiere quanto al suo orientamento di senso e secondo l’interpretazione che essa fa di se stessa: opzione tra la presunzione della sola autorelazione e l’umiltà dell’eterorelazione, tra "l’inquietudine dell’infinità astratta" (10) del puro volere e la pazienza della sua relazione assiologica.

Perciò fa parte della fisiologia antropologica una dimensione che sembra speculativamente e culturalmente scomparsa, ovvero la strutturale condizione di prova in cui è posta la libertà: la spontaneità trascendentale della libertà è anche intrinseca messa a prova della libertà quanto alla sua disposizione a percorrere l’arco intero della sua capacità e di reggerne il peso. Solo ciò evita di trasformare la spontaneità radicale della libertà in un criterio pratico di insipiente spontaneismo.

Ciò che contraddice la libertà non è, dunque, la necessità, che ne è invece il contrario - che entra in composizione con la struttura complessiva e l’esercizio concreto della libertà finita -, ma l’inibizione della sua iniziativa originaria ed è il male - il male quale delirio d’onnipotenza della sua potenza finita - ad innescare tale processo di autocontraddizione; come una sorta di (misterioso) autoinganno della libertà, che andando a cercare la sua pienezza d’esercizio nel deserto dell’astrattezza, finisce per inibirlo.

 

III. Libertà come autorealizzazione

Al contrario, la questione della scelta coincide con la questione del bene. Tramite la scelta la libertà risulta vincolata ad un rapporto di convenienza/sconvenienza con il proprio oggetto. Se dal punto di vista della forma, cioè dell'energia e del potere, la scelta è e non può non essere in-dipendente; dal punto di vista del contenuto la libertà non può non fare i conti con gli effetti della scelta sull'agire stesso e sullo stato ontologico del soggetto. Qui la natura attributiva della libertà mostra il suo rilievo: autodeterminandosi la libertà decide dell'azione e del suo soggetto.

Già a livello della decisione se l'oggetto della scelta non è che lo scegliere, questo stesso viene a costituire il contenuto di valore rispetto al quale la scelta prende posizione. In ogni caso la scelta ha a che fare con il problema della verità pratica della scelta. Tanto più la cosa si evidenzia a livello dell’elezione di singoli contenuti, che sono beni anzitutto perché hanno a che fare con l’ordine dei bisogni.

Se, dunque, formaliter la scelta è tale in quanto è in-dipendente e ir-responsabile, materialiter la scelta dipende da e risponde ad una intrascendibile ragione di con-venienza/scon-venienza, che è tale in ultima istanza rispetto alla totalità antropologica (certamente mediata dalla sua autointerpretazione). Sotto questo profilo, allora, la libertà di scelta risulta normata da un criterio di responsabilità.

Si comprende come, nel caso in cui questa differenza di piani non sia avvertita, alla libertà di scelta sia aperta la strada di una patologia caratteristica, che inizia con la giustificazione di qualunque contenuto di scelta, perché "liberamente" scelto e che termina nel suo estremo sviluppo con ciò che potremmo chiamare una "mistica del possibile": se non vi è un livello in cui si dà un criterio normativo alla scelta, questa non può celebrare il suo potere se non come sempre aperto, intensivo, in ultima istanza orgiastico. Se il tutto della libertà è il suo potere di autodeterminazione, allora si dovrà concludere che vi è tanta più libertà, quante più possibilità saranno state realizzate. La libertà - che resta pur sempre finita - si conferma e si autocertifica divorando la maggior quantità possibile di possibilità: così la "volontà di potenza", in questa condizione di separatezza, diventa "mistica del possibile".

La libertà di autodeterminazione è dunque indipendente, ma non è autosufficiente; perciò la libertà non è solo il suo potere di automotivazione, ma è anche potere di realizzazione/irrealizzazione del soggetto, per il tramite formale della scelta. A questo livello la libertà è tale proprio in quanto opera in dipendenza da altro da se stessa, in quanto cioè accoglie l'appello della convenienza e aderisce all'attrazione della soddisfazione possibile. In un certo senso qui il movimento della libertà si inverte, perché non è più il decidere indipendente e, in quanto tale, indifferente, ma sta nel lasciarsi attrarre da un bene altro. Qui la libertà è alle dipendenze dall’ordine dei fini ed essa stessa si colloca nell'ordine degli effetti, in quanto risposta qualificata all’appello dello scopo. Per questo aspetto la libertà è libertà dall'indigenza e libertà per la soddisfazione; in sintesi, è libertà di liberazione.

La scelta è esercizio di decisione indipendente ed elezione indifferente; la buona scelta è invece accadimento interessato di un bene realizzante. La libertà di scelta è irresponsabile; la libertà di realizzazione è risposta. Questa forma della libertà libera la scelta dall'astrazione d'essere un potere che, lasciato alla sua pura formalità, non saprebbe neppure determinarsi, perché non avrebbe di che determinarsi, e che invece lo può fare solo in relazione a un contenuto dotato di una beneficialità significativa in rapporto all'azione e al suo soggetto.

In definitiva le due forme di libertà sono due aspetti contrari di un'unica libertà, veramente distinti e veramente uniti, cioè impossibilitati a stare separatamente: un potere di scelta senza contenuto resterebbe indeterminato; un contenuto di bene attraente, che non fosse oggetto di scelta, anche se di per sé soddisfacente, non sarebbe liberante, perché non sarebbe la soddisfazione di un soggetto che decide di sé. Tra i due aspetti esiste in concreto un'infrangibile circolarità: la scelta ha il potere di attuare la convenienza e la convenienza muove e guida la scelta (verso il bene) (11).

Per un altro versante ancora l'autorealizzazione si distingue dall'autodeterminazione e precisamente sul versante del tempo. Peculiare della libera autodeterminazione è infatti l'istantaneità. La sua struttura di indipendenza sottrae, in un certo senso, l’atto al flusso temporale e lo pone come inizio originale, espressivo di un'origine sottratta alla connessione deterministica degli eventi. La libertà come liberazione comporta, invece, il movimento dell'autorealizzazione e come tale implica una storia della libertà, cosa che è affatto impossibile per chi limita la libertà all'autodeterminazione. In questa prospettiva non solo le categorie della prova e della responsabilità prendono rilievo e con esse anche quelle del rischio e dell'avventura diventano indispensabili per parlare della libertà còlta in questa sua componente "drammatica". La caduta della dimensione del tempo sottrae alla scelta il suo contesto storico e quindi la sua apertura al progresso/regresso, con evidenti risvolti antropologici, come ad esempio nell'ambito della formazione e dell'educazione.

Ma la sola categoria del tempo non è sufficiente a dire la dimensione storica della libertà. Essa va coniugata con un’altra categoria che non è solitamente impiegata per trattare il tema della libertà e che, invece, si rivela lì feconda: la categoria del lavoro. La libertà ha una storia, perché e nella misura in cui nel tempo essa esegue un lavoro; in ultima istanza, il lavoro della soddisfazione del desiderio. La nozione di lavoro include una serie di altri concetti, che descrivono in modo non del tutto inadeguato il divenire qualificato della libertà, aldilà della sua rappresentazione, del tutto insufficiente, come flusso neutrale ed omogeneo oppure come accadere puntuale e disperso. Lavoro significa anzitutto investimento di risorse: in questo caso si tratta della stessa energia di scelta, in quanto applicata alle possibilità disponibili al soggetto. Nell'idea di lavoro è contenuta quella di un’opera di trasformazione delle condizioni iniziali, nel senso etimologico di mutamento della loro "forma", cioè del loro significato per il soggetto, in direzione di un beneficio che il soggetto possa dare o ricevere. In questo processo avviene, dunque, che il bene-fine mette al lavoro il potere di scelta e lo rende produttivo di un beneficio del o per il soggetto. In tal modo il bene mostra d’essere la verità del potere della scelta, così come questo ne costituisce l'energia di realizzazione.

Se la libertà come autodeterminazione ha una funzione identitaria per il soggetto e se come libertà di autorealizzazione ne definisce la storia, allora nella sintesi dei suoi due aspetti la libertà è realmente principio di un’ "identità narrativa", cioè di un’identità che guadagna la sua verità attraverso la l’esperienza e la rappresentazione della rischiosa avventura della sua liberazione.

Storia della libertà, d’altra parte, non significa che la libertà domini idealisticamente la propria storia. Al contrario, ancor più che al livello precedente, la libertà è qui in simbiosi inevitabile con la necessità. L’effetto liberatorio e quindi attivante, che un bene raggiunto produce, dipende infatti dal momento passivo dell’obbedienza della scelta a ciò che è in grado di determinare il beneficio: la libertà è in grado di assumere la sua indigenza e la sua esigenza, ma non di determinarne essenzialmente la fisionomia. La complessa ambivalenza dell'amore, a riguardo, può essere un buon esempio della condizione generale della libertà finita: in amore la libertà è proporzionale anche alla dipendenza. Così, se da un lato, la libertà dispone del proprio atto di autoconfigurazione, dall’altro dipende, a monte, dalla necessità del suo essere libera e, a valle, da quella del bisogno.

Anche l'autorealizzazione non è dotata di un’autosufficienza che ne faccia il momento conclusivo del processo della libertà, ma è presa in un movimento dialettico che la porta oltre se stessa. Infatti, se il termine della liberazione è il soggetto stesso, bisogna concludere che il soggetto è il fine della sua libertà, cioè è fine a se stesso? Se così fosse, la libertà si troverebbe coinvolta in una situazione di contraddizione pratica insolubile. Se infatti il soggetto fosse il fine dei fini realizzanti, allora tutto - cose ed altri soggetti - dovrebbe essere sottoposto a questo scopo e diventare suo mezzo. Ma ogni libertà potrebbe legittimamente rivendicare d'essere il fine assoluto del suo e dell’altrui operare e la libertà precipiterebbe in una conflittualità universale.

 

IV. Libertà come relazione

È questo forse il problema fondamentale dell'antropologia moderna: la questione del conflitto come forma originaria del rapporto tra uomini. Da Hobbes, a Hegel, a Sartre la negatività delle relazioni costituisce il presupposto della teoria del soggetto. Le due risposte possibili sono tipicamente quella procedurale e quella olistica: gli uomini non hanno relazioni positive, se non per il tramite di procedure convenzionali oppure solo in quanto partecipi di una totalità storica trascendente le relazioni empiriche. In ogni caso la libertà nel suo esercizio incontra l’altra libertà anzitutto come un ostacolo, superabile solo attraverso la sospensione del rapporto diretto e la sua mediazione empirico-procedurale oppure metafisico-politica. Naturalmente queste soluzioni non sono senza influsso sulla concezione della libertà stessa, che in un caso viene esaltata nel suo individuale e metodologico potere di determinazione, mentre nell'altro viene identificata con l’adesione incondizionata al bene pubblico superiore, tramite della risoluzione della libertà individuale in una totalità immanente (sia essa metafisica, statuale o sociale).

L’impensato speculativo della modernità sembra invece il bisogno intrinseco che la libertà ha dell'altra libertà. Bisogno non solo d'ordine empirico, cosa che consta all'evidenza pratica, ma d’ordine trascendentale, cioè coesteso al fenomeno della libertà come tale, così che il movimento dell’autorealizzazione da parte della libertà di principio includa nel suo progetto la relazione all’altra libertà.

In che senso, però, la libertà è in originaria relazione ad altra libertà? Si tratta di una relazione dinamica nei termini del bisogno che un agente libero in quanto libero ha del riconoscimento di altro agente: la libertà ha bisogno di riconoscimento da parte di un'altra libertà. Tale bisogno è riscontrabile a un triplice progressivo livello.

Certamente non si può dire che la libertà finita abbia bisogno di altra libertà finita per costituirsi come tale, semplicemente perché una libertà finita non è in grado di generarne un’altra ontologicamente. La trascendentalità intenzionalmente illimatata del soggetto, ma onticamente limitata, non ha il potere di dar luogo ad un’altra realtà trascendentale. L’illimite trascendentale non è in grado di far essere un altro illimite, ma in grado di relazionarvisi e di farle spazio. Perciò se è escluso il bisogno di essere costituito e il potere di costituire, non è invece escluso che la libertà finita abbia bisogno di altra libertà finita per istituirsi, cioè per attivarsi e svilupparsi, e che abbia il potere di istituire. Ancora, se la libertà finita è un’"iniziativa iniziata", allora essa non può "iniziare" nel senso costitutivo del termine, ma può offrire all’altra libertà un’iniziazione al suo esercizio. Se infatti la libertà non fosse altro che intemporale e subitaneo effettuarsi della scelta non si darebbe relazione necessaria ad altra libertà. Ma, per quell'aspetto per cui la libertà umana è storica, essa rientra nella tensione ontologica di ciò che, essendo processualmente strutturato, ha bisogno di una libertà già in esercizio per attuarsi nel suo divenire sensato. Se, quindi, il proprio potere di scelta la libertà lo possiede originariamente e indeducibilmente, altrimenti mai sorgerebbe come libertà; per il suo esercizio e la sua espansione realizzante la libertà ha bisogno di un rapporto ad un polo già attivo che le partecipi la sua iniziativa. E ciò non avviene solo all'inizio dell'esistenza individuale, ma è condizione permanente, sebbene varia nei livelli e nei modi della sua realizzazione. Basterebbe pensare che il tessuto della vita sociale umana è fatto di circostanze, segni e titoli di riconoscimento, che hanno il senso di permettere se non di riattivare continuamente l’iniziativa della libertà. Questa prospettiva permette di riaprire uno spazio ad un’altra categoria antropologica speculativamente dimenticata, quella dell’educazione. Se la libertà è in rapporto di istituzione con altra libertà, ciò significa che la libertà non è solo un evento originario, ma è anche un accadimento storico che può (eticamente: deve) essere "tratto fuori", e-ducato.

Alla base della relazione tra libertà vi è dunque un'ontologia della partecipazione, che ha un'ulteriore livello di realizzazione. Il riconoscimento di altri in quanto libero, infatti, è un’esigenza storica della libertà, ma risponde anche a un desiderio strutturale. Se, infatti, nella sua radice la libertà è modo d’essere della trascendentalità soggettiva, allora la libertà non può non desiderare (d’essere in relazione con) altra libertà, come unico termine adeguato della sua apertura intenzionale. L’unico termine - in prima istanza - conforme all’ampiezza illimitata dell'agire libero non può essere nulla meno della libertà stessa, perché altrimenti l'ampiezza interale della sua intenzionalità non avrebbe mai oggetto a sé adeguato e si verrebbe a trovare nella condizione contraddittoria di un'apertura interale spalancata sul nulla. In questo secondo senso, dunque, la libertà non può non attendere di incontrare altra libertà come termine degno del proprio impegno(12).

Inoltre - è questo il terzo livello della relazione -, l'essere riconosciuta da altra libertà è esperienza di massima gratificazione, in cui cioè viene esperito un beneficio peculiare, che ha a che fare con la condizione desiderante del soggetto come tale. Qui si coglie come il rapporto all'altra libertà sia per il soggetto ciò che vi è al mondo di massimamente non-indifferente: piuttosto è ciò che fa la differenza nell’esistenza dell’individuo, stabilendone l’ambito di massimo interesse. Che cosa avviene, infatti, nel riconoscimento tra uomini? Non solo quell’attivazione, iniziale e distribuita lungo tutta l’esistenza; non solo l'incontro con il piano trascendentale della libertà dell'altro; ma anche l’evento del venir ad esistere intenzionalmente in altri. In qualche modo l'esistenza si trova sopraelevata in un'esistenza alla seconda potenza che è la sua inabitazione intenzionale in altri. L’essere accolti in altri non è un puro fatto neutrale o una condizione piacevole/spiacevole dal punto di vista psicologico, ma costituisce una dilatazione dell'esistenza di colui che è riconosciuto, che configura un esempio, anzi il paradigma, di qualcosa cui il soggetto aspira con tutto se stesso. Egli, infatti, è da sempre alla prese con la sproporzione - grandezza e miseria della sua esistenza - tra il limite ontico che fattualmente egli è e l’illimite della sua capacità intenzionale (13). Nell'essere riconosciuto da altri la propria limitata realtà, infatti, è assunta in un universo intenzionale di principio illimitatamente aperto, in cui essa fa l'iniziale esperienza della (propria) esistenza plasticamente disponibile all’ampiezza del pensiero (dell'altro). In tal senso ogni riconoscimento ricevuto attraversa il territorio del desiderio umano e vi traccia la figura della riconciliazione del dramma dell'esistenza. Il venire ad esistere-in altri, attraverso il benevolo essere pensati (consapevolmente voluti e volontariamente conosciuti) da altri, costituisce un parziale e provvisorio soddisfacimento dell’attesa della compiuta conciliazione tra entitativo e intenzionale; dunque non il raggiungimento di una situazione radicalmente pacificata, ma un esempio intimo e forte di "riconciliazione" di quella polarità di finito e infinito secondo cui il soggetto porta è costituito.

Dunque la libertà ha bisogno, non congiunturalmente ed estrinsecamente ma strutturalmente e intrinsecamente, di altra libertà o della libertà di altri: bisogno per la sua attivazione originaria e la sua continua e molteplice riattivazione; per la sua interlocuzione omogenea; e, infine, bisogno della figura più concreta e suggestiva della riconciliazione dell’esistenza con se stessa. Di qui l’innegabile valore positivo di principio che la relazione delle libertà comporta. Qualunque possa essere la difettosità o la tragicità della sua effettuazione storica, è necessario pensare l’originaria beneficialità della libertà d'altri e per altri e quindi l’attesa che la libertà ha e non può non avere di incontrarsi con altra libertà, in cui ha la primordiale e insuperabile esperienza del bene.

L'incontro di libertà in quanto tali definisce lo spazio della gratuità: che altro è infatti il gratuito tra uomini, se non l’interesse della libertà come tale per altra libertà come tale, senza "secondi fini", cioè senza fini che non siano la libertà stessa (secondo l'idea kantiana della relazione all'altro come fine)? Il beneficio apportato dalla libertà d’altri non consiste in qualcosa per il cui tramite la libertà è benefica, ma consiste nel rapporto stesso di libertà a libertà. Dal punto di vista della relazione, dunque, libertà si ridefinisce come rapporto alla grazia di un'altra libertà. In tal modo l’esperienza della libertà come relazione rende comprensibile il senso del dono e della reciprocità, perché ne è il fondamento e insieme il caso paradigmatico. Il dono per essere tale deve salvaguardare il gratuito, ma esso - diversamente dall’interpretazione del dono di un Derrida e di un Marion (14) - invoca anche reciprocità. Infatti, proprio perché l’essenza del dono è la stessa gratuità della relazione libera ad altra libertà, mentre il contenuto del dono (oggetto o prestazione) ne è segno simbolico, il dono è intrinsecamente sollecitazione della libertà e quindi anche della reciprocità. È dunque nella natura del dono l’attesa del ri-cambio, non certo come scambio di equivalenti, ma come segno di una libertà ri-conoscente. Per questo ogni donazione è una messa a prova della libertà per colui che riceve (è infatti più facile donare che ricevere e tanto più un dono è fatto con gratuità, tanto più rischia si suscitare un paradossale risentimento). Al contrario, un dono che fosse senza attesa di riscontro esprimerebbe una relazione non fondata sulla libertà o basata su una libertà ancora astratta, una libertà senza interlocuzione (15).

Se dunque la libertà in relazione ha la natura della comunicazione e del dono, la figura antropologica che l’esprime compiutamente è quella della generazione. Sotto questo aspetto l'ontologia della libertà è un'ontologia della generazione: la libertà è in relazione per generare altra libertà ed è in grado di relazionarsi in quanto è capace di generare. Nel suo aspetto relazionale, infatti, la libertà è luogo di trasmissione passiva e attiva, è sempre insieme generata e generativa. Ma se le cose stanno così, allora la libertà trova la pienezza della sua identità appunto nella relazione generativa. Come afferma Aristotele, il vivente mostra la sua raggiunta maturità, quando è in grado di generare il suo simile. La libertà giunge alla maturità del suo esercizio, al senso della sua storia e al culmine della sua avventura, quando riconosciuto da altri, si riconosce e sa riconoscere, quando cioè non solo riceve riconoscimento, ma sa darlo, sapendosi rivolgere con "gratuità" all'altra libertà proprio in quanto alterità libera. Questa gratuità generativa può essere espressa con un termine di cui essa è in grado di costituire un adeguato riempimento semantico: è il termine amicizia. L’"alter ego" amicale, infatti, non è una duplicazione narcisistica dell'individuo monologico, se l'apparizione dell’egoità altra è l’esito di una relazione di libertà, cioè di una relazione di alterità comunicante libertà. In questo senso l'amicizia non può non essere l’ideale della libertà, cioè il termine perfettivo cui tende il movimento della libertà stessa e quindi la sua figura terminale.

Certamente anche la libertà di relazione non compie tutto il voto della libertà, perché il suo ideale subisce costantemente lo scacco dell’estraneità, dell’infedeltà, del dominio, del conflitto; in breve, della sproporzione al suo stesso ideale. Ancora una volta la libertà diventa maligna, non sa riconoscere il suo bene come bene altro; meglio, come il bene di altri.

Immediatamente, da questa ulteriore aporia la libertà è risospinta su se stessa e sul suo potere di autodeterminazione. Ma ormai il suo organismo è completo e il rinvio dialettico interno non è più in grado di risolverne le difficoltà. La libertà finita ha raggiunto i limiti delle sue possibilità. L'unica ragionevole risposta, per evitare la catastrofe della libertà, sarebbe quella della ripetizione del dono, della sua restaurazione, cioè del per-dono. La prospettiva del perdono, infatti, è l’unica in grado di restituire l’originario della libertà in relazione e tramite questo l’integrità dell’intero organismo della libertà.

Ma non può essere evitata la questione se sia davvero possibile alla libertà finita compiere l’opera del perdono, cioè non la fuga dell’oblìo, ma la restituzione del rapporto aldilà di ogni possibile smentita. Forse al limite delle sue possibilità, la libertà può scoprire la verità della meditazione kierkegaadiana. Come scrive nel suo Diario, "un uomo non può mai rendere completamente libero un altro", perché resta dipendente dalla sua stessa potenza. Solo l’onnipotenza non rimane legata, ma, potendo "riprendere se stessa mentre si dona", "è identica alla sua bontà": "ogni potenza finita rende dipendenti; soltanto l’onnipotenza può rendere indipendenti" (16).

 

 

Note

 (1) Nel caso di L. Pareyson il senso dell’essere come libertà è quello di "libertà di scelta" (cfr. Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995), donde la prospettiva metafisica "personalista"; nel caso di J.L. Nancy, la determinazione di una semantica della libertà non ha importanza, perché la libertà è "la libertà dell’essere", "l’esistenza come essenza di se stessa" ovvero come "l’identità dell’essere e dell’essente" (L’esperienza della libertà, Einaudi, Torino 2000, pp. 17 e 174) e quindi la sua semantica coincide con "il programma completo della filosofia della libertà" (p. 163), cioè con la totalità delle sue forme, in cui si differenzia e si singolarizza la libertà come "spontaneità" dell’accadere dell’essere. back

(2) Cfr. C. Ciancio, Il paradosso della verità, Rosenberg&Sellier, Torino 2000. Ed ora anche Il paradosso della libertà, in pubblicazione in AA.VV., presso Vita e Pensiero, Milano 2002. back

(3) L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 31 e 22 back

(4) Per una coerente metafisica partecipazionistica della libertà cfr. J. De Finance, Esistenza e libertà, Libreria Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2000. back

(5) Cfr. Aristotele, De anima, III, 9 e 10. back

(6) Cfr. P. Pagani, Tommaso: la libertà della differenza, in AA.VV., La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998, in part. pp. 152-160. back

(7) In questo senso la mozione della volontà libera non va pensata secondo la categoria kantiana della causalità efficiente (contro cui polemizza fortemente J.L. Nancy, in L’esperienza della libertà, cit.), che implica la separazione della causa dall’effetto; la figura della libertà come "automotivazione" dice invece dell’inseparabilità del motivo dal suo effetto (o meglio dalla sua espressione), dice cioè di un rapporto di immanenza. Si veda in proposito anche a riflessione avviana in ambito analitico da G. H. von Wright. back

(8) La decisione di cui stiamo parlando è il grado più elevato di esercizio della libertà, per l’affermativo e per il negativo. Non si tratta perciò dell’alternativa tra libertà e non libertà, tra esercizio della libertà e sua inibizione. La confusione tra questi due momenti ci sembra invece alla base delle riflessioni pareysoniane sull’esercizio negativo della libertà, ove la libertà che decide di sé negativamente pare coincidere con la negazione della libertà e questa negazione con il male (cfr. Ontologia della libertà, cit., pp. 48 sgg.) back

(9) Paradigmatico è il rapporto descritto dai vangeli sinottici tra i demoni e Cristo: essi (soli) ne conoscono l’identità divina e proprio per questo possono rifiutarlo: "Che c’entri con noi, Gesù nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio" (Mc, 1,24). È comune tra i Padri l’affermazione che i demoni hanno fede in Cristo, ma non hanno la carità. La condizione demoniaca, infatti, è definita da quell’estraneità decisa nei confronti della verità conosciuta, la cui conseguenza è di lasciare la libertà vuota e sola e dunque nella condizione di energia scatenata e furibonda , tautologica e delirante. back

(10) J.L. Nancy, L’esperienza della libertà, cit. p. 132. back

(11) La solidarietà delle forme della libertà ha a suo fondamento quella tra le due figure antropologiche del giudizio e del desiderio, che nell'esercizio della libertà mostrano il vigoroso intreccio della loro coappartenenza. In forza del giudizio (d'esistenza), infatti, è dato alla ragione lo spazio logico della confrontabilità dei possibili e quindi sono date l'in-dipendenza e l'in-differenza, cioè la superiorità e la distanza indispensabili perché la scelta possa esercitarsi; ma in forza del desiderio è aperto l'orizzonte del bene, secondo cui i possibili sono intesi come convenienti/sconvenienti per il soggetto. back

(12) Sull’argomentazione cfr. C. Vigna, Etica del desiderio umano, in AA.VV., Introduzione all’etica, a cura di C. Vigna, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 130-138. back

(13) Questa riflessione si muove nella direzione blondeliana dell’ideale "equazione dell’azione": "Il bisogno dell’uomo è di eguagliare se stesso, in modo che nulla di ciò che egli è rimanga estraneo o contrario al suo volere e nulla di ciò che egli vuole rimanga inaccessibile o rifiutato al suo essere. Agire è cercare questo accordo del conoscere, del volere e dell’essere, e contribuire a realizzarlo o a comprometterlo" (M. Blondel, L’Action (1893), PUF, Paris 1973, p. 467). back

(14) Cfr. J. Derrida, Donner le temps. La fausse monnaie, Galilée, Paris 1991 e J.L. Marion, Etant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, PUF, Paris 1997. back

(15) Si renderebbe necessario qui un approfondito confronto con la filosofia dell’alterità e quindi della libertà di E. Lévinas. È chiaro infatti che dal punto di vista lévinassiano le nostre considerazioni restano interne alla logica dell’"imperialismo del Medesimo" e della sua presuntuosa determinazione di "Altri" a partire da sé e che, dunque, la libertà resta semantizzata come spontaneità egoistica ed arbitraria. L’alterità infatti non appare nel nostro tragitto come prioritaria rispetto alla libertà, che da essa "investita" sia liberata dall’arbitrio e resa morale, cioè responsabile per altri, secondo una "passività" che in Lévinas di Autrement qu’être diventa "illimitata" soggezione ad Altri (cfr. la sottomissione "all’accusativo assoluto" nella forma della "persecuzione", della "sostituzione", dell’"espiazione"). Ora, anche per noi - come stiamo per dire - la libertà trova la sua maturità in ciò che è anche la sua genesi storica, la relazione ad Altri. La differenza sta nella contrapposizione tra la figura del riconoscimento e quella della sottomissione, della simmetria e dell’asimmetria della relazione o nei termini di Lévinas, della "riconoscenza" e della "responsabilità". In ogni caso l’ego è decentrato, ma in uno è posto strutturalmente in relazione, nell’altro è sottoposto alla relazione. Salvaguardare la simmetria della relazione non significa come tale sottoporre Altri al Medesimo, ma anzi vincolare il soggetto, dall’interno (non nonostante) della sua stessa logica egocentrica, alla relazione; evitando, d’altra parte, il rischio del gioco perverso di una soggettività finita che, pur spossessata, si creda all’altezza della responsabilità "di tutto e di tutti" (cfr. in proprosito la riflessione critica di D. Sibony, Don de soi ou partage de soi? Le drame de Lévinas, Ed. Odile Jacob, Paris 2000 ). back

(16) S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, Brescia 19622, t. I, n. 1017, p. 512 sgg. back