Libertà, giustizia e bene in una società pluralistica

Carmelo Vigna

Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze, Università di Venezia

 

Introduzione

Questioni così complesse richiederebbero una pluralità di discipline all'opera. Io, purtroppo, posso usare, in senso specialistico, di una disciplina sola: l'etica. Dunque, tenterò di approfondire un poco le questioni prevalentemente da tale punto di vista, lasciandone sullo sfondo altri (quello economico, sociologico, politologico, teologico ecc. ecc.). Mi atterrò anche alle grandi linee del discorso e darò per presupposta la letteratura sull'argomento. Insomma, indicherò solo da che parte bisognerebbe volgere lo sguardo, a mio avviso, per conseguire qualche risultato apprezzabile nella nostra ricerca. Ordinerò l'esposizione in modo da affrontare prima il tema, alquanto drammatico, del pluralismo, perché dall'esito della riflessione intorno al pluralismo dipendono le inflessioni o le declinazioni della libertà, della giustizia e del bene. Delle quali, dunque, tratterò in una seconda parte.

 

Parte prima. Pluralismo

Il pluralismo in un certo senso, è una realtà antica quasi quanto la storia umana (1). Ogni popolo che sia riuscito a conquistare una posizione egemone, si è sempre trovato, perciò stesso, con un pluralismo di culture da governare. In Occidente, l'esempio più grandioso dei tempi antichi, che viene subito in mente, è quello dell'Impero romano. Nel Medioevo seguì la struttura simbolica della "Santa Romana Repubblica"; quindi, nacquero i vari "imperi" della modernità, sino a quello inglese, buon ultimo. Ma poi, non abbiamo appena assistito al crollo di un "impero" russo? E non viviamo ora all'ombra di un "impero americano", per quanto esso oggi sia "sotto attacco"? Fino alla prossima stagione egemonica, magari di tipo cinese.

In che senso, allora, parliamo oggi del pluralismo come problema? Risponderei: oggi è la mescolanza delle culture nello stesso territorio e soprattutto con rivendicazioni di parità, cioè senza l'egemonia di una cultura sulle altre, che fa problema. Il pluralismo è propriamente questa situazione storica, piuttosto confusa e confusiva, che vorrebbe valere come modello teorico con l'etichetta di "multiculturalismo", ma di cui non si possiede una giustificazione soddisfacente. La situazione americana è oramai diventata paradigmatica. Quella europea si avvia ad esserlo, anche se restìa a ratificare proceduralismi di tradizione liberale.

La mescolanza delle culture è, comunque, legata ad un accadimento eccezionale, mai prima sperimentato dall'umanità: la globalizzazione. Il termine "globalizzazione" è, di solito, usato per indicare la mondializzazione dei mercati. La mondializzazione dei mercati, prima di tutto finanziaria, ma poi anche produttiva e distributiva e consumistica, sta generando la mondializzazione di tutte le relazioni, comprese quelle metaeconomiche, cioè socio-politiche e "culturali" in senso lato. I media sono, in tal senso, un veicolo di prim'ordine. Nella stessa direzione vanno le migrazioni, le competizioni sportive, le preoccupazioni ecologiche, il turismo di massa, l'organizzazione del lavoro ecc. Questa grandiosa mobilitazione di merci e di esseri umani viaggia poi sulle ali della società tecnologica, che tende ad unificare il pianeta attraverso i propri codici di trasformazione, per lo più interni ad una ideologia di tipo neoliberista. La recente tragedia americana ne ha però mostrato la profonda vulnerabilità.

Indubbiamente, la mondializzazione è lo scenario più importante degli inizi del millennio. Poiché culture e linguaggi, che erano stati separati a volte per molti secoli, sono diventati improvvisamente osmotici, non può certo sorprendere il fatto che si sia creata una sorta di smarrimento universale e che si ponga il problema, altrettanto universale, della ricerca di una qualche unità di "codice" di intesa e di convivenza. E non è tanto al livello economico che si cerca una qualche unità, anche perché a questo livello il neocapitalismo ha già quasi provveduto, quanto a livello politico e, più radicalmente, a livello etico. Ma da questa parte, cioè dalla parte dei "codici superiori" (dove bisognerebbe anche citare il codice "religioso" e perché no?, il "codice veritativo") il lavoro più sostanzioso sembra ancora da fare, nonostante da alcuni decenni sia stato raggiunto un accordo di massima sui cosiddetti "diritti umani", rimasti peraltro, in tante regioni della terra, dichiarazioni puramente verbali. Ad interferire con una pratica diffusa del rispetto di tali diritti non c'è, infatti, solo l'arretratezza economica, sociale e politica di molti popoli, ma anche una radicale differenza di "visione del mondo" tra le grandi e piccole tradizioni culturali e tra le grandi religioni della terra, comprese le grandi "religioni del libro" (2). La differenza sembra a volte riversarsi, e pure concentrarsi, proprio sulle convinzioni intorno ai rapporti tra gli esseri umani, a partire dalla stessa architettura di qualcosa come una antropologia filosofica.

Il fenomeno in certo senso paradossale, ma sotto gli occhi di tutti, è questo: il processo di mondializzazione determina per contraccolpo la moltiplicazione dei particolarismi, per non dire degli impulsi tribali, anche in nazioni evolute (3). Il paradosso si può attenuare, se si pone mente alla struttura generalissima di un essere umano, cioè alla sua "natura" più evidente e difficilmente contestabile. Un essere umano infatti è, in generale, un mix di universalità (o di trascendentalità) e di particolarità (o di empiria) e ha bisogno in modo inevitabile di coltivare entrambi i "lati" che lo costituiscono. Quando uno dei due sembra predominare, egli è come preso dal panico, e rapidamente si appella alla consistenza dell'altro. Detto in altri termini: il fenomeno del "pendolarismo" tra particolare e universale, cui assistiamo specialmente nei paesi post-industriali, è un paradosso apparente, perché il paradosso reale è lo stesso essere umano, particolare ed universale ad un tempo.

Tenere a mente questo paradosso aiuta a capire una serie di comportamenti non proprio ragionevoli, compreso quello più strano, almeno sulle prime, cioè il rifiuto quasi istintivo e quindi non raro, da parte di un essere umano, di rapportarsi in amicizia con un altro essere umano. Tutto accade come se l'altro, percepito nella sua potenziale universalità, insidiasse la percezione interna dell'universalità del suo simile e, nel contempo, apparisse una particolarità impenetrabile all'altra particolarità. In effetti, due universali totalizzanti non possono coesistere, da un lato; dall'altro lato, due particolarità non possono integrarsi senza perdersi come tali. Non può perciò sorprendere l'effetto aggressivo che ne viene, quando entrambi questi fenomeni si congiungono e collidono.

L'altro è o diventa non di rado nemico. Questa, a mio avviso, la pietra d'inciampo del pluralismo, perché è il "fatto" che impedisce strutturalmente l'unità dei molti, e anche la loro tranquilla e neutra compossibilità, o le rende un sogno un po' velleitario, se perseguito in maniera "ingenua". Ma come questo accade? Come, accade, cioè che l'altro diventi nemico? Ritengo che la metamorfosi dell'alterità nell'oppositività conflittuale abbia la propria radice nell'esercizio apriorico, e in certo modo "spontaneo", del sospetto. La cifra del sospetto è da tempo oggetto d'attenzione filosofica (4), ma poi si dimentica spesso di citarla, quando si vuole che i conti del pluralismo tornino senza troppa fatica. Quasi che la mancata realizzazione sua sia una questione di incomprensione teorica. E invece, c'è di mezzo tutto il peso della fragilità e, diciamo pure, della cattiveria degli esseri umani, i quali sono, più di quanto non si dica e non si creda, inclini al sospetto. Sospetto che l'altro sia il negativo per me, prima ancora ch'egli si sia rapportato realmente a me.

In fondo, il sospetto contiene già la decisione che l'altro sia il negativo per me. Ne è propriamente l'effetto. L'esercizio del sospetto, in altri termini, rimanda ad una precomprensione in cui l'altro è vissuto come nemico. Che l'altro sia un potenziale nemico è certamente vero, ma non è vero che lo sia di fatto. Potrebbe essere un amico. Non riusciamo, tuttavia, a restare in sospeso tra questi due lati della possibilità e, d'altra parte, siamo dalla vita costretti a pre-pararci di fronte all'altro. Dobbiamo, prima ancora che la cosa accada e l'altro si riveli, decidere in cuor nostro il senso della relazione dell'altro nei nostri confronti. Dargli fiducia o tenere il peggio per noi? Un essere umano è troppo spesso irresistibilmente attratto dalla seconda alternativa, anche solo per il fatto che molte volte è stato ferito dagli altri. Come l'esperienza storica insegna. Allora, perché esporsi? Perché non abbracciare una condizione di sicurezza previa? Naturalmente, ognuno fa lo stesso dalla propria parte, e il risultato è la richiesta che sia l'altro per primo a "scoprirsi", ossia a lasciar venire innanzi la qualità della sua relazione con noi. D'altro canto, l'altro è proprio impaurito dalla nostra diffidenza, e quindi diffida a sua volta. Si innesca così, quasi sempre, il meccanismo del conflitto reciproco; si innesca, appunto, sul fondamento del sospetto reciproco. Il conflitto poi, se poco governato o non governato affatto, rapidamente si approfondisce. Fino a forme di ferocia incondizionata, come quelle che solo un essere umano sa inventare.

A meno che uno dei due non decida per primo di mettere in campo un atteggiamento "fiduciale". Siamo, allora, al rovescio del processo precedente. Non il sospetto, ma la decisione di trattare l'altro come un positivo per me, è la relazione che prende corpo. Almeno fino a prova contraria. Può iniziare qui la storia di una offerta di "riconoscimento" — uso qui un termine di larga risonanza - , che può avere sviluppi, eticamente parlando, di grande profilo. Ma può iniziare anche una storia che mette a rischio la vita di una soggettività. Qual è, infatti, l'implicazione naturale, ma anche radicale, di un atteggiamento improntato alla fiducia nell'altro, cioè appunto "riconoscente"? Rispondo: la disponibilità a mettersi in balìa di un altro essere umano e il coraggio di affrontare la sua potenziale aggressività, sino ad essere disposti a morirne.

Dunque, ci vuole nientemeno che la consegna incondizionata di sé, nel profondo, per rinunciare al sospetto. Ora, questo lo si fa con una certa facilità, se molti indizi, intesi come autentiche garanzie, ce lo suggeriscono. Non lo si fa, se essi mancano. E mancano tanto più, quanto più l'altro è "altro". Anzi, in casi estremi, il rischio dell'esposizione al pericolo diventa quasi insopportabile e il sospetto, o addirittura l'ostilità previa, pare la scelta obbligata. A partire da qui, si pensi poi alle naturali complicazioni di queste dinamiche nelle relazioni politiche. Ciò che un singolo può anche affrontare, non lo si può proporre a un popolo, se le garanzie non sono proporzionate (5).

La deriva che dall'alterità conduce all'inimicizia si potrebbe sommariamente descrivere anche in questo modo. L'altro si presenta a noi con i tratti del "diverso". Ma i tratti del diverso trapassano con grande facilità nei tratti dell'"opposto", quando il diverso ci pare "minaccioso". E il diverso ci pare minaccioso, soprattutto quando la nostra identità non tollera, in tendenza, che esista altro oltre di sé, cioè quando, in modo più o meno inconscio, tende a totalizzare il senso. Ma l'opposto si dice in molti modi. Di questi molti modi, la contrarietà è il modo più comune e più sperimentato. Io sono "bianco", lui è "nero". Io sono "pulito", lui è "sporco". Io parlo una lingua "comprensibile", lui una lingua "incomprensibile" ecc. Trasformare la contrarietà in assoluta opposizione (in una pratica contraddizione) sul fondamento di una identità totalizzante, diventa una tentazione quotidiana, cui presto si cede. In tal caso, il processo di estraneazione si compie fino in fondo. L'altro, come il mio opposto assoluto, viene investito del massimo della negatività per me (è il male, mentre io me ne sto dalla parte del bene) e deve essere tolto di mezzo, perché io viva. Deve essere "neutralizzato" (cioè soggiogato) e, se necessario, anche esterminato. Fin dove il delirio degli umani può condurre per questa via lo sappiamo bene, anche se mai abbastanza. Le grandi catastrofi che periodicamente si abbattono su popoli e nazioni ne sono testimonianze eloquenti.

Ho accennato a questi meccanismi elementari, che innescano il conflitto intersoggettivo in nome di una relazione di dominio, per far intendere l'oggettiva impossibilità della pratica del pluralismo radicale. A mio avviso, i difensori di un pluralismo radicale (i "multiculturalisti") fanno proprio il gioco al massacro che vorrebbero togliere di mezzo con l'autoreferenzialità delle culture (voi state di qua, noi stiamo di là), perché auspicano e difendono di fatto una molteplicità di identità totalizzanti (in quanto, appunto, autoreferenziali), che non solo sono teoricamente inconcepibili, ma sono anche intese come praticamente incomponibili (6). Perciò finiscono per produrre solo e sempre conflitti senza numero (7).

Ne segue che il pluralismo può essere concepito, e anche praticato, solo se la totalizzazione delle singole identità culturali viene rimossa; cioè, se si accede ad una qualche universalità di codice, che idealmente (in senso teorico e pratico) valga come regola di riferimento nella convivenza e soprattutto nelle eventuali, ma in fondo inevitabili, forme di conflittualità. Questo non solo lo si arguisce facilmente da quanto appena osservato, ma pare anche sufficientemente condiviso, come istanza, specie dagli studiosi di etica pubblica. Le difficoltà teoriche, ma non solo teoriche, nascono quando si prova ad indicare il senso di questo codice universale. È perché si dispera di riuscirci, che si ripiega sul multiculturalismo. Che è però, come si è detto, un progetto impossibile (8).

È giocoforza, dunque, trovare riferimenti universalistici per assegnare i ruoli: intuitivamente pare indubbio, ad esempio, sostenere che ci sono diritti della comunità, ma anche diritti dei singoli cittadini (9). Sulle prime, infatti, la comunità sembra dover rivendicare dei diritti sul singolo, tanto quanto il singolo sembra dover rivendicare dei diritti rispetto alla comunità. Occorrerebbe, allora, una certa composizione fra le due istanze. Ma sembra pure legittimo chiedersi, in prima battuta, se ci sono diritti di tal fatta da una parte e dall'altra. La questione si complica. Né possiamo qui istruirla in dettaglio. Diciamo solo che una plausibile via d'uscita sta nel determinare quali diritti si impongano come irrinunciabili ad un essere umano (10). Questi diritti sarebbero evidentemente anche i limiti dei diritti della comunità sul singolo cittadino. È questo, in fondo, il problema che sta a monte della polemica tra i cosiddetti "comunitaristi" e i cosiddetti "neoliberali" (11).

Come che sia, resta vero che, per rispondere a domande di questo genere, bisognerebbe prima determinare delle "costanti" che appartengono al singolo e/o alla comunità. Bisognerebbe in qualche modo riferirsi ad un "universale" dell'umano. Cosa che è stata fatta, in realtà, innumerevoli volte. E sono state date, naturalmente, altrettante risposte. Che senso ha, allora, ricominciare da capo? Questo, credo si possa rispondere: che l'universalità cercata ai nostri tempi è messa alla prova da una reale universalità spazio-temporale del riferimento o, se più piace, dall'universalità storica della richiesta di un'universalità di codice. Il sottinteso degli sforzi e delle polemiche recenti sta nel fatto che le precedenti universalità sembrano ai più scarsamente utilizzabili, perché dicono riferimento solo ad una parte degli esseri umani e delle loro culture. Da questo punto di vista, il dibattito sul pluralismo può essere inteso come una sorta di tentativo di rigorizzazione dello jus gentium, di romana memoria. Oggi le "genti" ci sono proprio tutte. Che cosa, allora, le può accomunare?

Un codice comune agli umani può essere di tipo teorico o di tipo pratico. Pensare e volere, in effetti, sono le uniche due forme "trascendentali" del nostro rapporto alla realtà. Ora, il codice di tipo teorico sembra diventato di fatto improponibile. Questo non significa che sia impossibile. Significa semplicemente che la cultura dominante, incline al relativismo e allo scetticismo, non lo cerca. Ne dispera. E tenta di rimediare a questo fallimento epocale mediante la ricerca di un codice pratico. È degna di rilievo la circostanza che gli "ultimi fuochi" della "fondazione" di qualcosa siano, nel pensiero filosofico occidentale, di tipo etico-pratico (Apel, ad es.). Ma anche la fondazione dell'eticità, purtroppo, è… un che di teorico. Perciò non funziona più di tanto. Ossia: anche l'etica e la filosofia della politica dividono. Sembra che unisca, piuttosto, la pratica tout court, forse perché nella pratica ci si deve necessariamente determinare così e così. La pratica è "reale", si pensa, o è almeno la riconduzione del pensiero alla realtà (laddove la teoria è la riconduzione della realtà al pensiero e quindi sembra offrire un margine maggiore alla variazione soggettiva). Ma non ci si illude anche da questa parte?

È vero. La pratica, come alternativo terreno di intesa, sembra più efficace della teoria, perché si orienta al reale, e il reale tendenzialmente unifica, se e quando ci è dinanzi (almeno in qualche modo), più di quanto non accada alla teoria, che soffre degli equivoci insuperabili della comunicazione. Quando però la pratica si realizza per davvero, ci si accorge che anch'essa può dividere facilmente. Ci si può dividere benissimo, per esempio, su quale sfumatura di colore dare a quella tal parete della casa. Oppure, sui confini materiali da tracciare fra una comunità e un'altra. Oppure, sullo realizzazione o meno dello scudo stellare. Eccetera.

Ritengo, in generale, che la via d'uscita dall'aporetica della universalità che cerchiamo non stia da questa parte, cioè non stia dalla parte dell'oscillazione tra il teoretico e l'etico, né dalla parte dell'oscillazione tra il teoretico e la teoria dell'etico. Consenso o dissenso, in realtà, sono ottenibili e ottenuti solo in base ad una certa teoria o ad una certa pratica, anche se non sono necessariamente legati alla verità di una teoria e alla giustezza di una pratica. Ogni essere umano può dire di no alla verità e al bene, come e quando vuole. Il consenso e il dissenso sono, in sé e per sé, opzioni della soggettività interpellata.

Se abbandoniamo l'illusione, tipica di non pochi pensatori contemporanei, di teorizzare l'appello alla prassi per salvarsi dai guasti della teoria (come se la prassi non avesse i guasti propri), possiamo con un po' di tranquillità concedere pure che ci sono tempi in cui è più opportuno (nient'altro che questo…) insistere sulla prassi anzi che sulla teoria, per meglio convenire con altri. In passato, la teoria lasciava ancora speranze nel convenire, oggi ne lascia molto meno. Anzi, in qualche caso non ne lascia affatto.

In passato. Storicamente parlando, in effetti, l'universalità da noi cercata era, nella modernità occidentale, trovata nell'universale della ragione, erede dell'universalità medievale della fede cristiana, erede a sua volta dell'universalità un po' naturalistica della ragione greco-classica. Fu l'illuminismo, come si sa, ad imporre la ragione moderna come codice universale in Occidente. Quell'universale della ragione, però, esigeva una teoria univoca della ragione. La ragione illuministica era, in effetti, la kantiana "ragione pura". Univoca, appunto. Solo che la ragione, da Kant in avanti, è progressivamente diventata "impura" e l'univocità è diventata una vera e propria "equivocità". Per proseguire e inseguire gli sviluppi del pensiero occidentale contemporaneo, bisogna aggiungere che si è passati dalla ragione impura alla ragione "destrutturata" o "decostruita", cioè alla ragione che ha rinunciato al senso dell'Intero e si è racchiusa nella descrizione del puro "frammento" (12). È soprattutto questa destrutturazione che, negli ultimi decenni, ha determinato la fuga dall'ontologia e il rifugio un po' consolatorio nella (presupposta) efficacia della prassi, di cui prima si è fatto cenno.

Ma universale (trascendentale) non è la prassi in sostituzione della teoria. Universale è qualcosa della prassi come qualcosa della teoria. Universali sono propriamente i primi principi della teoria e i primi principi della prassi. E sono anche principi conosciuti e onorati da gran tempo: l'opposizione tra positivo e negativo è poi il principio di tutti i principi, sia teorici sia pratici; opposizione custodita, nella teoria, dal principio di non contraddizione (impossibile che qualcosa insieme sia e non sia) e, nella pratica dalla "legge naturale" elementare (fa il bene ed evita il male). Ma, certo, delle indicazioni tanto generali non bastano per noi.

Una maggiore approssimazione al nostro obbiettivo richiede, in effetti, una manovra teorica aggiuntiva, cioè una individuazione antropologica di questi generalissimi principi. Noi dobbiamo cercare ciò in cui gli esseri umani possono convenire. Ora, la vivente individuazione antropologica del principio di non contraddizione è nient'altro che la ragione umana come abito dell'intellezione dei principi speculativi; così come la vivente individuazione antropologica dei principi pratici (il male da fuggire e il bene da seguire) è il desiderio umano come abito della "sinderesi" (13). Questo ogni essere umano, sul piano del buon senso, lo intuisce e lo pratica quotidianamente. Ma il buon senso non riesce poi a districarsi nella difficoltà di intendere come mai la ragione umana onori fino ad un certo punto la verità e come mai il desiderio umano segua sino ad un certo punto il bene. In alcuni pensatori, la difficoltà si trasforma nella impossibilità di sapere cos'è la verità della ragione e nell'impossibilità di determinare qual è l'oggetto buono del desiderio. Motivo? L'eterogeneità indecidibile delle opinioni in merito! Come se non fosse compito proprio della teoria stabilire, tra molte opinioni, qual è quella vera e, tra i molteplici desideri, qual è quello giusto!

Questa convinzione diffusa di indecidibilità va contrastata, anche se ha molte ragioni storico-fattuali dalla propria parte. Essa presuppone l'impossibilità apriorica di stabilire un codice comune tra gli esseri umani. Eppure, gli esseri umani si intendono, nonostante le differenze culturali, e convivono, nonostante i conflitti endemici. Del resto, già il fatto di discutere di pluralismo implica inevitabilmente questa intesa. Riconoscere che ci sono molte culture, significa avere un qualche concetto di cultura, che è precisamente ciò che funziona da codice di riconoscimento tra le varie culture. Lo stesso si può dire di qualsiasi fenomeno plurale. Non si vede perché non lo si debba dire delle forme culturali degli esseri umani.

Evidentemente, ci deve essere un altro senso secondo cui il pluralismo attacca la possibilità stessa di reperire un'unità di codice. E in effetti, un altro senso c'è: l'unità di codice attaccata è sostanzialmente quella di un codice egemonico. Sempre. Ciò che si rifiuta, in altri termini, quando ci si scaglia contro una proposta di universalità di codice, non è tanto l'universalità o l'unità di codice in sé, quanto lo spettro della dipendenza di una cultura da un'altra, che si proclama universale, cioè egemone. Ciò che si difende è, quindi, l'indipendenza culturale. Il problema è, allora, di tipo etico-politico, non di tipo teorico-ontologico. Si rifiuta la forma del dominio, non la possibilità di convivere mediante il riferimento all'universale.

Ma si può convivere senza la forma del dominio? Questo è, in ultima istanza, il vero problema, depurato dai suoi falsi equivalenti. E qui è da rispondere che certamente, si può convivere benissimo senza la forma del dominio, anzi si deve o si dovrebbe. Ora, come si è già lasciato intendere, l'opposto della forma del dominio è la forma del reciproco riconoscimento. Perciò, è necessario porre in questa forma di relazione la vera unità di codice, che i contemporanei in molti modi ricercano.

Che il riconoscimento reciproco sia l'opposto della relazione di dominio, è tesi facilmente intuibile, oltre che nota (14). Così come è intuibile la conflittualità permanente che il dominio di un uomo sull'altro uomo scatena. Un po' meno intuibile è l'effetto risolutore, rispetto al conflitto, della relazione di riconoscimento. Ma lo si può argomentare, tale effetto, anche mostrando che la relazione riconoscente è l'unica relazione pratica intersoggettiva in cui due o più soggettività possono convivere in tutta la grandezza della loro trascendentalità. Ogni soggettività, infatti, ha bisogno d'essere riconosciuta come un orizzonte di senso inoltrepassabile, cioè intenzionalmente infinito, perché tale essa è per via della propria trascendentalità. Ma non si riesce facilmente a capire proprio questo, come, cioè, due o più trascendentalità possano coesistere nella loro infinità intenzionale. Sulle prime, più infinità, per quanto semplicemente intenzionali, sembrano incompossibili. L'una sembra togliere all'altra proprio tale carattere. Di qui l'impulso al conflitto e quindi alla potenziale esterminazione dell'altro. E in effetti l'esito è inevitabile se ogni soggettività viene innanzi, come accade nella relazione di dominio, esigendo anzitutto dall'altra il riconoscimento signorile. Cioè imponendolo. L'altra, per lo più, farà lo stesso con la prima. Così entrambe le soggettività finiranno per lottare per la vita e per la morte.

Non così, se ogni soggetto, anziché esigere d'essere riconosciuto nella sua signoria, viene innanzi offrendo anzitutto il riconoscimento della signoria dell'altro. Non così, se l'altro, riconosciuto, viene innanzi riconoscendo a sua volta la signoria del primo. Poiché la signoria in tal caso non è predata, ma reciprocamente offerta, accade che ognuna delle due coscienze sia resa signorile dall'altra, mentre ognuna delle due si professa serva dell'altra. E poiché si professa liberamente serva, resta nella propria signoria anche quando serve. Due signorie, così chiasmaticamente incrociate, non sono più incompossibili, anzi si sostengono e si alimentano a vicenda. L'inciampo dell'ostilità è qui tolto in via di principio.

Concordo, dunque, sostanzialmente con quanti (Levinas, Ricoeur, Taylor, Honneth, ecc.) valorizzano a fondo questa cifra onto-etica, che è di grande importanza anche in ambito politico. L'indicazione, naturalmente, non va intesa come esclusiva d'altro, ma come una ragionevole preferenza del nostro tempo. Un essere umano, alla fin fine, capisce sempre qualcosa di quel che gli si dice, perché ha in comune con un altro essere umano molte più cose di quanto non si sia disposti ad ammettere (anzitutto, naturalmente, il fatto d'essere un essere umano). Tra queste, non si può negare che vi sia il buon uso della ragione. Quindi il rimando ai grandi principi della ragione non può non toccarlo. Si discuterà pure del senso della ragione, eppure sempre secondo ragione. Ma un essere umano vuole, ancor prima e ancor più, essere riconosciuto come tale, cioè essere accolto come un essere umano (15). Gli umani lo sanno da molto tempo e non per nulla hanno chiamato questo tipo di relazione con un nome importante: "regola d'oro" ("Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te", nella versione sapienziale più corrente; "Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te", "Ama il prossimo tuo come te stesso" nella versione positiva, preferita dalla tradizione cristiana) (16). Il primo codice trascendentale e il più efficace è proprio questo. Il pluralismo qui è superato e, insieme, conservato.

Il primo codice e il più efficace. In effetti, il movimento di riconoscimento si riferisce all'intero dell'esistenza di un essere umano, mentre il codice legato all'universalità della ragione ha un impatto più circoscritto. Lavora nella forma dell'universalità, senza alcun dubbio, ma tende a mettere tra parentesi le altre modalità di relazione, da una parte; d'altra parte, esige un alto grado di formazione per essere esercitato e anche recepito come tale. In altri termini, la ragione è un codice universale, ma il suo esercizio pieno è un fatto aristocratico. Il riconoscimento è un codice universale più complesso, ma più praticabile dai più, perché prende a veicolo l'intero dell'esistenza, mentre si rivolge all'intero dell'esistenza dell'altro. Un gesto di riconoscimento può esser fatto da chiunque lo voglia, un discorso razionale può essere costruito solo da chi è stato addestrato (17).

La prima parte della nostra analisi può chiudersi qui. Aggiungo solo una piccola notazione, per esortare alla sinergia dei due modi di relazione indicati come codice dell'universalità (ragione e riconoscimento), quando si desideri comunicare in profondità Non basta, infatti, offrire discorsi razionali, quando si confligge. Essi sono quasi sempre trattati come armi e quasi sempre contrastati così come si contrastano le armi, cioè con altre armi. Molto raramente sono accolti come messaggi semplicemente razionali. Viceversa, non basta alla lunga offrire riconoscimento, se i discorsi sono poi irrazionali. Mancherà il contenuto del convenire (o non sarà un contenuto in grado di reggere il convenire). Ma questa esortazione ci introduce alla seconda parte dei nostri discorsi, che, appunto, si approssimano un po' di più al contenuto delle relazioni di riconoscimento.

 

Parte seconda. Libertà giustizia e bene

Ho tentato di affrontare la questione del pluralismo e di determinare che cosa può restare in comune tra gli esseri umani in una società pluralistica. Ho concluso: da un lato i grandi principi della ragione speculativa e dall'altro e soprattutto i grandi principi della ragion pratica. Ciò che mi sono permesso di sottolineare, per rendere più "amiche" queste antiche e venerande indicazioni, è il ricorso al grande tema del "riconoscimento", che attraversa, si può dire, la parte migliore del pensiero etico-politico contemporaneo (18). A mio avviso, all'interno di questo tema vanno costruite anche le proposte che concernono i tre luoghi che dobbiamo rapidamente visitare: la libertà, la giustizia e il bene. Lo faremo partitamente, nella speranza di riuscire più chiari. Ma è evidente che le tre parole sono strettamente intrecciate l'una all'altra e debbono essere quindi dilucidate tenendole tutte e tre in permanente tensione.

Il primo discorso che vorrei fare è quello sul bene, nonostante l'ordine delle parole della mia relazione ne risulti invertito (19). Sono profondamente convinto del fatto che dal bene cominci propriamente la possibilità di una determinazione equilibrata delle altre due parole: la libertà e la giustizia. La precedenza della libertà sul bene e sulla giustizia, presente provocatoriamente nel titolo della mia relazione, è in realtà un capovolgimento della vera sequenza teorica. Dobbiamo tale errata precedenza alla modernità. Essa compare con solennità epocale per la prima volta nelle parole d'ordine della rivoluzione francese: libertà, eguaglianza, fraternità. Da allora in poi ha fatto, purtroppo, molta strada. Dico "purtroppo", perché sono dell'avviso che, cominciando dalla libertà si onora un essere umano, ma solo cominciando dal bene lo si orienta in modo conveniente nei suoi propositi di vita, singolare o collettiva. E un essere umano è libero soprattutto per questo, per confrontarsi col bene. Il bene è infatti il fine d'ogni azione e nella vita pratica tutto prende senso dal fine.

Ma lasciamo i discorsi formali e veniamo a qualche considerazione un po' più contenutistica. Chiediamoci, anzitutto, perché nel corso della modernità il bene è stato gradualmente messo da parte (il grande discrimine è il Kant della Critica della ragion pratica). La risposta a questo interrogativo è nota ai metafisici - solo la richiamo - ed è duplice. Prima parte: il tema del bene è stato accantonato, perché strettamente legato all'ontologia metafisica, da Kant in poi (v. Critica della ragion pura), per comune convinzione, considerata impossibile. L'ontologia metafisica, veicolata, specialmente da Wolff (20) in avanti, come un sapere sistematico, con l'aura dell'assolutezza, era simbolicamente accostata, in termini politici, a qualcosa come la monarchia assoluta e/o il papato. Ma questo, in molti spiriti liberi, significava inevitabilmente dispotismo, autoritarismo, inquisizione e simili. La modernità è rappresentabile, da questo punto di vista, come la rivolta della soggettività contro un simile apparato, in nome d'un nuovo fondamento di senso: la soggettività medesima, cui appartiene essenzialmente l'attributo trascendentale della libertà. Il cogito cartesiano inaugura questa stagione, anche se l'emergenza della figura della libertà è da addebitare alla stagione illuministica.

Ma vediamo l'altra parte. Nella modernità il riferimento al divino, cui il bene era da molti secoli, in ultima istanza, rapportato, si attenua fortemente e gradualmente; dall'Umanesimo in avanti, viene innanzi, e anche occupa per intero lo scenario, l'essere umano con il suo mondo. Il contenuto del bene diventa proprio questo. Non è, il bene, sparito dalla circolazione delle idee: ha solo mutato nome. E del resto non poteva sparire, perché fa parte del modo in cui necessariamente viviamo. Dunque, il bene della soggettività moderna in rivolta è la soggettività medesima: in versione singolare o in versione comunitaria. Troviamo l'espressione più netta della rotazione di senso nella prima e nella terza parola della sequenza della rivoluzione francese: la "libertà" e la "fraternità". A seconda che si propenda per il primato dell'una o dell'altra parola, si avrà nel seguito il liberalismo o il collettivismo. Da allora, a mio avviso, non è cambiato molto su questo terreno. Tutti i pensatori etico-politici moderni e molti dei pensatori contemporanei si schierano tendenzialmente da una parte o dall'altra.

Direi che questa "vulgata" ha per ora pochi avversari. Ma a breve le cose potrebbero cambiare. Timidamente si fa innanzi presso alcuni post-moderni (ad es. Foucault) e presso alcuni esponenti radicali del pensiero verde (v. Bateson, ad es.) l'oltrepassamento della centralità del soggetto e dei soggetti, in direzione di un paganesimo cosmicizzante. Nietzsche è il piccolo padre anche di questa nuova ondata (21). La cosa era forse in certo modo prevedibile. Una volta eliminato il Dio della metafisica e della religione, il piccone della critica si è andato esercitando, anzi si è andato accanendo sulla portata trascendentale della soggettività, e ne ha decretato la fine. E allora, cosa può diventare riferimento ultimo del senso, messo da parte Dio e l'uomo, se non il cosmo, che è poi la terza della grandi parole della metafisica, ancora presenti nella critica kantiana come indicazioni sistematiche ideali?

Questa recente direzione di marcia lavora sulla fine della soggettività trascendentale forse anche a partire da un certo fascino indotto dalla vita materiale: la durezza delle dinamiche economiche, apparentemente incontrollabili; il trionfo della tecnologia, dilatabile, si opina, senza limiti; il fascino della biosfera, che fa sognare una sorta di unità mistica quanto alle forme di vita, compresa la vita umana; la rete mediatica che influisce potentemente sui costumi e produce condotte eteronome di massa, l'enorme flusso migratorio, che relativizza tutto ciò che la soggettività singola ha costruito come propria storia. La soggettività moderna, insomma, ne sembra schiacciata. Marx pensava ancora di mettere innanzi la grandezza della specie umana per governare la storia. I contemporanei si sono arresi, quando anche questa variante consolatoria è fallita. Le voci che fanno dell'umanità un giocattolo in balia di mani più forti, come sono quelle della tecnologia o quelle delle forze naturali, sono sempre più ascoltate (v. ad es. Severino).

Personalmente, resto scettico di fronte ai tentativi di oltrepassamento dell'orizzonte della soggettività in una neutra oggettività. Neutra, poi, non proprio, perché si colora subito di irrazionalità, arbitrarietà, crudeltà e cinismo. Nietzsche ancora una volta ha già predetto l'essenziale, cioè ha visto in anticipo la deriva di ciò che segue alla "morte di Dio". Egli voleva reagire a questa deriva, con un rinnovato umanesimo (22). E noi siamo forse ancora al punto in cui egli si era fermato; dobbiamo, cioè, capire che fare quanto al nostro destino di umani, ora che cominciamo a nutrire seri dubbi sulla capacità nostra di governare la terra.

Chiedersi da che parte andare è lo stesso che chiedersi qual è il nostro bene, il bene per noi post-moderni. S'intende: trattandosi del nostro bene, si tratta del bene non solo di un singolo, ma anche dei molti e in una società pluralistica. A guardare le cose un po' dall'alto, vien da dire che oggi bisognerebbe decidere quale delle tre grandi parole della metafisica prima citate può interessare una società pluralistica come riferimento di senso. Dico "può interessare". Faccio, in altri termini, un discorso di "persuasività", non un discorso di stretta "verità". Se dovessi fare un discorso di stretta verità, dovrei molto semplicemente affermare che il primo e, in certo senso, l'unico oggetto degno dell'attenzione originaria di un essere umano è l'Assoluto. Cioè, solo Dio è degno, in ultima istanza, dei nostri desideri e dei nostri pensieri. Nessun altro e nient'altro. La stragrande parte degli uomini, in modo più o meno rozzo o più o meno sofisticato, pensa spontaneamente così e in qualche modo cerca di onorare questo modo di pensare. L'enorme impatto sulla faccia della terra delle convinzioni religiose è lì a testimoniarlo. Solo una sparuta minoranza, in realtà, per lo più abitante dell'Occidente opulento e post-industriale, si permette, a questo riguardo, forme insistite o incistate di scetticismo a trecentosessanta gradi. Se si vuol fare, tuttavia, un discorso di persuasività etico-politica, cioè un discorso che si fonda su una serie di evidenze abbastanza facili da percepire per i più, allora il discorso sul bene in una società pluralistica non può che essere centrato sugli esseri umani. Non certo sulla natura, la quale deve essere, sì, oggetto di cura, perché è il nostro "grande corpo organico", ma, appunto, di una cura subordinata alla cura degli umani; non, purtroppo, su un Dio trascendente, perché non tutti lo riconoscono, perché di Lui, comunque, nulla possiamo sapere in linea puri intellectus, eccetto l'esistenza sua, e quel che ne diciamo quanto alla sua essenza, ci divide più di qualsiasi altra cosa. Insomma, resta l'uomo come fine. In termini etico-politici, cioè di pragmatica possibilità di stringere accordi potenzialmente universali, una impostazione come quella ad es. di Hans Jonas potrebbe essere accettabile. Ma studiosi come Rawls o Habermas propongono strategie simili. Del resto, se questo primato antropologico venisse perseguito a fondo, sarebbe più facile per molti sentire in cuor proprio il bisogno di volgersi all'origine ontologico-metafisica della buona qualità dei rapporti tra noi, anche perché una parte, almeno, dell'umanità sicuramente continuerà a testimoniare il nesso tra la pratica della fraternità e il rimando inevitabile ad una suprema e universale Paternità. Ma qui devo lasciare in sospeso il tema, perché andrebbe nel senso della teologia politica, su cui è bene che sia altri a dire.

In fondo, quasi tutti sono d'accordo nel considerare, almeno di fatto, l'essere umano come fine dell'azione politica. Ma le cose non funzionano molto. Perché? Rispondo: per via della enorme differenza che corre tra la teoria e la prassi. Noi oggi siamo sufficientemente d'accordo su alcune cose fondamentali da assicurare ad un essere umano, cioè abbiamo una certa unità di percezione intorno ai diritti fondamentali di un essere umano, ma siamo assai lontani dall'adottare pratiche conseguenti a livello globale e anche a livello locale (23). Ufficialmente nessuno contesta ad es. l'iniquità profonda delle discriminazioni razziali, ma sappiamo come è finita la conferenza di Durban. Del bisogno di assicurare a tutti la salute fisica, nessuno oserebbe apertamente dubitare, ma per combattere l'AIDS sono state stanziate dai paesi industrializzati, a Genova nel corso del G8, cifre ridicole. La fame nel mondo è un'urgenza tragica a tutti nota, ma grandi paesi sprecano risorse infinite negli armamenti o rigurgitano di cibi, che preferiscono buttare in pattumiera, anzi che darli a chi non ne ha affatto. Di un lavoro dignitoso uno ha diritto, ma la gran parte degli uomini di fatto ne è lontana. Le commissioni per le pari opportunità da noi sono numerose, ma la donna continua ad essere discriminata nei luoghi di lavoro. E via discorrendo. Questi problemi non li si vuole risolvere, perché nessuno vuole dedicarvi attenzione e risorse. Da questo punto di vista, tutti gli interrogativi intorno all'impossibilità di stabilire quel che è bene per tutti e quindi intorno all'impossibilità di perseguire il bene di tutti, somigliano alla domanda di Pilato intorno alla verità. Foglie di fico del mondo opulento, esibite per nascondere una sostanziosa vigliaccheria politica e morale.

Ora andiamo al tema della giustizia. Come è noto, la riflessione di filosofia politica si divide tra i sostenitori del primato della giustizia come elemento procedurale e formale dell'architettura della convivenza umana e i sostenitori del primato del bene o dei beni come acquisizione "sostantiva". Lo abbiamo accennato prima. Io credo, invece, che si tratti di due "cifre", la giustizia e il bene, per nulla alternative, anche perché entrambe "originarie".

Se ben si riflette, appare sufficientemente chiaro che il giusto è un certo rapporto, mentre il bene è il termine di un rapporto. Giusto, poi è il rapporto buono, mentre il bene non si risolve semplicemente nel rapporto giusto. Il rapporto giusto è solo uno dei beni possibili. I due significati, dunque, non sono propriamente equivalenti (il bene, ad evidentiam, ha una estensione maggiore), anche se l'uso linguistico tende a trattarli quasi in modo sinonimico (24). È vero, piuttosto, che essi in qualche modo si determinano a vicenda, perché il bene non può prescindere da un certo rapporto e il giusto non può fare a meno del riferimento al bene. E tuttavia, se è vero che il bene non può fare a meno d'essere un rapporto, ciò che nel determinare il bene importa è, in primo luogo, la natura dell'oggetto cui ci si rapporta; parimenti, se il giusto non può fare a meno di una relazione ai beni (questo è specialmente evidente nella giustizia di tipo distributivo, ma poi appare anche in quella di tipo commutativo), la natura del bene è per il giusto relativamente indifferente. Si può stare nel giusto con beni piccoli o con grandi beni. Conta, appunto la natura del rapporto, cioè che si tratti di un rapporto in cui non manchi l'uguaglianza (commutativa o distributiva che sia).

Che ne è della giustizia in una società pluralistica? La domanda importa che si trovi un rapporto giusto per tutti, indipendentemente da una certa identità culturale. Ora, che cosa è anzitutto giusto per qualsiasi essere umano? Ossia: quale rapporto un essere umano giudica come tale che non viola le proprie attese originarie di giustizia? La risposta obbligata mi par questa: per un essere umano è anzitutto giusto o ingiusto ciò che concerne l'immediato rapporto suo con gli altri esseri umani. E il rapporto giusto è il rapporto che rispetta, anzi onora e quindi si prende cura della soggettività nella sua trascendentalità; è il rapporto che lascia essere gli esseri umani come tali, cioè non li riduce a oggetti manipolabili; è il rapporto, per dirla kantianamente, che tratta un essere umano sempre anche come fine e mai come semplice mezzo. Sappiamo che questo, universalmente praticato, è proprio solo del rapporto di riconoscimento reciproco, perché solo nel riconoscimento reciproco le due (o più) soggettività si lasciano essere come tali. Bene e giustizia, dunque, qui convengono. Soltanto qui. E questo per il fatto che l'essenza di un essere umano è d'essere un rapporto. Egli è, dunque il bene del rapporto e, nel contempo, il rapporto del bene, se si rapporta riconoscendo. S'intende, secondo le forme della finitudine.

Non ho inteso, con ciò, dimenticare la complessità e la difficoltà di trovare criteri appropriati per la giusta distribuzione dei beni della terra. Non v'è dubbio che il concetto di giustizia passa, innanzi tutto e per lo più, per questa pratica quotidiana. Ma la giusta distribuzione dei beni non è che l'effetto, in parte, e in parte l'individuazione simbolica del giusto rapporto tra noi, che è, appunto, il rapporto di riconoscimento reciproco.

Come questo si traduce in concreto presso una società pluralistica? Direi: nel coltivare l'uguaglianza delle opportunità, anzitutto, cioè nel divieto assoluto di qualsiasi forma di discriminazione previa. Ma si tradirebbe già questo senso elementare della giustizia, se ci si arrestasse a questo punto. Un essere umano non è infatti un universale vuoto, ma un'esistenza singolare in cui universale e particolare insidono secondo una sintesi originaria e apriorica. Ciò significa che le opportunità hanno almeno un lato di individualità che va riconosciuto come tale. E poiché è un dato reale la disuguaglianza dell'esser al mondo di uno di noi, le pari opportunità iniziali sono propriamente un programma politico, non un fatto di natura; sono da costruire, non semplicemente da proteggere. Si tratta di un compito enorme, indubbiamente, e praticamente infinito. Quello stesso, del resto, che Marx aveva in mente e che poi è stato alla fine tradito da tutti i marxismi che si sono cimentati con la storia.

Giustizia in una società pluralistica è, in ultima istanza, la cura per ogni essere umano, cioè la sua promozione, e non solo la protezione neutrale dei suoi diritti. Questa consapevolezza è già stata abbondantemente acquisita nel Novecento e la nostra "costituzione" ne è impregnata. Ciò che oggi appare fin troppo evidente, è che questa consapevolezza o viene universalmente praticata o viene irrimediabilmente tradita. Che solo un popolo garantisca e promuova i diritti umani solo per i propri membri, oggi comporta la discriminazione dei popoli meno fortunati. E questa discriminaziione è proprio la negazione del principio che si vorrebbe applicare. Oggi le grandi discriminazioni, in una situazione globalizzata, passano non solo per i singoli, ma anche e forse soprattutto per i popoli. C'è oggi da difendere la giustizia in una società pluralistica planetaria. Tutto infatti si tiene, come si suol dire. Lo sperimentiamo tutti i giorni. Una discriminazione che accada davanti ad un porto della lontana Australia (25), muove subito la diplomazia internazionale, ma soprattutto è in tempo reale nota alla grande maggioranza degli uomini della terra. Diventa una "faccenda" di tutti, tanto quanto è una faccenda di tutti il ribasso delle borse europee o asiatiche o americane.

Giustizia dunque come riconoscimento della dignità di un essere umano, delle sue opportunità d'ingresso alla vita e del suo onesto disegno di fioritura. È a questo punto che può cominciare l'istruzione del tema della libertà. La libertà non può che essere l'ultima delle tre parole, e non la prima. Questo non significa che essa non sia altrettanto originaria delle altre due. Significa solo che è ordinata alle altre due, mentre non è vera l'affermazione reciproca. Lo smarrimento di quest'ordine, che direi onto-etico, è forse una delle più grandi sciagura della modernità. E noi viviamo ancora sull'onda di quella deriva. I moderni hanno fatto della libertà una magica parola, cui tutto dovrebbe essere sottomesso; ma la libertà, come prima ho ricordato, fa la dignità del gesto di un essere umano, non ne fa, da sola, la bontà, anche per il fatto incontestabile che esistono, e come!, gesti di libertà cattivi.

Una società pluralistica è possibile pensarla, solo se si oltrepassa la convinzione moderna del primato assoluto e incondizionato della libertà e si accede al primato assoluto e incondizionato del bene di e per ogni essere umano (che comprende di certo anche la sua condizione di libero, ma non si riduce a quella). Né basta dire che la mia libertà finisce, quando comincia la libertà dell'altro, che è lo slogan più noto della tradizione liberale. Non basta, anzitutto, perché questo slogan confligge teoricamente con l'idea del primato incondizionato della libertà. La libertà dell'altro invocata come limitante è, infatti, un bene dell'altro; quindi la libertà è limitata, come dev'essere, dal bene e non è affatto incondizionata. Solo il bene lo è. Non basta poi perché, riducendo il bene dell'altro alla libertà dell'altro, si tace di tanti altri beni dell'altro che devono costituire, anch'essi, un limite alla mia libertà. Non è sufficiente, infatti, che l'altro sia libero (26). Se l'altro è libero di morire di fame, e io sono libero di mangiare a crepapelle, la mia libertà è la maschera penosa e vigliacca di un delitto. Io mi approprio in esclusiva dei beni della terra che sono comuni e di fatto escludo l'altro che ne ha gli stessi diritti. Così lo lascio morire.

C'è un senso, tuttavia, secondo cui la libertà può esser concepita come incondizionata, ma non è il senso difeso dalla tradizione teorica liberale: io la chiamo: la libertà del bene, cioè la libertà di fare il bene (27). Qui la libertà è incondizionata, perché gode, per una sorta di simbiosi, dell'incondizionatezza del bene. Poiché in una società pluralistica, la libertà come arbitrio non può avere solo l'altrui libertà come limite, ma deve avere come limite tutti i diritti dell'altro, compreso certo anche quello della sua libertà, per questo l'umana libertà deve farsi carico di tutto ciò che la giustizia invoca per l'altro. È questa la ragione per cui le società liberali sono incapaci di essere veramente pluraliste, nonostante l'abbondanza delle dichiarazioni in contrario. Esse dimenticano facilmente, o meglio, occultano il lato della cura e della giusta promozione dell'altro e così proteggono di fatto le situazioni discriminanti, che sono poi la radice permanente della conflittualità endemica. La situazione nordamericana è un esempio per molti versi eclatante. Sotto il manto della libertà, messicani, asiatici e neri praticano in massa gli umili mestieri che consentono ai bianchi una vita agiata. Sono liberi d'esser poveri… Più o meno come accade in Italia per la fascia degli immigrati.

L'esercizio della libertà d'arbitrio dovrebbe poter diventare l'esercizio della libertà del bene. Ma questa è una condizione utopica, si dirà. Di solito la notazione è accompagnata da una confessione d'impotenza e quindi di inutilità. Ma non è necessario che sia così. L'utopia, nel suo senso migliore, è un ideale regolativo, non è una chimera. E l'ideale regolativo fa il suo onesto mestiere quando regola, cioè dirige l'azione. Qui si tratta di dirigere la libertà d'arbitrio di un essere umano. E nulla di più vero e realistico, se non che sia la libertà del bene a svolgere questa funzione. L'alternativa, cioè il semplice esercizio della libertà d'arbitrio, è infatti sinonimo della legge del più forte. Nietzsche ne era sedotto, e con lui molti altri, prima e dopo di lui. Ma la storia umana ha provato, in maniera inconfutabile, che essa è la fonte principale della barbarie. La deriva è poi il disordine politico e sociale, e, prima ancora, il disordine etico.

Se la libertà del bene guida l'azione, allora la mira è il bene dell'altro, cioè l'altro come bene. È anche il mio bene, ma di me come l'altro di un altro. Solo così io posso conseguire, storicamente parlando, il massimo bene. Sulle prime, questa affermazione può parere persino patetica: l'invocazione del "buon cuore" come regola di condotta in un mondo che il pluralismo tende piuttosto ad indurire. Una riflessione accorta però è in grado di far vedere che il mio bene, cioè poi la mia fioritura di vita, può avere senso solo se il movimento del desiderio verso l'oggetto a lui conveniente, il bene, appunto, compie il giro della referenza immediata all'alterità e di quella all'identità in modo mediato. Mediato, appunto dall'alterità. È questa, in fondo, la vera radice della giustificazione onto-etica e politica del pluralismo, ossia il fatto che il pluralismo non è una condizione cui ci si deve acconciare per la durezza dei tempi, ma la normale condizione degli esseri umani a questo mondo. Il primo pluralismo è il fatto molecolare che non sono solo al mondo, ma c'è altri (28). Le altre e innumerevoli forme di pluralismo crescono a partire da questa. Ma altri non è solo lì per caso; è piuttosto l'oggetto inevitabile del mio desiderio di vita, anche solo per il fatto che la soggettività trascendentale che io sono cerca e vuole qualcosa che l'appaghi come desiderio. E niente può appagarla che sia semplicemente un che di determinato (una "cosa"). L'apertura trascendentale del desiderio che io sono, chiede un oggetto adeguato. E poiché l'apertura trascendentale è una apertura intenzionalmente infinita, chiede un oggetto per sé, almeno in qualche modo infinito. Ma l'infinito reale non si sperimenta. Si possono sperimentare, e di fatto sperimentiamo, degli infiniti di tipo intenzionale. Sperimentiamo l'esserci d'altri. E vorremmo che altri fosse per noi appagante. Appagante altri può esserlo per noi, se si dispone, nella sua libertà, per noi: se ci desidera. Noi questo, infatti, sommamente desideriamo: d'essere desiderati, cioè poi d'essere amati. E questo desiderio è per noi vitale, assolutamente. Senza la possibilità di vivere come un essere desiderato, un essere umano muore… E non siamo liberi intorno a questo. Purtroppo siamo liberi di negar questo agli altri, cioè liberi di rifiutare loro il riconoscimento, che pure in ogni modo a loro chiediamo per noi. Ma è fin troppo ovvio che il sistema del riconoscimento, che è l'ideale della buona pluralità, si blocca subito se tutti chiedono d'essere riconosciuti, ma nessuno è poi disposto a riconoscere. Il sistema del riconoscimento esige dunque reciprocità, per funzionare. Questa reciprocità è propriamente la realizzazione di quella libertà del bene, di cui abbiamo fatto discorso. Cioè il reciproco e libero volersi bene, secondo i molti modi in cui questo può accadere nella quotidianità.

 

Conclusioni

Provo a tirare in breve le fila del mio discorso. Posso anche far presto, perché tutte le fila conducono, come si è di certo inteso, allo stesso punto: alla cifra del riconoscimento come forma regolativa dell'esistenza plurale degli esseri umani. La pluralità non egemonica infatti è possibile, se i molti si onorano reciprocamente, cioè appunto, reciprocamente si riconoscono. Nel reciproco riconoscimento, ognuno è signore dell'altro (in quanto riconosciuto nella propria trascendentalità, quindi come orizzonte inoltrepassabile di senso) e ognuno è servo dell'altro (in quanto riconosce nell'altro la signoria del senso). Le forme democratiche di vita politica tendono ad approssimarsi a queste dinamiche più d'ogni altra forma. Nella democrazia infatti l'autorità del cittadino su un altro cittadino non è di tipo egemonico; è o dovrebbe essere semplicemente di tipo funzionale. Tutti sono eguali, cioè tutti sono signori, ma fatti signori gli uni dagli altri, mai da se stessi (29).

All'interno della cifra del riconoscimento, come regola universale, prendono un senso determinato, come si è detto, tanto il bene, quanto la giustizia e la libertà. Bene significa voler ciò che consente la mia fioritura di vita; bene è dunque volermi bene, volendo bene altri come quegli che tale fioritura in me rende possibile. Altri, naturalmente, solo che lo si voglia o, meglio, solo che lo si creda, può essere scritto - dovrebbe anche essere scritto - con la maiuscola (la dinamica relazionale è la stessa). Il bene in una società pluralistica è questo, essenzialmente. Giustizia significa rendere ad ognuno ciò che gli spetta (unicuique suum). Ma ciò che spetta ad ognuno è anzitutto d'essere trattato come una soggettività (trascendentale). Cioè come un essere umano in totalità. La reciprocità riconoscente è dunque il luogo della massima giustizia per ognuno di noi. Libertà significa non arbitrio incondizionato, bensì libertà di fare il bene. E poiché il primo bene, storicamente parlando, è l'esserci d'altri per me, libertà del bene vuol dire di nuovo libertà di riconoscere l'altro come il mio bene. Questa è la libertà che libera, cioè la libertà come liberazione, reciproca pure questa in fine, dalla riduzione all'oggettività cosale.

In ogni società umana vale regolativamente quanto si è detto delle tre parole citate. Ma in una società pluralistica la questione diventa drammatica e la trasgressione molto più disastrosa. Nelle precedenti epoche, quando le unità politiche sovrane erano molte, si poteva agevolmente esportare il conflitto. Si poteva cioè indicare nell'estraneo (lo straniero) la fonte della trasgressione della cifra del riconoscimento. Il nemico era temibile, ma alieno. Una sorta di "marziano". È noto che questo è stato sempre il "trucco" di tutti i regimi autoritari. Lo è ancora, peraltro. In effetti, per compattare il popolo, essi preparano guerre, più o meno sante. Tutte le difficoltà interne vengono così messe a tacere. O almeno, lo si vorrebbe. Per fortuna, in una società pluralistica e per giunta globale, questo trucco non riesce più di tanto. L'aggressione non è esportabile all'esterno, se non nell'immaginario delirante di qualche fanatico. Il nemico è invece interno: il nemico è la disuguaglianza, cioè l'ingiustizia; il nemico è la libertà di pochi, cioè il privilegio; il nemico è, in fine, la relazione di dominio, cioè il male radicale tra noi, perché la relazione di dominio è quella che si oppone frontalmente alla relazione di riconoscimento. Se quest'ultima fa tutti signori e tutti servi, gli uni degli altri in reciprocità (quindi libera), quella fa solo tutti servi, con un solo signore: il despota, civile o religioso che sia (quindi incatena).

Io son convinto che in futuro, le nostre lotte saranno lotte globali per il riconoscimento (30) non solo dei nostri bisogni economici (come sinora in gran parte è accaduto), ma anche, anzi soprattutto, dei nostri bisogni di identità umana, politica e culturale. Cioè dei nostri bisogni universali di libertà e di dignità. Una sfida che può essere politicamente vinta o persa, a seconda che la libertà del bene sia o meno onorata. Una sfida che, in ultima istanza, rimanda inevitabilmente all'etica, dove però non si vincono e non si perdono battaglie una volta per tutte, almeno in questo mondo. Con l'insidia del male, lo sappiamo bene, avremo sempre a che fare, finché qualcuno non verrà a separare definitivamente il grano dal loglio.

 

 

Note

(1) Dobbiamo subito distinguere il pluralismo dalla multietnicità. Ci può essere l'uno senza l'altro, anche se per lo più i due fenomeni sono paralleli o sovrapposti. Una stessa etnia può avere storicamente culture diverse; una stessa cultura può unificare diverse etnie. Da quanto ho appena detto appare evidente che io considero il pluralismo sostanzialmente alla stregua di un sinonimo del multiculturalismo, nonostante alcuni distinguano nettamente i due significati (v. in questo senso soprattutto la discussione che ne fa G. Sartori in Pluralismo, multiculturalismo ed estranei, Rizzoli, Milano 2000; si veda anche V. Cesareo, Società multietniche e multiculturalismi, Vita e Pensiero, Milano 2000). La sovrapposizione dei due termini è tutt'altro che perfetta, d'accordo, ma ai fini della nostra analisi può essere consentita. La pluralità umana è data infatti anzitutto dalla pluralità culturale (nel senso ampio del termine, cioè come orientazione generale del senso della vita e quindi dei costumi di vita), la quale poi comanda le altre forme di pluralità, che sono specifiche (pluralità politica, giuridica, economica, linguistica ecc.). back

(2) Esemplificazioni emergenti: le caste in India, il maschilismo del fondamentalismo ebraico e di quello islamico. back

(3) Il tema della frammentazione e il bisogno di integrazione sono le note più ricorrenti nella vasta bibliografia sulla globalizzazione, dominata sostanzialmente da economisti, sociologi e politologi, quasi sempre molto critici di fronte al neoliberismo. Qualche titolo recente: J. Mander-E. Goldsmith, Glocalismo. L'alternativa strategica alla globalizzazione, Arianna Ed., Casalecchio (BO) 1998; C. Geertz, Mondo globale, mondi locali, Il Mulino, Bologna 1999; K. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste 1999; Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2000; A. Cuevas, La globalizzazione asimmetrica, Ed. Lavoro, Roma 2000; L. Wallach-M. Sforza, WTO. Tutto quello che non vi hanno mai detto sul commercio globale, Feltrinelli, Milano 2001; G. Ciccardi-M. Magatti, La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell'età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001; M. Pianta, Globalizzazione dal basso. Economia mondiale e processi globali, Manifestolibri, Roma 2001; D. Tettamanzi, Globalizzazione: una sfida, Piemme, Casale Monferrato 2001; AA. VV., Globalizzazzione: Nuove ricchezze e nuove povertà, a cura di L. Ornaghi, Vita e Pensiero, Milano 2001. back

(4) Si richiami alla memoria l'etichetta ricoeuriana: "maestri del sospetto", applicata a Marx, Nietzsche e Freud. back

(5) Il singolo può anche profeticamente rinunciare alla rivendicazione della "legittima difesa" dinanzi ad una relazione di dominio che mette a rischio la propria incolumità. Può testimoniare, cioè, sino al dono della propria vita, la superiorità etica della relazione riconoscente. Il responsabile di una comunità politica, invece, non può. Non può offrire la vita d'altri. Non ne ha il diritto. Mai. Deve, dunque, testimoniare in altri modi; in modi, appunto, politici, la superiorità etica della relazione riconoscente (ad es. ricorrendo alla legittima difesa, in caso di stretta necessità, evitando di tradire il senso della proporzione giusta nell'esercizio delle forza contro l'aggressore, rispettando le persone inermi, cercando forme di mediazione ecc.). back

(6) Secondo i multiculturalisti radicali, ogni cultura ha una coerenza sua ed è imparagonabile ad altre. Il paragone tra le culture implicherebbe una sorta di cultura-paradigma, a cui ogni altra cultura andrebbe riferita. Ma questa cultura-paradigma sarebbe, in realtà, solo una delle tante culture e funzionerebbe da riferimento solo perché i suoi portatori possono esercitare di fatto una certa egemonia. back

(7) Una rigida applicazione del pluralismo porrebbe anche problemi di protezione dei singoli individui. Una società multiculturale potrebbe imporre ai singoli condizioni di appartenenza alla propria comunità che violano diritti elementari. Per esempio, potrebbe imporre pratiche lesive della corporeità o della dignità personale (pratiche rituali che implichino mutilazioni corporee) oppure obblighi discriminatori (l'uso di una certa lingua ad esclusione di altre). back

(8) Per la verità, impossibile è anche, ma solo praticamente, l'obbiettivo opposto, quello del riconoscimento universale, di cui tra poco dirò. Che tutti gli esseri umani si riconoscano reciprocamente in modo incondizionato è la regola o dovrebbe esserlo. Ma la regola è diversa dalla pratica umana, che a quella solo si approssima. A fatica il singolo va da quella parte. Quando poi si tratta di intere comunità, la fatica è ancora più grande, perché la massa tende ad agire non secondo le forme più alte della vita comune, ma secondo quelle medie e, in non pochi casi, secondo quelle più basse. back

(9) La cosa sembra che vada da sé. Il problema sta nel determinare quali diritti precedono. Secondo alcuni (i neoliberali), sono i diritti dei cittadini a precedere, secondo altri (i comunitari) dovrebbero aver la meglio i diritti della comunità. back

(10) Su questo argomento, molto importante è il libro di F. Viola, Etica e metaetica dei diritti umani, Giappichelli, Torino 2000. Di Viola si leggano anche: Diritti dell'uomo, diritto naturale, etica contemporanea, Giappichelli, Torino 1989 e Identità e comunità, Vita e Pensiero, Milano 1999. Segnalo infine un numero monografico della rivista "Ragion pratica" (n. 11, a. VI, 1998), dedicato a "Gli effetti della Dichiarazione universale dei diritti umani sul diritto positivo". Il numero è a cura di F. Viola. back

(11) Neoliberali (Rawls, Habermas, Dworkin, Ackerman ecc.) e comunitaristi (Sandel, Taylor, MacIntyre, Bellah, Selznick ecc.) sanno, naturalmente, dell'esserci dell'altro lato della cosa, ma non lo considerano fondamentale, ossia lo riducono al primo lato. I neoliberali proceduralisti trattano come semplicemente accidentali le circostanze storico-empiriche delle singolarità umane; i comunitaristi tendono a eliminare 1'universalità o la trascendentalità dell'umano, tacciandola di vuoto astrattismo. Il dibattito, comunque, è negli ultimi tempi un po' cambiato, per via dei reciproci, inevitabili influssi. I comunitaristi si sono fatti sensibili ad un concetto di comunità più come destino che come radicamento, mentre i proceduralisti tendono a riconoscere l'incarnazione storica dei diritti umani e a trattarli come una pattuizione, anzi che come qualcosa di astrattamente regolativo. Cfr. AA.VV. Comunitarismo e liberalismo, a cura di A. Ferrara, Editori Riuniti, Roma 2000 (2a ed.). Di A. Ferrara si vedano anche Autenticità riflessiva, Feltrinelli, Milano 1999 e Giustizia e giudizio, Laterza, Roma-Bari 2000. back

(12) L'allusione, naturalmente, è soprattutto a Derrida. back

(13) "Sinderesis dicitur lex intellectus nostri, inquantum est habitus continens praecepta legis naturalis, quae sunt prima principia operum humanorum" back (Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, q. 94, a.1, ad 2um). back

(14) Fu lo Hegel, come si sa, ad attirare per primo gli sguardi dei filosofi sull'importanza di questa dinamica intersoggettiva nella sua Fenomenologia dello Spirito. Poi (specialmente nella seconda metà del Novecento) sono venute le analisi di Scheler, Husserl, Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty. Levinas, Ricoeur, Marion, Taylor, Honneth ecc.. back

(15) Accogliere un essere umano come un essere umano, significa rispettarlo come tale. Rispettarlo come tale significa rispettare in lui ciò che lo accomuna tutti gli esseri umani. Abbiano già accennato alla doppia composizione di un essere umano, cioè al fatto che trascendentalità ed empiria costituiscono la sua esistenza. Ora, mentre la trascendentalità per sua natura è propriamente il non della determinatezza, ed è dunque il luogo dell'universalizzazione, il lato empirico è qualcosa di strettamente individuale e quindi per definizione, in quanto semplicemente tale, non è universalizzabile. O lo è in quanto qualcosa di empirico in generale, nel senso che questo qualcosa di empirico in generale fa parte essenziale di un essere umano. Ogni uomo, detto in altri termini, ha un determinato corpo, un corpo individuato. E tuttavia ogni uomo ha una struttura corporea, e come tale essa è in certo modo componente dell'essenza di un essere umano. Ma universale si può dire della corporeità in un secondo modo, ancora più importante del primo. La corporeità è universale nel senso che la forma sua ultima, cioè la trascendentalità, proprio per il fatto che la informa, la trascendentalizza. Gli esseri umani hanno dunque questo in comune, che possiedono una forma trascendentale, la quale trascendentalizza la totalità dell'essere umano, eccezion fatta per la semplice accidentalità. Non che l'accidentalità non sia anch'essa investita dalla trascendentalità, ma come variabile indipendente può restarne anche separata. back

(16) Cfr., quanto alla tradizione ebraico-cristiana, per una formulazione negativa, Tob. 4,15; per una formulazione positiva, Lev. 19,18; Mt. 7,12; Lc. 6, 31. Per la letteratura critica, bastino: A. Dihle, Die goldene Regel. Eine Einführung in die Geschichte der antiken und frühchristlichen Vulgärethik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1962, che è una buona sintesi, e H. Reiner, Die goldene Regel und das Naturrecht, in "Studia Leibnitiana" IX/2, 1977, pp. 231-254, che tratta della regola d'oro come riferimento fondamentale del diritto naturale. Si potrebbe estendere la ricerca di Dihle intorno alla regola d'oro fini ai moralisti contemporanei. Credo che si potrebbero trovare non pochi esempi - più o meno espliciti — della sua valorizzazione (penso qui a nomi come quello di Rawls o come quello di Dworkin; Kant, che ha imparato dal Vangelo, ha fatto scuola). back

(17) Il riconoscimento reciproco è un principio che può avere una estensione minima e una estensione massima. Nella sua estensione minima (che è quella propriamente praticabile politicamente come codice universale) prende a contenuto solo l'essenziale dell'umano: importa che gli esseri umani si rispettino nella loro soggettività trascendentale e nella loro singolarità corporea, nella loro dignità e nella loro libertà. A partire da qui, la reciprocità può essere incrementata sino al riconoscimento reciproco dei particolari costumi, dei luoghi e dei tempi, delle relazioni con gli altri e con il mondo, della relazione con Dio. Cfr. qui nota 13. back

(18) Presuppongo un'informazione critica e un'analisi dettagliata di questo nucleo. So bene che tale presupposizione può dar l'impressione che la proposta pecchi di arbitrarietà. Per parare questa evenienza, peraltro legittima, rimando, per un lato, ad alcuni lavori in proposito che ho già pubblicato (un mio vol. organico sul tema uscirà, spero, a breve), e soprattutto a questi due: Sul trascendentale come intersoggettività originaria, sta in AA. VV., Le avventure del trascendentale, a cura di A. Rigobello, Rosenberg & Sellier, Torino 2001, pp. 11-34; Etica del desiderio umano (in nuce), sta in C. Vigna (a cura di), Introduzione all'etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 119-154; per altro lato, osservo che ogni principio è inevitabilmente "formale" e riceve il proprio contenuto dalle sue individuazioni, cui dà significato in quanto le riporta all'intero del senso (qui all'intero del senso della prassi umana). back

(19) Mi permetto rimandare al vol. da me curato, AA. Vari, La libertà del bene, Vita e Pensiero, Milano 1998 e spec. al mio saggio su Bene e male. Una riconsiderazione, ivi, pp. 55-80. back

(20) Di Ch. Wolff è stata di recente tradotta la Metafisica tedesca, a cura a con introd. di R. Ciafardone (Rusconi, Milano 1999). Testo tedesco a fronte. back

(21) Cfr. D. Sacchi, L'ateismo impossibile, Guida, Napoli 2000. back

(22) Prima ho ricordato Nietzsche come padre del pensiero pagano cosmicizzante, ora lo dico profeta di un nuovo umanesimo. Le due direzioni possono parere confliggenti, ma non lo sono necessariamente. Basta ordinare le due figure. E Nietzsche le ha effettivamente ordinate, indicando un nuovo senso dell'umano attraverso una nuova vicinanza alla terra, che resta per lui il grembo inoltrepassabile d'ogni vivente. Il nuovo Dio. Cfr. quanto scrive a tal proposito D. Sacchi nel suo libro (cit.). back

(23) In questo senso vedi anche N. Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell'uomo, in ID., Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, p. 129. back

(24) È anche evidente che l'oggetto cui ci si rapporta è più importante del rapporto. Il rapporto è una realtà intenzionale, mentre il bene è una realtà ontologica. Naturalmente, anche la realtà intenzionale è in qualche modo qualcosa e quindi ha una valenza ontologica, ma l'ha di seconda battuta. Un po' come accade alla verità rispetto all'essere. back

(25) Vedi l'episodio recente della nave di immigrati, cui si è negato l'attracco in terra australiana. back

(26) Il limite della libertà dell'altro è un modo ambiguo di dire e non dire il limite. Poiché anche la libertà dell'altro è limitata solo dalla mia, sembra che si venga a dire che, essendo la libertà solo limitata dalla libertà, essa è sostanzialmente illimitata, cioè assoluta come principio trascendentale. (v. Croce). back

(27) Rimando di nuovo al vol. La libertà del bene, cit., e stavolta spec. alla mia Introduzione, pp. 3-18. back

(28) Sul tema dell'alterità, con particolare attenzione ai testi agostiniani in proposito, rimando al bel libro di L. Alici, L'altro nell'io, Città Nuova, Roma 1999. back

(29) La democrazia portata a fondo è la vera società plurale in senso forte, ossia è la negazione, in tendenza, d'ogni forma di dominio di un uomo sull'altro uomo. Maritain e Mounier, mezzo secolo fa, avevano dato indicazioni autorevoli in questa direzione. Sono stati profeti di un mondo che, sul piano globale, è ancora di là da venire per miliardi di esseri umani. Dovrebbe essere questo il grande compito del secolo che si è appena aperto. back

(30) Prendo in prestito, ma in senso un po' diverso, una espressione habermasiana che compare come sottotitolo di un volumetto Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 1998, in cui sono raccolti due saggi, uno di Habermas e uno di Taylor, su questi temi. back