Trascendentalità e ragione argomentativa

Antonio Pieretti

Dipartimento di Filosofia, Università di Perugia

 

1. Nelle sue espressioni più significative il pensiero filosofico contemporaneo si è proposto come la coscienza critica degli inquietanti interrogativi che si pongono all'uomo dopo la drammatica esperienza di due guerre mondiali, degli efferati genocidi perpetrati nei campi di concentramento, delle inguaribili ferite provocate nel tessuto sociale dalle dittature, dalle discriminazioni razziali, dai sistematici attacchi alla giustizia e alla libertà. È così emerso in tutta la sua sconcertante paradossalità il carattere finito, limitato dell'uomo, che lo rende incapace di sottrarsi alla signoria della storia.

In verità, non si può dire che la filosofia, nel corso del suo plurimillenario cammino, non avesse già colto e messo chiaramente in luce questo sua peculiarità, ma per lo più l’ha considerata in stretta connessione con l’istanza di infinito e di trascendenza che opera attivamente nell’uomo, per cui non l'ha mai sottolineata in tutta la sua rilevanza speculativa, oltre che esistenziale. Il pensiero filosofico contemporaneo invece, anche per l'impossibilità di proporre nuove prospettive metafisiche, si è concentrato quasi esclusivamente sulla condizione umana e ne ha fatto l'oggetto di un'intensa ed appassionata ricerca.

Con questa scelta di campo, la filosofia nel suo complesso ha subito una profonda trasformazione, per cui è rifluita quasi interamente nel contesto della riflessione critica sull'attività pratica. Con la presa di coscienza della finitezza dell'uomo, essa tuttavia non ha rinunciato al compito, già assegnatole dai pensatori greci, di trovare un senso per l'esistenza, ma si è assunta coraggiosamente l'impegno e la responsabilità di cercarlo nel contesto stesso dell'esistenza.

In fondo è questo il messaggio che si può cogliere nella "morte di Dio" che Zaratustra annuncia agli uomini; con questo annuncio infatti si intende significare essenzialmente che è tramontata per l'uomo l'illusione di potersi affrancare dal tempo e di riuscire ad abitare"un mondo dietro al mondo". Alla base di tutti gli ideali in cui egli crede non c'è "neppure il nulla, scrive Nietzsche, bensì soltanto il non-degno, l'assurdo, la malattia, la viltà, la stanchezza, ogni sorta di feccia nella coppa, vuotata fino all'ultima stilla, della sua vita" (1).

Per l'uomo però superare l'abisso che gli si spalanca dinanzi allorché si scopre privo di senso, è una necessità che scaturisce dalla natura stessa della sua esistenza. Questa infatti, proprio in quanto è segnata costitutivamente dalla finitezza, è in se stessa possibilità. L'essere finita appunto equivale per essa a non disporre della ragione della propria condizione, ossia a non essere conclusa, autosufficiente e quindi a reclamare di essere compiuta, ad esigere di essere integrata in virtù della sua stessa natura e non già per una sua decisione o per una sua volontà. Significa altresì che nella sua struttura ontologica è contraddistinta da una tensione che la spinge oltre se stessa, vietandole di chiudersi in qualsiasi forma di isolamento: l'essenza dell'ente che ciascun uomo è, afferma infatti Heidegger, "è posta nel suo essere-per" (2).

Sotto questo profilo, il mondo come totalità costituisce il "luogo" inevitabile della proiezione dell'uomo oltre se stesso. Anzi, esso è talmente intimo all'essere finito che questi ne è "innanzitutto e per lo più" travolto. "L'essere è perciò, sostiene ancora Heidegger, l'espressione formale ed esistenziale dell'essere del Dasein, che ha la costituzione essenziale dell'essere nel mondo" (3). A sua volta il mondo, in virtù dell'intimità che lo lega all'uomo, non si risolve in un'entità fisico-materiale in sé completa ed autonoma, ma rappresenta un orizzonte in quanto è incentrato sull'uomo e trae significato da questo legame originario.

Non è dunque un caso che il pensiero filosofico contemporaneo, sebbene valorizzi tutte le manifestazioni dell'uomo, rivolga l’attenzione soprattutto a quelle che attestano in modo esemplare ed inequivocabile il suo essere-nel-mondo. Questo avviene perché vi ravvisa una disposizione in cui non solo si realizza la sua apertura al mondo, ma prende anche forma la responsabilità che inevitabilmente ne scaturisce tanto nei confronti di se stesso quanto nei confronti di ciò che fa parte del mondo, come gli uomini e le cose, poiché entrambi acquistano significato da questo loro originario in-essere. Pertanto vi individua la ragione della possibile dignità dell'uomo, oltre che della sua identità. Del resto, la coscienza morale, in cui la dignità dell'uomo si concretizza, si configura in stretta correlazione con la consapevolezza critica del suo essere-nel-mondo, della sua situazione. Essa cioè si propone più che come riflesso di un valore o di una norma precostituita, come l'avvertimento di una condizione di vita e l'invito a farvi fronte, a prendersene cura (4).

L'apertura al mondo che caratterizza l’uomo è dunque, al tempo stesso, l'espressione della sua finitezza. Si può pertanto dire che è costitutivo della sua natura l'essere in relazione con gli altri, con le cose, partecipare ad un rapporto di comunicazione con essi.

2. Ma non tutte le concezioni della comunicazione fanno di essa l'esperienza in cui la finitezza umana, anziché ripiegarsi su di sé e chiudersi in una sorta di assoluto non-essere, può riscattarsi ed acquistare un valore. Tra quelle proposte in questo ultimo scorcio di secolo la maggior parte risente del pregiudizio gnoseologistico o semanticistico che ha reso problematica la consistenza critica dell'intero pensiero filosofico moderno e contemporaneo. Esse tendono ad identificare la comunicazione con il processo mediante il quale si trasmette un messaggio da un soggetto ad un altro; perciò ne fanno un mezzo, uno strumento, anziché un'attività teoretica e pratica insieme in cui entrambi sono coinvolti nella loro stessa identità di esseri nel mondo. Si precludono così la possibilità di comprenderne la natura, perché si lasciano sfuggire non solo il rapporto intersoggettivo che vi si realizza, ma anche l'intenzione con cui i singoli soggetti vi prendono parte, la visione del mondo che ciascuno mette in gioco, l’obiettivo particolare a cui mira, nonché il ruolo che la ragione vi esercita nella sua capacità di "dare conto".

Una conferma di quanto detto si può vedere nella riflessione sulla comunicazione di cui si fanno interpreti non solo il positivismo logico e lo strutturalismo, ma anche la linguistica generativo-trasformazionale di Chomsky e l'indagine di tipo sociolinguistico proposta dalla scuola di Palo Alto. Nell'una infatti, anche se il linguaggio è una "produzione" della mente, tuttavia il pensiero è impersonale, perché non ha coscienza di sé e non è consapevole di ciò che fa. Inoltre, come è stato opportunamente rilevato, l'immagine dell'uomo che vi è correlata è quella "di un uomo agito più che agente: agito di strutture dèjà-là, date in eterno e in modo necessario dallo stesso corredo psicologico o biologico dell'essere umano in quanto tale" (5).

Nell'altra invece la dimensione comunicativa del linguaggio è riguardata alla luce dei rapporti con l'interazione sociale; perciò il ruolo che vi giocano i protagonisti della comunicazione, cioè il parlante e l'ascoltatore, in qualità di soggetti storicamente determinati, oltre che indefinito, non è neppure sufficientemente chiaro.

Una svolta sembra che si delinei con Wittgenstein, soprattutto mediante l'introduzione della teoria del significato come uso e con l'importanza fondamentale riconosciuta al contesto ai fini della sua comprensione. Il linguaggio infatti non è più concepito esclusivamente come "immagine" del mondo, ma è riguardato in tutta la varietà delle funzioni che effettivamente esplica nei rapporti sociali. Tuttavia, in Wittgenstein il contesto continua ad essere considerato in stretta connessione con l'impiego del linguaggio e perciò della sua comprensione. La comunicazione pertanto è intesa come una conseguenza delle modalità d'uso del linguaggio, piuttosto che come un'attività svolta da uomini che mettono a confronto le rispettive posizioni sullo sfondo della comune appartenenza al mondo e che mirano a dare un senso alla loro condizione esistenziale.

A queste difficoltà in cui si dibatte la riflessione wittgensteiniana sulla comunicazione in parte riescono a far fronte Austin e Searle mediante l'introduzione della teoria degli atti linguistici (speech acts). Tuttavia nella classificazione che Austin ne propone gli atti linguistici sono definiti in relazione al contesto sociale in cui sono compiuti, ma indipendentemente da ogni eventuale effettiva conseguenza perlocutoria determinata nell'ascoltatore. Perciò la comunicazione è concepita essenzialmente come un'attività svolta in maniera unilaterale dal parlante. Anche l'aspetto intenzionale con cui questi proferisce gli enunciati è sottovalutato; infatti non è tenuto in alcun conto il fatto che in questo aspetto egli fa intervenire una sua visione del mondo che deve essere colta, compresa dal parlante perché la comunicazione come rapporto intersoggettivo si sviluppi (6).

Non molto diversa è la situazione che si determina con Searle, perché nella sua concezione della comunicazione l'ascoltatore vi esercita la funzione che gli deriva dal fatto che dispone costitutivamente della capacità di comprendere. D'altra parte, la disparità che ne consegue tra i partner neon è abolita dallo "sfondo", cioè dall' "insieme di capacità mentali non rappresentazionali che rende possibile l'aver luogo di tutti gli atti di rappresentazione" (7). Lo "sfondo" infatti concerne soltanto l'ambito delle rappresentazioni e quindi del significato, mentre lascia assolutamente impregiudicati tutti gli altri ambiti che pure sono costitutivi della comunicazione in quanto attività capace di realizzare un rapporto intersoggettivo, ossia di reciprocità e di uguaglianza tra coloro che vi prendono parte (8).

3. Allo scopo di evitare l'esito sostanzialmente monistico a cui vanno incontro le concezioni della comunicazione proposte sia dagli analisti del linguaggio che dai sostenitori della teoria degli "atti linguistici", dalla fine degli anni sessanta si è fatta strada la tendenza, tra la maggior parte di quanti si occupano del linguaggio, a guardarlo soprattutto alla luce della sua funzione pragmatica. Con questo mutamento di prospettiva si è ribadito kantianamente che la costituzione degli oggetti dei quali è possibile parlare, avviene attraverso la mediazione del soggetto, ma non già inteso singolarmente, bensì quale si manifesta nell'uso dei segni, cioè nel rapporto intersoggettivo. Così, oltre a restituire alla comunicazione la prerogativa di attività in cui si riflette emblematicamente la finitezza dell’uomo e dunque la sua apertura agli altri, si è proceduto anche all'individuazione delle condizioni che la rendono possibile.

Nello stesso tempo però si è chiarito anche che, più che superfluo, è impossibile ogni tentativo che sia rivolto a dar luogo alla deduzione trascendentale dell'intersoggettività, perché, come è stato osservato, "nella conoscenza mediata dai segni di qualcosa in quanto qualcosa", quale si attua nel processo di comunicazione, "sono contenute in realtà entrambe le cose: la mediazione tra soggetto e oggetto nella forma di una interpretazione del mondo e la mediazione tra soggetti nella forma dell'interpretazione linguistica" (9). Perciò è risultato evidente che la partecipazione alla comunicazione rappresenta per l'uomo l'espressione della sua condizione esistenziale, vale a dire della sua originaria intimità con il mondo e dunque della sua appartenenza ad una tradizione storica e culturale sempre già data eppure sempre da rinnovare e consolidare.

Il contributo di maggiore rilevanza speculativa in questa "trasformazione semiotica del kantismo" si può ritenere quello che è maturato nell'ambito del ripensamento critico a cui è stata sottoposta la filosofia in Germania nell'ultimo ventennio, che prende il nome di "riabilitazione della filosofia pratica" e nel quale confluiscono, oltre le suggestioni contenute negli orientamenti più recenti dell'ermeneutica, soprattutto le proposte speculative di Apel e Habermas.

Riconoscendo la priorità alla dimensione pragmatica del linguaggio rispetto a quella sintattica e a quella semantica, la comunicazione assume le caratteristiche di un'esperienza condivisa a pari titolo dal parlante e dall'ascoltatore. La comunicazione intersoggettiva, sostiene Apel, "non va a parare, come previsto nel Tractatus, in un mero scambio di informazione su quel che accade, bensì primariamente in una comunicazione preliminare sul modo in cui si può interpretare il mondo, cioè stimarlo e valutarlo come qualcosa in riferimento a bisogni, interessi, posizioni di scopo e simili degli uomini" (10). Essa dunque risponde alla funzione di mettere a confronto i rispettivi progetti di azione di coloro che vi partecipano per trovare un'intesa, sullo sfondo di una comune interpretazione della situazione a cui i progetti stessi si riferiscono (11).

L'intesa che si vuole raggiungere però ha bisogno di essere giustificata; perciò non può essere né ingiunta né imposta mediante manipolazione, ma deve basarsi esclusivamente su comuni convinzioni. Coloro che partecipano alla comunicazione perciò sono chiamati a "intendersi su qualche cosa nel mondo" (12).

Ma questo obiettivo può essere conseguito solo a condizione che l'ascoltatore sia motivato razionalmente dal parlante. Ciò è possibile, osserva Habermas, non già "in base alla validità di ciò che viene detto, bensì in base alla garanzia coordinatrice assunta dal parlante impegnandosi a sforzarsi di soddisfare, in caso di necessità, la pretesa avanzata" (13). Nell'esecuzione di un atto linguistico infatti il parlante non si limita a proferire parole con un determinato significato, ma avanza anche tre pretese di validità e precisamente: la pretesa che l'enunciato sia vero, cioè che soddisfi la condizione di fare riferimento a qualcosa nel mondo effettivamente esistente; la pretesa che l'atto linguistico sia giusto, ossia che si inserisca in un contesto normativo e sociale legittimo; infine la pretesa che l'intenzione che riflette sia interpretata nel senso in cui è espressa (14).

Nello stesso tempo egli si impegna a fornire "buone ragioni" a sostegno di quello che dice e quindi a rendere conto, qualora gliene venga fatta richiesta, con argomenti delle pretese di verità e di giustezza che rivendica e mediante comportamenti coerenti della pretesa di veridicità. L'ascoltatore a sua volta, se non condivide la proposta d' intesa che è contenuta nell'atto linguistico del parlante, può contestarne la validità appellandosi ad uno dei tre aspetti richiamati, vale a dire rilevando che tale atto "non si accorda con il mondo degli stati di cose esistenti o con il nostro mondo di relazioni interpersonali ordinate legittimamente, o con il mondo privato delle esperienze soggettive vissute" (15).

Questo significa che il consenso che scaturisce dal processo di comunicazione "da un lato si riferisce al contenuto dell'espressione e dall'altro a garanzie immanenti all'atto linguistico e a vincoli rilevanti per le conseguenze dell'interazione" (16). Cioè si basa sul riconoscimento intersoggettivo delle pretese di validità avanzate da coloro che partecipano alla comunicazione. L'intesa invece, e quindi la riuscita della comunicazione, dipende dal processo di interpretazione mediante il quale i partecipanti, all'interno del sistema di riferimento costituito dal mondo oggettivo, da quello sociale e da quello soggettivo, pervengono ad una definizione comune della situazione relativa ai loro progetti d'azione.

4. Per Apel è "la comunità illimitata della comunicazione" che costituisce il fondamento trascendentale della comunicazione. L'applicazione di regole e la rivendicazione di validità degli enunciati proferiti infatti implicano che, in ogni forma dell'agire comunicativo, tanto il parlante quanto l'ascoltatore presuppongano l'esistenza di un gioco linguistico trascendentale che "ha appunto la sua base reale e il suo punto di partenza genetico nei fatti fondamentali della vita del genere umano" (17). Inoltre è in tale linguaggio e soltanto in esso che "si può realizzare, e perciò deve anche già sempre venire anticipato, l'ideale normativo della comunicazione" nel senso dell'interpretazione (18).

Nell'argomentazione razionale che si sviluppa nel processo di comunicazione perciò il parlante e l'ascoltatore entrano a far parte, idealmente, di una comunità di soggetti i cui membri si riconoscono come "partner di eguale diritto della discussione" (19). La "trasformazione semiotica del kantismo" dunque conduce a scoprire nella "comunità illimitata della comunicazione" l'a priori capace di fondare la possibilità della comunità reale e quindi della comunicazione come rapporto intersoggettivo.

Va però anche tenuto presente che, come osserva Apel, nella norma fondamentale del reciproco riconoscimento dei partner della discussione "è implicata virtualmente quella del 'riconoscimento' di tutti gli uomini come 'persone' nel senso di Hegel" (20). Ciò vuol dire che chi partecipa alla comunicazione non solo riconosce implicitamente tutte le possibili pretese di tutti i membri della comunità della comunicazione che si possono giustificare mediante argomentazioni razionali, ma si impegna anche a tenere conto delle "pretese virtuali di tutti i membri virtuali, vale a dire di tutti i 'bisogni' umani in quanto essi potrebbero porre pretese al prossimo" (21).

Di conseguenza, la giustificazione logica dell'agire comunicativo in realtà presuppone in coloro che vi prendono parte l'accettazione della norma morale che è implicita nella loro volontà di argomentare, cioè nella loro adesione alla "comunità illimitata della comunicazione" (22). E tale accettazione, scrive Apel, "in quanto deve essere presupposta in modo necessario, non ha il carattere di un 'fatto' humiano, bensì il carattere del kantiano 'fatto della ragione'" (23). In verità, egli non si nasconde che così concepita si tratta di una fondazione del tutto particolare dell’agire comunicativo, perché è ottenuta mediante un procedimento di riflessione trascendentale; tuttavia ritiene che sia l’unica possibile per un pensiero filosofico che intenda configurarsi secondo le modalità proprie dell’ermeneutica, in quanto su tale base non può consistere se non "nel tentativo di ricostruire, nel modo più completo possibile, le condizioni necessarie dell’argomentazione umana" (24)

Per Habermas invece è nell'orizzonte del "mondo della vita" che il parlante e l'ascoltatore si incontrano, mettono a confronto i loro punti di vista ed esercitano la possibilità di criticare o di confermare le rispettive pretese di validità. Il "mondo della vita" è costituito da "convincimenti di sfondo più o meno diffusi, sempre aproblematici" (25); perciò "fornisce le risorse per quei processi di interpretazione con i quali i partecipanti all'argomentazione cercano di soddisfare il bisogno di intesa sorto di volta in volta nella situazione d'azione" (26).

"Il mondo della vita" tuttavia è alla base dell'intendersi in generale e non già relativamente alle singole situazioni; coloro pertanto che partecipano all'agire comunicativo, "se vogliono attuare di comune accordo i loro progetti d'azione sulla base di una situazione d'azione definita in comune, devono intendersi su qualche cosa nel mondo" (27). Sono infatti i concetti formali del mondo, ossia il mondo oggettivo, quello sociale e quello soggettivo, che consentono di raggiungere l'intesa relativamente alle questioni di cui di fatto l'agire comunicativo si occupa. Si può dunque dire, come sottolinea Habermas, che "parlante ed ascoltatore si intendono a partire dal loro comune mondo vitale, su qualcosa nel mondo oggettivo, sociale e soggettivo" (28).

Occorre però rilevare che il "mondo della vita" costituisce per l'agire comunicativo l'orizzonte del suo possibile senso e della sua eventuale validità. Questo significa che esso non è soltanto presupposto dall'agire comunicativo, ma rappresenta anche nei suoi confronti il telos che è chiamato sempre a realizzare nella società storicamente data. Il "mondo della vita" cioé equivale tanto all'ideale costitutivo quanto all'ideale regolativo dell'agire comunicativo.

Di fatto, comunque, il "mondo della vita" può esplicare questa duplice funzione soltanto quando fra coloro che partecipano alla comunicazione si realizza un rapporto intersoggettivo, ossia esclusivamente nell’ambito di una "situazione dialogica ideale". Ora, questa situazione per determinarsi richiede norme che esprimano una volontà universale e perciò che obblighino chiunque vi prenda parte "ad assumere, nell'apprezzamento degli interessi, la prospettiva di tutti gli altri" (29). Presuppone cioè criteri di riferimento e modalità procedurali che si informino al principio di universalizzazione, il quale impone "quell’universale scambio di ruoli che G. H. Mead ha definito come ‘assunzione ideale di ruoli’ o ‘discorso universale’. Pertanto ogni norma valida deve soddisfare la condizione che le conseguenze e gli effetti secondari derivanti (presumibilmente) di volta in volta della sua universale osservanza per quel che riguarda la soddisfazione di ciascun singolo, possano venir accettate da tutti gli interessati (e possano essere preferite alle conseguenze delle note possibilità alternative di regolamentazione)" (30). E’ dunque in virtù del fatto che si conforma a questo principio che l'agire comunicativo per Habermas può svilupparsi entro l'orizzonte del "mondo della vita" e può contare sul consenso di tutti.

Il filosofo francofortese tuttavia vede ancora nella "pragmatica trascendentale" di Apel la presenza dell'aspirazione ad andare oltre la finitezza umana, soprattutto per l'insistenza con cui ricerca una fondazione ultima per l'agire comunicativo e per la pretesa che ha di poterla trovare in un principio morale esterno alla comunicazione. Si affretta perciò a precisare che l'idea dell'imparzialità, che è implicita nel principio di universalizzazione, "è radicata nelle strutture dell'argomentazione stessa, e non ha bisogno di esservi importata dall'esterno come un contenuto normativo addizionale" (31).

Per sottolineare inoltre il carattere storico, situato del principio di universalizzazione stesso Habermas afferma che può essere inteso come "una ricostruzione di quelle intuizioni quotidiane che stanno alla base della valutazione imparziale dei conflitti morali d'azione" (32), e che gli argomenti che si possono portare a sostegno della validità del principio morale che ne è alla base non hanno il significato di una deduzione trascendentale, ma attestano semplicemente che non esistono alternative logicamente possibili nei loro confronti (33).

5. In ogni caso ci pare di poter osservare che nella prospettiva di Habermas così concepito, il principio di universalizzazione non differisca affatto dalle condizioni formali che rendono possibile l'agire comunicativo. Il filosofo francofortese, del resto, non ne fa mistero: lo identifica con il principio dell'"etica del discorso" e, dopo aver dichiarato che "si riferisce a una procedura, cioè alla soddisfazione discorsiva di rivendicazioni di validità normativa", conclude affermando che "l'etica del discorso può a buon diritto essere connotata come formale. Non indica alcun orientamento di contenuto, bensì un modo di procedere" (34). A sostegno di questa tesi aggiunge che: il discorso pratico è "senza dubbio un procedimento non già per produrre norme giustificate, bensì per verificare la validità di norme proposte e valutate in via ipotetica" (35).

Non si può comunque negare che, sebbene continui ad essere formale come in Kant, tuttavia per Habermas il principio di universalizzazione contiene in sé già l’indicazione dei criteri che devono essere seguiti in vista della fondazione delle norme concrete (36). Del resto, "senza l’orizzonte del mondo vitale d’un determinato gruppo sociale, e senza conflitti d’azione in una determinata situazione, nella quale i soggetti partecipanti considerano proprio compito il regolamento consensuale di una materiale sociale discutibile, non avrebbe senso voler condurre un discorso pratico" (37).

Così è anche per Apel. Ponendo a fondamento della "comunità illimitata della comunicazione" il principio rivolto a garantire che i partner della comunicazione si riconoscono reciprocamente "quali persone aventi eguale pretesa alla rappresentanza argomentativa degli interessi" (38), egli fa sì che tale principio si inveri nello svolgimento del processo comunicativo. Di conseguenza, può dire che "l’etica formale del discorso — a differenza dell’etica monologica — fornisce anche il principio, proprio dell’ottica di un’etica della responsabilità, della mediazione tra il principio formale di universalizzazione e la fondazione delle norme materiali riferite alla situazione". Essa è in grado di svolgere questa funzione perché "rinvia fin dall’inizio i singoli alla partecipazione al discorso reale, in cui si possono raggiungere la migliore intesa comunicativa possibile sugli interessi reali ed un orientamento empirico ottimale circa le conseguenze e gli effetti collaterali dell'esecuzione delle norme" (39).

Con la "trasformazione semiotica del kantismo" viene dunque ripristinato un rapporto di interdipendenza tra il momento normativo-ideale e il momento materiale-fattuale dell’etica, come di fatto si verifica in ogni processo comunicativo storicamente determinato. I soggetti che vi partecipano inoltre, sebbene siano reintegrati nella loro condizione ontologica di esseri finiti, tuttavia appaiono percorsi da un'interna tensione verso forme di comunicazione in grado di assicurare loro la piena coscienza di se stessi e la realizzazione della loro identità di uomini.

Pur tuttavia, non si può dire che il problema dell’incidenza storica delle posizioni teoriche messe a punto rispettivamente da Habermas e da Apel sia risolto. Questo si deve in primo luogo al fatto che non solo il principio di universalizzazione di Habermas, ma lo stesso principio morale di Apel fornisce semplicemente "il modello (paradigma) di una procedura razionale...del regolamento interpersonale delle questioni moralmente e giuridicamente rilevanti"(40).

Inoltre, se è vero che tanto Habermas quanto Apel aspirano ad integrare il principio universale imposto dall’etica comunicativa con il principio strategico che prevede la responsabilità di assicurare la sopravvivenza della comunità reale della comunicazione e l’impegno per l’emancipazione dei suoi partecipanti, senza risolvere l’uno nell’altro e quindi lasciando inalterata la differenza, è però altrettanto vero che tale integrazione richiede come condizione imprescindibile l’anticipazione contraffattuale di una situazione dialogica o della "comunità illimitata della comunicazione". Per realizzarsi concretamente cioè essa esige che siano rimossi gli ostacoli che si oppongono al rispetto della norma fondamentale dell’etica del discorso e, come si può immaginare, non è impresa da poco.

Va infine detto, almeno per Apel, che tale integrazione è resa problematica dalla nozione di persona a cui il filosofo tedesco rinvia. La persona è chiamata in causa esclusivamente in quanto assolve la funzione logico-concettuale di assicurare una fondazione critica agli argomenti proposti da coloro che partecipano al processo comunicativo. Come tale, essa perciò riflette semplicemente "il punto di vista della ragione" (41), per cui ha una identità che prescinde dal suo essere-nel-mondo. Riguardata invece nell’ottica della sua condizione esistenziale, la persona si configura sì come una permanenza che resta sempre uguale nel tempo e nello spazio, come suppone la ragione, ma si tratta di una permanenza debole e varia, che essa è chiamata continuamente a riconquistarsi mediante un costante esercizio di interpretazione di sé e del mondo. Implica inoltre l’alterità, non solo perché si presuppongono reciprocamente, si intersecano e si offrono ad un’analisi comparativa, ma anche perché l’alterità è costitutiva della sua stessa ipseità (42). Cogliersi con la ragione ma attraverso i segni in cui si manifesta, infatti per l’uomo equivale a leggersi entro un orizzonte di appartenenza e dunque attingersi nella sua costitutiva disposizione alla dimensione dell’alterità (43). Ma questo livello di indagine trascende i limiti dell’approccio alla persona consentito dalla "trasformazione semiotica del kantismo" e richiede semmai il rimando ad un’ermeneutica dell’esistenza umana nelle forme concrete in cui si manifesta.

Alla luce di queste considerazioni critiche si può allora concludere che non è affatto un caso che Apel consideri l’integrazione del principio universale dell’etica del discorso con la sopravvivenza della comunità reale della comunicazione e con l’impegno per l’emancipazione dei suoi partecipanti come un ideale regolativo di kantiana memoria.

 

Note

(1) F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, in Opere, tr. it., Adelphi, Milano 1974, vol. IV, tomo III, ap. 32, p. 128. back

(2) M. Heidegger, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 19609, p. 42. back

(3) Ibid., p. 54. back

(4) Sull’intera tematica di indubbio interesse sono i contributi raccolti nel volume Ermeneutiche della finitezza. Atti del settimo colloquio su Filosofia e religione, a cura di G. Ferretti, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 1998. back

(5) S. Moravia, Dal monologo alla conversazione. Immagini della comunicazione umana nel pensiero contemporaneo, in Aa.Vv., La comunicazione umana, a cura di U. Curi, Angeli, Milano 1985, p. 65. back

(6) Cfr. A. Pieretti, Il linguaggio come comunicazione, Città Nuova, Roma 1978, pp. 135-138; L. Alici, Il valore della parola. La teoria degli 'Speech Acts' tra scienza del linguaggio e filosofia dell'azione, Porziuncola, Assisi 1984. back

(7) J. R. Searle, Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, tr.it., Bompiani, Milano 1985, p. 111. back

(8) Cfr. A. Pieretti, Intenzionalità e significato nell'atto linguistico. Linee di una filosofia della prassi, in Aa.Vv., Homo loquens, Ed. Dehoniane, Bologna 1989, pp. 150-166. back

(9) K.O. Apel, Comunità e comunicazione, tr.it., Rosemberg e Sellier, Torino 1977, p. 152. back

(10) Ibid., p. 139. back

(11) Cfr. J. Habermas, Etica del discorso, tr. it., Laterza, Bari 1985, p. 143. back

(12) Ibid., p. 145. back

(13) Ibid., p. 67. back

(14) Cfr. J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo. I. Razionalità nell'azione e razionalizzazione sociale, tr. it., Il Mulino, Bologna 1986, p. 420. back

(15) J. Habermas, Etica del discorso, cit., pp. 145-146. back

(16) J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo. I. Razionalità nell'azione e razionalizzazione sociale, cit., p. 406. back

(17) K.O. Apel, Comunità e comunicazione, cit., p. 199. back

(18) Ibid., p. 231. back

(19) Ibid., p. 239. back

(20) Ibid. E ancora: " Questa esigenza del riconoscimento reciproco delle persone come soggetti dell’argomentazione logica e non già l’uso logicamente corretto dell’intelletto degli individui, ci autorizza, a mio avviso, a parlare di ‘etica della logica’" (ibid.) back

(21) Ibid., pp. 259-260. back

(22) Sulla valenza etica della comunicazione, soprattutto in rapporto alla violenza, hanno richiamato l’attenzione anche E. Weil (Logique de la philosophie, Vrin, Paris 1950, pp. 24-25), H. Böll (Intervista sulla memoria, la rabbia, la speranza, a cura di R. Wintzen, tr. it., Laterza, Bari 1970, p. 3), W. Benjamin (Angelus novus, tr. it, Einaudi, Torino 19762, p. 17) back

(23) K.O. Apel, Comunità e comunicazione, cit., p. 253. back

(24) Ibid., p. 248. Albert, come è noto, obietta che l’etica apeliana sarebbe fondata mediante un’argomentazione che presenta come risultato un principio presupposto fin dall’inizio (cfr. H. Albert, Per un razionalismo critico, tr. it., Il Mulino, Bologna 1973, pp. 17-41 e 73-101; Id., Transzendentale Träumerein. K.O. Apels Sprachspiele und sein hermeneutischer Gott, Hoffman und Campe, Hamburg 1975, p. 60). Apel respinge l’obiezione di Albert dicendo che essa non fa che confermare la posizione ineludibile dell’a priori dell’argomentazione: "Nel senso dell’argomentazione noi non possiamo in quanto filosofi, retrocedere dietro la nostra volontà di argomentazione. Ciò poiché la volontà di argomentare non è condizione empiricamente, ma è la condizione trascendentale di possibilità di ogni spiegazione di condizioni empiriche assunte ipoteticamente. In quanto ammettiamo che la nostra discussione sui fondamenti deve avere senso incondizionatamente — cioè senza riguardo alle condizioni empiriche -, noi possiamo di conseguenza definire incondizionata o categorica la fondamentale norma morale implicita nella volontà di argomentazione" (K. O. Apel, Comunità e comunicazione, cit., pp. 251-252). back

(25) J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo. I. Razionalità nell'azione e razionalizzazione sociale, p. 138. back

(26) J. Habermas, Etica del discorso, cit., pp. 144-145. back

(27) Ibid., p. 145. back

(28) J. Habermas, Teoria dell'agire comunicativo. II. Critica della ragione funzionalistica, cit., p. 714. back

(29) J. Habermas, Etica del discorso, cit., p. 73. back

(30) Ibid., pp. 73-74. back

(31) Ibid., p. 85. back

(32) Ibid., p. 123. back

(33) Scrive infatti Habermas: "Non è possibile trovare il punto di vista morale in un principio ‘primo’ o in una fondazione ‘ultima’, ossia al di fuori della sfera stessa dell’argomentazione. Soltanto il procedimento discorsivo della soddisfazione di rivendicazioni di validità normativa contiene una forza giustificante; e l’argomentazione deve in ultima analisi tale forza al suo radicarsi nell’agire comunicativo" (ibid., p. 175). back

(34) Ibid., pp. 114-115. back

(35) Ibid., p. 115. back

(36) Cf. Ibid., pp. 73-74; inoltre J. Habermas, Moralität und Sittlichkeit . Was macht ein Lebensform rational’?, in H. Schnädelbach (hrsg.), Rationalität, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986, p. 212. back

(37) J. Habermas, Etica del discorso, cit., p. 115. back

(38) K.O. Apel, Comunità e comunicazione, cit., p. 44. back

(39) K. O. Apel, Grenzen der Diskursethik?, in "Zeitschrift für Philosophische Forschung", 1 (1986), p. 18. back

(40) K.O. Apel, Il problema della fondazione di un'etica della responsabilità nell'epoca della scienza, in Aa.Vv., Tradizione e attualità della filosofia pratica, a cura di E. Berti, Marietti, Genova 1988, p. 30. back

(41) Ibid., p. 23. back

(42) Per questo una delle ultime fatiche letterarie di Ricoeur si presenta con l’emblematico titolo Sé come un altro: "Sé come un altro, fa infatti rilevare, suggerisce fin dall’inizio che l’ipseità del se stesso implica l’alterità ad un grado così intimo che l’uno non si lascia pensare senza l’altro, che l’una passa piuttosto nell’altra — come diremmo in linguaggio hegeliano" (P. Ricoeur, Sé come un altro, tr. it., Jaca Book, Milano 1993, p. 78). back

(43) Per Levinas, come è noto, è l’altro che "apre il discorso originario la cui prima parola è un obbligo che nessuna ‘interiorità’ consente di evitare. Discorso che obbliga ad entrare nel discorso, inizio del discorso che il razionalismo cerca insistentemente, ‘forza’ che convince persino ‘quelli che non vogliono ascoltare’ e fonda così la vera universalità della ragione" (E. Levinas,Totalità e infinito, tr. it., Jaca Book, Milano 1980, p. 206). back