Autenticità, interpretazione, razionalità. Note su Alessandro Ferrara, Autenticità riflessiva(*)

 

Pierpaolo Marrone

Università di Trieste - Dipartimento di Filosofia

 

1. È mia opinione che Ferrara ci abbia consegnato un libro in certo modo coraggioso. Questo per molti motivi. In primo luogo la ricchezza dei temi: in poco più di 200 pagine i problemi affrontati da Ferrara sono davvero molti. Dall’idea di validità normativa (AF, pp. 30-34) a quella di universalismo (AF, pp. 83-110), dal problema dell’identità personale (AF, pp. 117-124) alla costruzione di una narratività personale coerente – e da qui al lessico della psicoanalisi – (AF, pp. 124-163), dal problema della scissione fra giustizia e bene (AF, pp. 17-31) all’idea di eudaimonia (AF, pp. 112-116); dal problema del circolo ermeneutico a quello dell’interpretazione riuscita dell’opera d’arte – e viceversa – (AF, pp. 192-229).

Si tratta di un’opera di etica in senso non ristretto, dal momento che per Ferrara (e su questo ritengo che centri perfettamente il punto) è necessario interrogare un ethos per avanzare, se non proposte di soluzioni ai dilemmi della nostra epoca, per lo meno strumenti interpretativi efficaci. Con il minimalismo del ricercatore appassionato Ferrara verso la fine delle sue riflessioni afferma che l’intento di queste non era nulla di più che costruire una base metodologica (una introduzione) per ricerche future. Tale minimalismo deve essere considerato in parte fuori luogo, ovviamente non perché insincero, ma a causa dell'importanza, la varietà, la vastità dei temi trattati che costituiscono altrettante sfide.

Qual è l’ethos interrogato da Ferrara? La risposta, in prima approssimazione, non è eccessivamente complicata: il nostro ethos è quel processo che alcuni autori (Galli (1)) hanno chiamato modernità, altri (Lyotard (2)) postmoderno. Si tratta di un movimento storico-intellettuale al cui inizio è possibile, problematicamente, collocare le guerre di religione e il cui esito è, altrettanto problematicamente, descrivibile come fine della trascendenza, dissolvimento dell’idea di Uno, Verità, Bene (o come altre volte si è sinteticamente, e sin troppo pomposamente detto, morte di Dio). Cosa ci rimane dopo la fine delle grandi narrazioni, ossia dopo il tramonto di un’idea condivisa di razionalità capace di assumere anche una persuasiva – se non necessitante – funzione normativa? È questo il problema principale individuato da Ferrara. Sono possibili, a mio avviso, più atteggiamenti:

a) la ricognizione archeologica e museale del passato. Questo stile, reso celebre dalla Seconda Inattuale di Nietzsche, corrisponde anche al movimento pervasivo che ha decretato l’estrema parcellizzazione del sapere. Non è detto che l’esito normativo di questo atteggiamento – che in parte è semplicemente un dato di fatto – sia un relativismo generalizzato, ma mi pare innegabile che questo ultimo atteggiamento possa essere sostenuto proprio da quel primo dato di fatto;

b) il riconoscimento che la costruzione dei significati è un compito umano. Questa idea potrebbe essere una delle conseguenze della cosiddetta svolta linguistica in filosofia, da Ferrara più volte richiamata. La svolta linguistica non è analiticamente legata a esiti relativistici, anche se ne costituisce una delle strategie possibili;

c) il riconoscimento del ‘fatto del pluralismo’. Questa espressione è divenuta celebre grazie all’elaborazione di Rawls successiva a Una teoria della giustizia (3), ed indirizza a sua volta verso esiti diversi a seconda che tale ‘fatto’ sia inteso: 1) come un trascendentale; 2) come una contingenza. Né in 1) né in 2) è di per sé iscritta la necessità di quello che viene chiamato overlapping consensus;

d) l’idea che è possibile una strategia ricostruttiva. Questa è palesemente una strategia antirelativistica che può assumere due forme: 1) la ricostruzione di una qualche identità infranta tramite il recupero di teleologie e morali tradizionali (4); 2) la via lunga della costituzione di un’etica condivisa che, naturalmente incompiuta, potrebbe però esibire alcuni risultati sin da ora.

 

 

2. Trovo le analisi di Ferrara di prima qualità, e ritengo che la miglior maniera di rendere loro giustizia sia di avanzare delle critiche ad alcuni presupposti che mi paiono non persuasivamente trattati. Queste critiche riguardano a) il concetto di ‘fatto del pluralismo’; b) la nozione di svolta linguistica; c) alcune episodiche, ma a mio avviso significative critiche che Ferrara rivolge all’idea di razionalità strategica; d) l’assenza di una riflessione sul ruolo degli esperti.

  1. il ‘fatto del pluralismo’. Siamo proprio sicuri che viviamo nel mondo dove si è affermato, come crede Ferrara – assieme a molti altri –, il ‘fatto del pluralismo’, ossia in cui il pluralismo dei valori è l’elemento descrittivamente più perspicuo?

Che cosa è questa convinzione, innanzitutto? Si potrebbe descriverla in molte maniere, ma una potrebbe essere questa: non esistono motivi determinanti per preferire il sistema di valori x, sostenuto da A, al sistema di valori y, sostenuto da B, a meno che A e B non condividano un retroterra argomentativo piuttosto esteso. Ma se anche si verificasse questa felice evenienza, di nuovo si potrebbe dare il caso che un soggetto C sostenga il sistema z con un retroterra di argomenti che non si sovrappone a quello comune ad A e B. L’idea è che non possiamo decidere razionalmente fra x, y, z, e quindi questi sistemi stanno a rigore sullo stesso piano.

Sono possibili naturalmente resoconti variamente graduati di questa situazione, a partire da quelli in cui i nostri sfondi si sovrappongono parzialmente – in una regione più o meno estesa –, a resoconti panalezeistici, e così via.

Ma quali ragioni abbiamo di sottoscrivere questa diffusa convinzione? Si ponga mente a quella che dovrebbe essere una delle conseguenze di questa coesistenza di una pluralità di valori collocati tutti sullo stesso piano riguardo al loro valore di verità: poiché i valori possono riguardare (secondo una distinzione avanzata fra gli altri da J. S. Mill, della quale mi servo solo didascalicamente e non perché la condivida completamente) sia i nostri comportamenti privati – comportamenti morali: che non hanno conseguenze sulle altre persone –, sia i nostri comportamenti pubblici – comportamenti etici: che riguardano le altre persone –, nessuno dovrebbe avere difficoltà a concedere che, allo stesso modo in cui sono legittimi diversi sistemi etici, siano anche legittimi diversi sistemi di produzione e distribuzione dei beni. In fin dei conti, la maggior parte dei conflitti e delle precarie forme cooperative fra individui e gruppi riguardano proprio la distribuzione di risorse scarse (denaro, tempo, salute, ecc.).

È questa la nostra situazione? Credo che basti aprire un qualsiasi quotidiano per scoprire che non è così. Nell’epoca del pluralismo dei valori, che dovrebbe sancire l’eguale dignità di sistemi etici fra loro in conflitto, rendendosi fedele al ‘fatto del pluralismo’, l’unico fatto sul quale pare esserci un accordo talmente diffuso da non essere quasi mai questionato – e da non essere questionato nell’opinione pubblica – è quello che sancisce il predominio della sfera economica su tutte le altre. Non esiste differenza rilevante fra destra e sinistra che non sia superata da un accordo fondamentale sul predominio dell’economico. Inoltre, questo accordo diviene sempre più un accordo su un particolare sistema, che non è affatto il vecchio sistema del capitalismo controllato che avevamo conosciuto a partire dagli anni Trenta. Questo nuovo sistema è quello che impone uno sviluppo continuo, e modelli di ricchezza e di lavoro che convergano su tale sviluppo (5).

La quasi totalità dei cittadini e dei governanti delle democrazie affluenti converge sull’idea che l’efficienza sia lo scopo della distribuzione della ricchezza – come alla fine di questo processo la ricchezza venga distribuita diviene secondario – semplicemente perché ci consente di creare nuova ricchezza. Tutto ciò che è efficiente diviene con ciò stesso desiderabile, e le nazioni alla fine sembra che debbano giustificare la propria esistenza perché assecondano le rispettive economie e non viceversa. Motivate dal timore che opporsi alle privatizzazioni, opporsi alla concorrenza, opporsi al permanere di anacronistici dazi e regolamentazioni sia solo il prodromo di periodi di declino più o meno lunghi, le nazioni accettano la fede della inevitabilità della globalizzazione – id est fanno propria una teleologia e una filosofia della storia, non appagate, evidentemente, dal fallimento di quella filosofia della storia che è stata il comunismo –, tesaurizzando l’ideologia dell’arricchimento continuo al pari di una nuova religione.

Il desiderio di arricchirsi è considerato lodevole anche quando accumulare denaro non è mitigato dalla stoica resistenza al desiderio di spenderlo (come accadeva nell’etica economica calvinista). La competizione assurge al ruolo di valore fondante delle relazioni umane. Lo scopo? Vendere, produrre, accentuare produttività, efficienza, accentuare cioè i processi di distruzione e costruzione economica. Proteggere gli individui e le comunità diviene necessariamente un compito del tutto equivoco, poiché non è affatto chiaro che in questo processo continuo di distruzione e costruzione rimanga ancora un qualche posto concettualmente difendibile per aspirazioni individuali e comunitarie che non siano economiche (6). La distruzione di queste travalica necessariamente la vita degli individui ed investe intere vocazioni, pratiche, professioni.

In questo senso il capitalismo senza controlli si estende ben al di là dei mercati e dei rapporti economici e riduce tendenzialmente tutto a rapporto economico. I contenuti stessi della cultura, dell’arte, della letteratura, della ricerca scientifica, dello sport risultano sostanzialmente deformati, quando non vengano addirittura soppressi, volti non più alla soddisfazione personale, alle motivazioni spassionate, ai vincoli etici, alla presunzione di influenzare le prospettive intellettuali dei nostri compagni nelle imprese comuni, ma piuttosto rivolti al denaro, al denaro e ancora al denaro (quasi mai per i diretti interessati, per altro). I rapporti di fiducia fra cittadini vengono erosi. Questo sta diventando sempre più vero, ad esempio, nel campo della medicina. Tramonta la medicina sociale e avanza la medicina finalizzata al profitto. Al momento di saldare la parcella sempre più spesso ci viene il dubbio che esami costosi e spesso inutili non siano diretti a migliorare il nostro stato di salute, ma a gonfiare i profitti di medici, cliniche private, industrie farmaceutiche (7). La mia opinione è quindi che noi non viviamo nell’epoca del pluralismo dei valori, come crede Ferrara, bensì nell’epoca di un monismo trionfante, dove nessuno dei valori fondanti viene messo in discussione: si tratti di flessibilità, di efficienza, oppure di moneta unica, di Banca Centrale Europea, di Unione Europea, ecc.

b) la svolta linguistica. Questa idea mi sembra imprecisa, eccessivamente enfatizzata, e troppo polimorfa per essere praticabile al di là di un utilizzo suggestivo. Che cosa si intende per svolta linguistica? Molte cose perché molta della filosofia di questo secolo è stata, del tutto opportunamente, interessata e agli atti linguistici, e ai linguaggi descrittivi e prescrittivi (8). Basta questo per farne una metafisica sebbene nella forma di una post-metafisica? La mia opinione è che alcune delle manifestazioni della svolta linguistica, di gioco linguistico, di essere che parla attraverso il linguaggio ("l’essere che può essere compreso è linguaggio") siano semplicemente troppo olistiche per essere vere. Mi riferisco in particolare a: 1) un esito profetico, quale quello desumibile dal secondo Heidegger, e forse ancor di più in una sua certa ricezione; 2) un esito che enfatizzando l’onnipervasità degli strumenti ermeneutici – quale quello desumibile, ad esempio, dall’opera di Gadamer, dalla riflessione di Ricoeur, e da quella di Derrida – annuncia la inevitabile collocazione di ogni nostro discorso.

  1. su questo primo esito confesso di non avere molto da dire, se non che ritengo che ‘essere si dice in molti sensi’ e che mi pare dubbio che l’accesso privilegiato all’essere - in quanto sarebbe distinto dalla totalità degli enti, come la sostanza di Spinoza è distinta dalla somma dei modi - debba avvenire attraverso la poesia, o attraverso il pensiero rammemorante, anziché attraverso altri strumenti – che magari ci fanno sentire meno solipsisticamente intelligenti, ma che hanno forse il pregio di farci conversare con gli altri;
  2. Ferrara sottolinea opportunamente due aspetti dell’opera di Gadamer: a) il recupero della phronesis, e b) il filo conduttore dell’opera d’arte. Ora, il primo non è ovviamente di per sé estraneo a o intrinsecamente polemico verso pretese veritative, piuttosto sottolinea come nelle enciclopedie del sapere ci siano settori dove la pretesa di verità è più debole che in altri, ed è soggetta a verifiche più complesse, sia nel senso di essere in linea di principio più lunghe che in altri settori, sia nel senso di attuarsi nella conversazione con altri uomini.

In questo ultimo senso io riconosco una specificazione del principio del dialogo di Calogero. Certo, Calogero opponeva principio del dialogo e principio del logo, ma era mosso a tale opposizione: a) da quella che considerava la conclusione della filosofia del conoscere, ossia il tramonto delle filosofie infinitistiche e provvidenzialistiche otto-novecentesche (esemplarmente testimoniata dall’attualismo gentiliano); b) dal riconoscimento che ogni attività umana si muove a partire da una sfera di interessi, che anche il disinteresse presuppone un interesse per il disinteresse. a) e b) gli facevano concludere che tutte le attività umane sono attività pratiche. La phronesis è la codificazione comportamentale maggiormente evidente di una condizione universalmente umana.

Per quanto riguarda l’opera d’arte non posso addentrarmi in una discussione di che cosa significhi e cosa sia un’opera d’arte riuscita. Non lo posso fare per il semplice motivo che non sono competente. Non vorrei, inoltre, apparire troppo vecchio (ma si sa: talvolta basta essere sufficientemente vecchi per essere un giorno all’avanguardia) affermando che a me il principio crociano dell’intuizione lirica appare ancora suggestivo in quanto sottolinea un contenuto emotivo che mi sembra insuperabile.

Alla luce di queste cautele e incompetenze, non comprendo, tuttavia, in che modo l’opera d’arte riuscita sia un efficace termine di paragone per l’identità personale riuscita, come vorrebbe Ferrara. Che cos’è l’identità personale riuscita? L’unità di una narrazione? Ma qualsiasi cosa, basta avere un po’ di pazienza, può essere ricondotta a una qualche unità. La felicità di una interpretazione? Ma per decretare la felicità di una interpretazione rispetto a un’altra non occorre essere in possesso di un qualche criterio esterno? Sarà sufficiente far riferimento alla storia dei suoi effetti? Io penso di no, per il semplice motivo che la storia degli effetti può essere una storia equivoca che ripropone intatti i dilemmi dell’interpretazione corretta, a meno di non proporre una interpretazione idealistico-berkeleyana dello slogan ‘non esiste un vero senso del testo’. Tuttavia, quest’ultima interpretazione è self-deafiting e non credo corrisponda alle intenzioni - saranno poi le vere intenzioni? - né di Gadamer, né di Ricoeur, né di Derrida.

È certo che questo non ci dispensa dall’interrogare il peso formidabile che le nozioni di verità, validità, testo hanno assunto nella nostra tradizione, ma, di nuovo, a meno di sostenere che tutto è testo, che non c’è differenza fra un testo letterario, il testo di un’opera, e che, ne so, il testo costituito dalla storia della concettualizzazione dei gluoni in quanto distinto dalla loro realtà, o la storia di un’epidemia in quanto distinta dalla realtà effettiva di un’epidemia, io credo che la posizione che afferma che tutto è testo è semplicemente insostenibile. La ragione è: il mondo non è una biblioteca, né l’affermazione polemica che ‘non esiste un vero senso del testo’ o che ‘tutto è testo’ può essere sostituita dall’altra apparentemente accettabile che tutto sia costruzione sociale (espressione molto di moda nei paesi anglosassoni, che di solito lascia indistinti i significati ontologici ed epistemologici di ciò che viene assunto come costruzione) (9).

In un modo diverso da quanto accade per l’opera d’arte devo dichiarare la mia incompetenza rispetto a molto di ciò che da Ferrara viene detto a proposito della psicoanalisi. Forse qui la mia incompetenza è più motivata nel senso che, se nel caso dell’opera d’arte in fondo si può dire che tutti abbiamo un’esperienza estetica, nel caso della psicoanalisi è molto più difficile affermarlo. Si tratta di un caso analogo alla pratica zen o alla pratica di un’arte marziale: è difficile spiegare di che cosa si tratta a chi non è effettivamente implicato nella pratica stessa. Faccio solo alcune osservazioni: Ferrara non sottolinea mai il contesto della guarigione, cui ritengo dovrebbe essere indirizzata quella che rimane una pratica clinica, né mi pare di aver trovato nelle indicazioni bibliografiche dati che riportino percentuali di successi e di fallimenti delle diverse terapie, né indagini epidemiologiche con gruppi di controllo. Per quale motivo? Sino a che punto è legittimo trattare le diverse terapie come delle produzioni intellettuali e non anche come delle terapie? Se la psicanalisi è uno degli strumenti che ci dovrebbero consentire di affrontare il tema dell’autenticità, via l’indagine sulla soggettività nevrotica, frantumata, e dispersa, è improprio attendersi che alcune tecniche siano più valide di altre? E se sono più valide, sarà perché hanno un maggiore valore cognitivo o per qualche altro motivo (effetti placebo, desiderio di compiacere l’analista, e così via)?

c) razionalità strategica. Vorrei spendere anche qualche parola relativamente alle critiche episodiche, ma importanti che Ferrara rivolge (via Rorty) alla teoria dei giochi in quanto questa utilizzerebbe un’idea astratta di soggetto nelle sue teorizzazioni. (AR, p. 68) Dal momento che la teoria dei giochi è una teoria matematica è però difficile intendere come una critica quello che è solo un dato di fatto. Bisogna allora credere che Ferrara ritenga, come molti altri, che gli strumenti offerti dalla teoria dei giochi non siano dei buoni strumenti di descrizione di alcune attività umane. Tuttavia, in alcuni campi dove sono stati applicati quello che sicuramente possiamo dire è che abbiano quanto meno dato buona prova di sé. Ad esempio, nella crisi missilistica di Cuba, nella crisi di Berlino, nelle conseguenze del programma Star Wars.

Qual è il motivo di questo successo? Io credo sia da ricercare nel fatto che le situazioni di escalation impongono alle parti di pensare alle proprie azioni come un gioco che si compone di mosse successive. Al contrario di quello che di solito si crede, le assunzioni sulla razionalità delle parti sono molto poco esigenti in queste teorie anche nello stesso ordinamento delle preferenze (non vale, ad esempio, nemmeno il principio di transitività). Per il resto, la teoria dei giochi e i campi affini – teoria dei conflitti, teoria della negoziazione, teoria dell’escalationassumono, e non negano, che l’assegnazione di valori numerici alle preferenze e agli ordinamenti di preferenze è arbitrario, ovvero dipende da un sistema di valori che è precedente alla teoria. In altre parole, il concetto di razionalità di cui si fa uso, nelle situazioni di rischio ed incertezza soprattutto, è un concetto di razionalità limitata. I filosofi, soprattutto quanti fra essi, e spero siano i più, abbracciano un certo pessimismo gnoseologico dovrebbero avere maggiore simpatia verso queste teorizzazioni nella misura in cui sottolineano le nostre incompetenze conoscitive.

d) il ruolo degli esperti. Infine vorrei dire qualcosa su una strana assenza nel discorso di Ferrara. Mi pare che manchi nella ricchezza della sua indagine un posto adeguato alla questione del ruolo degli esperti nella costruzione della nostra identità. Se infatti dobbiamo pensare, come anche Ferrara non manca di ricordarci, che l’identità personale di noi soggetti postmoderni sia situata, contestuale, incompiuta (ma non necessariamente insensata), allora dobbiamo anche interrogarci sulle pressioni che i saperi locali degli esperti esercitano nel modellare queste identità. Penso, ad esempio, al sapere informatico, al sapere farmacologico e in genere biomedico, all’assunzione acritica anche in presenza di forti fattori di disturbo di ipotesi affrettatamente accettate e, cosa ben più grave, sottratte al dibattito pubblico – che in una società democratica dovrebbe in linea di principio riguardare qualsiasi pratica.

Si dirà che questa non è che una conseguenza della divisione del lavoro e della crescente specializzazione che tanti benefici ci ha invece consegnato. Si tratterebbe, quindi, di un ragionevole prezzo da pagare. Ritengo che ragionare in tal modo sia sbagliato. Noi non siamo attualmente in possesso, come sosteneva Mill, di un criterio universalmente accettato di discriminazione delle credenze vere giustificate. In una situazione del genere è plausibile – anche in base a quello che talvolta si chiama teorema della giuria di Condorcet – attendersi che il progresso della conoscenza si avvantaggi della discussione pubblica.

 

 

Note

 

(*) Una prima versione di questo scritto è stata letta il 12 giugno 2000 al centro culturale Veritatis Splendor di Bologna, nell’ambito di un seminario dedicato al libro di Alessandro Ferrara, Autenticità riflessiva, Milano, Feltrinelli, 1999 (d’ora in poi citato nel testo come AR, seguito dall’indicazione della pagina). Il seminario rientrava nelle attività scientifiche del gruppo di ricerca su Giustizia, verità, bene nel postmoderno diretto da Carmelo Vigna. Sono grato ad Alessandro Ferrara, a Carmelo Vigna, e a tutti gli altri partecipanti per le loro osservazioni critiche. Grazie anche a Edoardo Greblo e Fabio Polidori per una lettura di una successiva versione. back

(1) C. Galli, La 'macchina' della modernità: metafisica e contingenza nel moderno pensiero politico, in Galli C. (a cura di), Logiche e crisi della modernità, pp. 83-142, Bologna, Il Mulino, 1991. back

(2) J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981 (La condition postmoderne, Paris, Minuit, 1979). back

(3) J. Ralws, Liberalismo politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994 (Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993). back

(4) Forse è questo uno dei significati di A. McIntyre, Dopo la virtù, Milano, Feltrinelli, 1988 (After Virtue, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 19842). back

(5) Si vedano le analisi e le esemplificazioni di E. Luttwak, La dittatura del capitalismo, Milano, Mondadori, 1999. back

(6) In questa prospettiva, il multiculturalismo non può che essere uno stadio provvisorio di una più definitiva integrazione economica. Sui problemi teorici del multiculturalismo all’interno del liberalismo, si veda W. Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1999 (Multicultural Citizenship, Oxford, Oxford University Press, 1995). back

(7) È questo ultimo un tema che ricorre spesso, con tono solo apparentemente lieve, in K. Mullis, Ballando nudi nel campo della mente, Milano, Baldini & Castoldi, 2000 (Dancing Naked in the Mind Field, New York, Pantheon Books, 1998). back

(8) Alcune implicazioni di questo atteggiamento generale sono esaminate da F. Longato, Interpretazione, comunicazione, verità, Napoli, la Città del Sole, 1999. back

(9) Su questo problema si veda I. Hacking, La natura della scienza. Riflessioni sul costruzionismo, Milano, McGraw-Hill, 2000 (The Social Construction of What?, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1999. back