Comunità senza comunitarismo. Considerazioni a margine di L’eredità romantica di Charles Larmore

 

Edoardo Greblo

Liceo Scientifico "G.Galilei"

Università di Trieste, Dipartimento di Filosofia

 

 

La querelle che nel corso degli anni ’80 ha portato la filosofia politica a dividersi tra liberali e comunitaristi sembra ormai tramontata. Da entrambe le parti i segnali di distensione — tra quelle che si sono comunque misurate come tradizioni rivali — tendono a prevalere sulle ragioni di dissenso. Nonostante gli estremi costituiti da un liberalismo dichiaratamente anticomunitario [Kateb 1989 e Vitale 2000] e da un comunitarismo dichiaratamente antiliberale [MacIntyre 1992], i segnali di compatibilità hanno finito per soverchiare gli elementi di estraneità. In effetti, il tema del contendere è tutt’altro che irrilevante, dato che mette in gioco l’identificazione dell’individuo con la comunità sulla base del primato assiologico e ontologico delle identità collettive in contrasto con la sua distanza critica da schemi di comportamento prestabiliti e quindi investe il problema dell’integrazione sociale nelle moderne società complesse in funzione della solidarietà tra soggetti politici portatori di visioni confliggenti del bene. A essere in questione vi è anzi, il ruolo, la portata e l’estensione dei processi di giustificazione politica: mentre nella prospettiva liberale il compito della politica si esaurisce nella aggregazione degli interessi sociali dei privati nei confronti di istituzioni statuali che servono a amministrare il potere politico in funzione degli interessi collettivi, nella prospettiva comunitaria la politica viene invece considerata come costitutiva degli stessi processi di socializzazione entro comunità naturalisticamente solidali e consapevoli. I comunitaristi hanno infatti opposto, tanto sul piano della genesi quanto sul piano normativo, il valore dell’autodeterminazione civica alla tendenza liberale volta a ridurre il processo di giustificazione politica alla semplice mediazione di interessi particolaristici, contrastando la possibilità di assimilare la vita politica alle strutture di mercato o di appiattirla sulle strutture dell’apparato statale. Nella prospettiva comunitaria, la sfera dei rapporti ereditati di riconoscimento reciproco che si condensano in forme di appartenenza socialmente vincolanti si traduce così in una visione della comunità che si autotrasforma attraverso la volontà comune di cittadini che condividono una comune visione del bene, e in una visione del potere politico come espressione di una comunità che amministra se stessa piuttosto che come potere separato, circoscritto al solo ruolo di garanzia dell’autonomo traffico sociale dei privati.

Questa diversa visione del processo politico, che da una parte viene considerato in base a un modello di agire strategico che prevede la concorrenza di individui privati per conquistare le risorse suscettibili di mettere a loro disposizione il potere amministrativo, dall’altro viene inteso come cooperazione tra interessi e orientamenti di valore che sono costitutivi della identità comunitaria complessiva, ha visto recentemente attenuarsi le ragioni di dissenso quasi elettivo che hanno portato liberali e communitarians a intrattenere, come ha scritto Charles Taylor, un "dialogo tra sordi" [Taylor 1992]. Da parte liberale, ad esempio, il concetto di neutralità non viene più fatto coincidere con "lo sguardo da nessun luogo" di Nagel [Nagel 1988], ossia con una idea di neutralità assoluta (in cui la forza legittimante delle opinioni non va al di là della semplice autorizzazione a conquistare in forma giuridicamente e costituzionalmente regolata posizioni di potere amministrativo) dei principi di giustificazione politica, quanto con una idea di neutralità situata. Per reperire una fondazione politica e non "metafisica" del liberalismo, l’ultimo Rawls si collega infatti al metodo dell’equilibrio riflessivo, che ricava i concetti fondamentali della teoria a partire da una ricostruzione razionale di intuizioni già consolidate, e dunque considerate come immanenti alle pratiche e alle tradizioni di una società democratica. L’equilibrio riflessivo viene raggiunto quando la teoria verifica che le intuizioni che sono state ricostruite e chiarite non sono ragionevolmente confutabili da parte dei membri razionali di una determinata società. Perché la concezione della giustizia, dapprima proposta in termini teorici, sia concretamente praticabile, occorre dimostrare che sia tanto neutrale da potere essere accolta nelle prospettive interpretative di dottrine comprensive incompatibili e tuttavia ragionevoli. È pertanto necessario che la giustizia come equità possa costituire il fondamento di un "consenso per intersezione" stabilitosi a seguito della convergenza riuscita fra tutte le dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli, espresse in termini di certe idee fondamentali considerate implicite nella cultura politica pubblica di una società democratica. Poiché la giustizia come equità nasce all’interno di una tradizione politica che assume come propria idea fondamentale quella di società come equo sistema di cooperazione, che trova espressione nelle istituzioni politiche di un regime costituzionale oltre che in testi e documenti storici generalmente riconosciuti, una società bene ordinata non è unita dalle sue intuizioni morali o dalle visioni del mondo, ma da una concezione "politica" della giustizia capace di conquistarsi un consenso per intersezione compatibile con il pluralismo ragionevole, che è poi il risultato del libero esercizio della ragione umana in condizioni di libertà. L’assimilazione di temi comunitari viene invece, nella proposta di democrazia deliberativa avanzata da Habermas, ad assumere il profilo di una terza possibilità, alternativa tanto alla concezione repubblicana dello Stato come comunità etica quanto alla concezione liberale dello Stato come garante di una società di mercato. Secondo Habermas, la democrazia è ancora possibile nelle condizioni delle società complesse solo se pensata in termini di teoria comunicativa; in questo caso, infatti, il coordinamento delle azioni avviene anche attraverso pretese di veridicità e di validità normativa, ossia attraverso ragioni che devono contare come "buone ragioni" per la prospettiva di ogni partecipante. L’agire comunicativo è la precondizione per produrre ordinamenti sociali legittimi. Il metodo di Habermas si differenzia tuttavia dai modelli puramente normativi, come la teoria della giustizia di Rawls, poiché intende mostrare, attraverso un’analisi ricostruttiva, ciò che, quanto a contenuti normativi, gli individui continuano tacitamente a presupporre nel partecipare alle pratiche democratiche e costituzionali stabilizzatesi delle democrazie sviluppate. In Fatti e norme [Habermas 1992], che affronta la realtà empirica del diritto e della politica, nella quale viene frequentemente violato l’ideale dell’agire orientato al consenso, Habermas approda alla proposta di un modello di "democrazia deliberativa" intesa come teoria generale del processo democratico nelle società complesse. Si tratta di una interpretazione del processo politico realizzato nelle società industriali avanzate, che cerca di conciliare il principio della razionalità discorsiva con la realtà delle grandi organizzazioni burocratiche e con la disaffezione dei cittadini alla politica. Secondo la concezione liberale, il processo di formazione democratica dell’opinione e della volontà che pone capo a elezioni generali e a deliberazioni parlamentari si attua esclusivamente nella forma di compromessi d’interesse; secondo la concezione repubblicana, deve attuarsi invece nella forma di un autochiarimento etico. La teoria discorsiva riprende entrambe le concezioni, ma le integra nel concetto di una ideale procedura consultiva e deliberativa, che riprende il proprio contenuto normativo dalla base di validità dell’agire orientato all’intesa e crea una connessione organica fra trattative, discorsi di autochiarimento e discorsi di giustizia. Si tratta di un’integrazione importante, perché le forme di solidarietà sociale non vengono più ricavate soltanto dalle fonti dell’agire comunicativo, ma possono svilupparsi a partire da una pluralità di sfere pubbliche autonome e dall’istituzionalizzazione procedurale della formazione democratica della volontà tipica di uno Stato di diritto. Solo così la forza integrativa della solidarietà presente nel mondo della vita può affermarsi contro le altre due forze rappresentate dai processi di rimercificazione e dagli apparati burocratico-ammistrativi.

Da parte comunitaria è stato invece trasformato il concetto di comunità, privandolo della sua relazione oppositiva con il concetto di società e con l’idea pregiudiziale di una modernità concepita come il regno dell’egoismo individualistico, dell’anomia e della frammentazione. La politica non viene automaticamente identificata come una pratica di elaborazione delle sole condizioni di appartenenza a un contesto di vita di tipo etico, né solo come il perfezionamento dei rapporti ereditati di riconoscimento reciproco, ma come l’orizzonte di un destino comune che può essere sviluppato con volontà e coscienza dai membri della comunità, orizzonte che è suscettibile a sua volta di diventare oggetto del discorso politico nell’ottica di una associazione di liberi ed eguali consociati giuridici. Si tratta di una prospettiva che sembra essere complementare piuttosto che alternativa a quella liberale. Per i liberali i diritti soggettivi sono diritti negativi che vengono garantiti ai cittadini in quanto privati, e servono a tutelare un contesto di vita entro il quale questi siano liberi da coercizioni esterne e da interferenze da parte dello Stato o della comunità. Per i comunitari i diritti di cittadinanza sono piuttosto libertà positive, che servono a creare le condizioni di partecipazione a una prassi comune e che derivano da forme di autochiarimento etico che possono contare su un consenso di fondo culturalmente ereditato.

Anche il neutralismo liberale proposto da Charles Larmore sembra assumere il profilo di una "terza via" che è intermedia rispetto agli ideali generali dell’individualismo atomistico e dell’incorporazione comunitaria, in quanto muove dal principio che il trattamento individualista delle persone in quanto separate dagli ideali sostanziali che esse possono condividere con altre debba configurarsi come una norma strettamente politica, che si applica agli individui esclusivamente nel loro ruolo di cittadini. Questo principio non esprime, cioè, un individualismo di portata più generale che coinvolge le basi del valore, e ciò contrariamente a quanto hanno ritenuto tanto i difensori quanto gli avversari del liberalismo. Tale orientamento ha recentemente portato Larmore a rivalutare gli apporti e le implicazioni filosofiche che il tema romantico della comunità può rivestire per l’autocomprensione riflessiva della modernità [Larmore 1996]. Se procediamo all’impresa di operare una "ridefinizione selettiva" del romanticismo, una operazione, cioè, volta a individuare e sistematizzare gli elementi per noi importanti di ciò che viene considerato romantico, possiamo individuare quegli aspetti che, al di là dei luoghi comuni più diffusi, possono ancora conservare una valenza esplicativa rispetto ai nostri problemi e ai nostri interessi. In particolare, l’eredità romantica può essere incorporata in una visione politica del liberalismo che riprenda il senso dell’appartenenza e della dedizione al bene comune senza rimettere in discussione una concezione del sistema politico come un modus vivendi tra persone per aderire al quale è necessario assumere un atteggiamento di distacco critico dagli ideali della vita buona, ma solo nella sfera politica e non in quella molteplicità di forme-di-vita in cui si forma una volontà comune e che sono rappresentano quel contesto di scelta che costituisce la precondizione per il concreto esercizio della libertà individuale. In tal modo, i due tipi di politica che liberalismo e comunitarismo hanno polarmente contrapposto possono, sembra suggerire Larmore, intrecciarsi e integrarsi in forme ragionevoli, dato che alle complesse e differenziate società dell’epoca moderna non si addice né il termine "organicità" né "frammentazione" [e che] né l’autonomia né l’appartenenza possono costituire il nostro massimo obiettivo" [Larmore 1987, 112-114].

La possibilità di integrare l’eredità romantica e comunitaria in una concezione del liberalismo inteso come dottrina politica e non come filosofia dell’uomo, viene sviluppata da Larmore riprendendo alcuni concetti chiave del pensiero romantico, i quali corrispondono ai tre capitoli in cui è divisa L’eredità romantica. In questo libro Larmore analizza i temi della immaginazione, che è sia capacità creativa che capacità cognitiva, sia principio costitutivo della realtà che facoltà capace di articolare le funzioni della mente, del senso di appartenenza alla comunità, con particolare riferimento al pensiero di Johann Friedrich Herder e alla polemica tra Kant e Burke, e, infine, dell’ironia e dell’autenticità, ossia le due forme caratteristiche dell’individualità romantica, per mettere in evidenza la peculiare ambivalenza dell’eredità romantica. Nessuno di questi temi si presta infatti a rivitalizzare una utopistica reinterpretazione omogeneizzante della modernità, che faccia perno sull’idea dell’immaginazione come una forma di "trascendenza poetica" sulla realtà, sulla ragione come identificazione immediata con un dato modo di vivere e come principio irriflesso della nostra sostanza morale, e sulla ironia e l’autenticità quali forme di sradicamento dell’individuo dal proprio contesto di vita. Ognuno di questi temi serve invece a Larmore per porre in risalto quella ambivalenza che è costitutiva della eredità romantica: l’immaginazione è infatti sia creativa sia responsiva, l’appartenenza impedisce di pensare che la morale debba derivare dalla ragione in quanto tale indipendentemente dagli impegni più profondi a cui sentiamo vincolati, ma può anche portare a identificare la comunità morale con la nazione, l’ironia e l’autenticità equivalgono infine alla consapevolezza che l’appartenenza non può mai essere totale e assoluta. Ora, è proprio questa ambivalenza a fare in modo che l’eredità romantica possa profilarsi come una prospettiva in grado di restituire l’immagine delle complesse e differenziate società moderne, in cui gli individui perseguono interessi privati entro i limiti fissati dalla legge e tengono sotto controllo l’attività dello Stato mediante una volontà politica che condiziona l’amministrazione avendo già acquisito una preliminare autonomia sociale nell’esercizio delle loro libertà prepolitiche. Si tratta però di verificare se questa convergenza tra liberali e comunitaristi, che oggi tende ad assumere le sembianze dell’incontro tra liberalismo e multiculturalismo, non sia aporetica e contraddittoria, in quanto una riaffermazione del valore delle appartenenze può, invece di costituire una argine alle logiche della disgregazione, rappresentare piuttosto una conferma e un incentivo alla logica delle esclusioni reciproche.

Non c’è dubbio, in ogni caso, che i temi principali della critica communitarian al pensiero liberale, come quelli connessi a concezioni alternative del sé e dell’identità (il sé "unencumbered" posto in contrapposizione al sé situato), del concetto di neutralità rispetto a idee controverse del bene (il valore della distanza critica opposto al valore dell’appartenenza) e della priorità dei diritti (e quindi del giusto sul bene), siano stati almeno parzialmente incorporati nelle versioni più recenti del liberalismo. Questo però non significa che la sostanziale difformità di interpretazione del Moderno sia venuta meno, poiché rimane intatta la fondamentale dicotomia che separa il liberalismo dal comunitarismo, ossia la distanza che intercorre tra una concezione ‘costruttivistica’, che vede l’individuo e le sue relazioni sociali come il risultato di una artificio consapevole, e una visione ‘organicistica’ che tende invece a concepirli come una sostanzialità storico-naturale. Non a caso la controversia appare, sotto certi aspetti, come una riedizione di quel rapporto oppositivo che a suo tempo il romanticismo aveva instaurato contro il tentativo liberale di giustificare il principio della neutralità politica mediante l’appello agli ideali della autonomia e della individualità. Anche se vi sono non trascurabili differenze tra i due ideali dell’autonomia e dell’individualità, entrambi convergono nella richiesta "individualista" volta a conservare una aderenza solo contingente e non costitutiva nei confronti di ideali sostanziali della vita buona. Per liberali come Kant e Stuart Mill, i problemi generati dai processi di modernizzazione non si riassumono nel disancoramento dell’individuo dal tessuto delle relazioni comunitarie, quanto nella minaccia di dissoluzione della sua capacità di distanza critica dalle regole normative oggettivate nella tradizione, negli usi e nei costumi consolidati. Alle forme di vita concretamente date può essere riconosciuto un autentico valore solo a condizione che siano il frutto di una decisione che dipenda da una scelta effettuata con distacco critico, come quella, ad esempio, che concepisce il valore autonomo del sé in base a una posizione che implica la capacità di assumere il ruolo dell’altro o di assumere una prospettiva in terza persona. Questo principio è all’origine nella neutralità liberale e della sua astensione di principio rispetto a ogni concezione controversa della vita buona: la fonte del valore che permette di salvaguardare i diritti, il pluralismo, la neutralità della giustizia e così via coincide proprio in questo atteggiamento di scelta. E, inversamente, i diritti il pluralismo, la neutralità della giustizia e così via sono funzionali precisamente alla difesa di questa risorsa preziosa.

A ciò i romantici hanno opposto i valori dell’appartenenza, difendendo un concetto di autonomia inteso non tanto come capacità di scelta indipendente da condizionamenti, pregiudizi ed errori, quanto come una capacità di scelta significativa radicata e contestualizzata in un orizzonte di significati sociali condivisi. Uno dei filoni centrali di quel pensiero romantico che si estende sino ad oggi e che arriva ai pensatori comunitari è appunto quello che si riconosce nella critica agli ideali individualisti: per i pensatori romantici, il valore di una determinata forma di vita può infatti essere apprezzato unicamente se li intendiamo non tanto come una questione di decisione, ma invece come qualcosa che è costitutivo di ciò che consideriamo dotato di valore. Sono le culture, intese come pratiche, usi, convenzioni e ideali di vita, a configurarsi come premesse imprescindibili per la formazione e lo sviluppo dell’autonomia, considerata come il risultato di una affiliazione comunitaria che plasma quel senso del valore in base al quale compiamo le scelte per noi rilevanti. E ciò che la modernità mette in pericolo non è tanto la capacità di assumere una prospettiva impersonale e decontestualizzata, quello "sguardo da nessun luogo" difeso da Nagel, quanto la possibilità da parte degli individui di ottenere credito e riconoscimento per le proprie attività da parte di una cerchia di riconoscitori pertinenti, così da portare a estinzione quel sentimento di appartenenza che si traduce attualmente nella richiesta, difesa dai partigiani del multiculturalismo in nome del primato delle culture sugli individui, di quei diritti culturali che i diritti politici di matrice liberale sono incapaci di tutelare efficacemente.

Questa tensione tra due opposte interpretazioni della modernità, che oggi appunto emerge nell’ambito dei dibattiti sul multiculturalismo e sui diritti (soggettivi) collettivi da ascrivere alle "minoranze culturali", lascia capire come le distanze di ieri tra liberali e comunitaristi o dell’altro ieri tra liberali e romantici non siano affatto colmate. Nonostante i diversi tentativi di sincretismo liberal-comunitario, che in vari modi hanno tentato recentemente di coniugare e di mediare, a partire ad esempio dalla nozione di "comunità liberale" [Dworkin 1989], tra i due poli del liberalismo e del comunitarismo, sincretismo che traspare nelle opere del secondo Rawls [Rawls 1993] così come negli scritti di Walzer [1994] e Kymlicka [1991 e 1995], il conflitto tra la tendenza illuministico-razionale a concepire l’individuo e le sue relazioni sociali come l’esito dell’azione ordinativa, razionale e progettuale del soggetto finito, e il filone di teorie di matrice ‘romantica’, che invece li concepisce come altrettante parti di una sostanzialità naturale o storica, di una forma politica che eccede la volontà dei soggetti in quanto si configura come la condizione, o il ‘trascendentale’, della loro appartenenza comunitaria e della loro capacità di scelta significativa, rimane tuttora aperto. È certamente vero che in entrambi i casi il soggetto è il centro della politica moderna e la sua ragione e il suo valore assumono un ruolo strategico centrale, ma mentre il modello liberale e artificialistico riposa sul principio che la logica di costruzione e di funzionamento dell’ordine politico e della coesistenza pacifica non possa che essere, appunto, artificiale, in quanto formata e progettata attraverso un patto tra i soggetti, il modello romantico e organicistico riposa sulla credenza in un ordine del mondo che, per quanto soggettivo, rappresenta l’ a priori che giustifica la continuità dell’esperienza e la garanzia che il rapporto tra i soggetti, e il rapporto tra il soggetto e il mondo, possa realizzare pienamente un ordine. Si tratta di una polarità che rimanda a due diversi modelli di appartenenza sociale: da un lato a un modello in cui i cittadini assumono l’iniziativa di costituire un’associazione politica di individui liberi ed eguali, dall’altro a un modello in cui gli appartenenti etnici si trovano a nascere entro una comunità definita dalla stessa storia e dalla stessa lingua. Questa tensione tra l’universalismo di una egualitaria comunità giuridica e il particolarismo di una comunità storica di destino non solo è costitutiva del concetto moderno di Stato-nazione [Habermas 1996, 128], ma anche della sua autocomprensione normativa, e si riflette non a caso nel contrasto apparentemente insanabile tra liberalismo e comunitarismo. Un contrasto basato su un riconoscimento di estraneità così profondo da sembrare una sorta di reciproca antipatia elettiva e che ha prodotto, come ha scritto Charles Taylor, "un dialogo tra sordi" che non dipende soltanto da una interpretazione forzata delle rispettive fisionomie teoriche o da forme, anche non intenzionali, di distorsione comunicativa, ma anche da ragioni ben più sostanziali. Le due prospettive sembrano infatti riconducili ai due paradigmi alternativi che si contendono il campo nella storia della filosofia politica moderna: il paradigma individualistico e universalistico dei ‘liberali’, in cui la volontà di ordine del singolo e della cittadinanza nel suo complesso si dà forma unitaria e produce identità politica nella forma di una autorappresentazione pattizia, e il paradigma olistico e particolaristico dei ‘romantici’ (o dei comunitari), che riconduce la forma integrativa della comunità a qualcosa di indipendente dalla formazione politica dell’opinione e della volontà degli stessi cittadini.

Come si è accennato, negli ultimi anni i riconoscimenti di affinità hanno comunque finito per prevalere sulle ragioni di contrasto. Sembra in effetti, almeno dal punto di vista storico-concettuale, che non manchino le ragioni per rifiutare un approccio rigidamente dicotomico tra le due prospettive. Nella costruzione giuridica dello Stato-nazione la scelta volontaria in favore di una prassi costituente è infatti una finzione giusnaturalistica: non solo è evidente che il soggetto autonomo postulato dalla concezione liberale esercita la propria indipendenza di agente razionale sullo sfondo di significati sociali condivisi, ma anche che i confini sociali della comunità politica dipendono, oltre che dall’autodeterminazione civica, anche e altrettanto dall’esito della casualità storica e dei conflitti violenti. Per questo non è casuale che la difesa romantica della tradizione e dell’appartenenza sia diventata una componente della cultura occidentale altrettanto influente e permanente degli ideali opposti della autonomia e della individualità cui si appellavano pensatori liberali come Kant e Stuart Mill, né che i valori morali impiegati per difendere il principio della neutralità politica si siano rivelati altrettanto controversi delle alternative concorrenti. Il punto è, sostiene Larmore in L’eredità romantica, che il romanticismo è stato un fenomeno così complesso da sfidare tutte le generalizzazioni e da rendere pertanto necessaria una "ridefinizione selettiva" di quegli aspetti che, al di là dei luoghi comuni più diffusi, possono ancora rivestire una valenza esplicativa. Uno di questi aspetti è precisamente quello della comunità: che i romantici abbiano introdotto una nuova consapevolezza dell’importanza dell’appartenenza è, sottolinea Larmore, solo un luogo comune. "Rifiutando le filosofie individualistiche dell’illuminismo e temendo gli effetti atomistici della nuova società mercantile che vedevano sorgere intorno a sé, i romantici si mostrarono spesso diffidenti verso il distacco critico, rispettosi della tradizione e consapevoli del peso della storia. Contro i metodi "meccanici" di analisi, essi favorirono una visione "organica" della società" [Larmore 1996, 48]. E tuttavia, l’opposizione radicale tra una società concepita come totalità organica oppure come frammentaria e anomica non restituisce appieno l’eredità del movimento romantico, anche se ha certamente contribuito a plasmare la concezione romantica sia della società sia dell’individuo, esprimendo un modello di argomentazione il cui punto di arrivo politico ritorna nel pensiero antiliberale di ispirazione communitarian.

Questa opposizione riproduce una immagine convenzionale del pensiero romantico che, secondo Larmore, sebbene non sia sbagliata, è tuttavia problematica sotto almeno due aspetti. Anzitutto non riesce a catturare le varie forme di individualismo, sino al titanismo prometeico di certe sue manifestazioni, che pure rientrano incontestabilmente nel patrimonio culturale del romanticismo. In secondo luogo si consegna al pregiudizio di una idea di comunità come opposto della società e come antagonista della modernità in nome di una impraticabile riomogeneizzazione culturale delle società moderne, che porta a escludere in linea di principio la possibilità di coniugare comunità e pluralismo culturale. La riscoperta da parte dei romantici dell’importanza dell’appartenenza non comporta necessariamente e inevitabilmente il rifiuto del liberalismo, a condizione di non conferire alla loro visione della società moderna la forma di una teoria organica della società, in cui ogni parte esprime l’essenza del tutto. Secondo Larmore, la guida migliore alla scoperta della comunità e dell’appartenenza va individuata nel pensiero di Johann Gottfried Herder, "i cui scritti sono ideali per incrinare i nostri preconcetti sul tema romantico della comunità" [Larmore 1996, 56]. L’interesse di Herder non era infatti rivolto al ruolo causale delle forme di vita, ma al genere di valore che queste possono incarnare. Qualunque possa essere la genesi effettiva delle nostre credenze morali, queste non possono essere considerate come dei principi scelti mediante un procedimento di astrazione compiuto in base a un atteggiamento di distacco critico, in quanto senza questi principi saremmo privi di ogni consapevolezza proprio relativamente a ciò che ha valore e ci troveremmo quindi deprivati del contesto di opzioni e significati che è indispensabile per compiere una scelta significativa. Le nostre opinioni morali vanno invece considerate come convinzioni profonde e radicate, costruite socialmente come marchi ascrittivi che determinano i confini delle nostre scelte e si traducono in un ethos condiviso. Non è possibile avere alcuna comprensione significativa di noi stessi se non per il fatto che condividiamo con altri forme comuni di vita.

Questo non significa che non ci sia spazio per l’individuazione personale, ma che né l’autonomia né l’appartenenza possono costituire il nostro obiettivo esclusivo, in quanto si tratta di trovare un Mittelpunkt, un centro di gravità che permetta di mediare tra l’autocostituzione del sé e le forme di vita (culturali e collettive) che sono costitutive dell’identità. Il vero nodo della disputa tra razionalismo liberale e comunitarismo romantico si trova piuttosto, secondo Larmore, nell’appello alla ragione come base autonoma per la condotta di vita. Le nozioni di dovere morale e di libertà politica, che fondano rispettivamente la obbligatorietà morale e la legittimità giuridica delle società moderne, non sono cioè derivabili dalla sola ragione: questa è infatti, di per sé, la semplice capacità formale di ricavare deduzioni e di verificarne la coerenza. La ragione "ci dice come corrispondere ai doveri che sentiamo nostri, ma non può prendere in quanto tale il posto dell’appartenenza, dell’identificazione con un dato modo di vivere: non può essere la fonte della nostra sostanza morale" [Larmore 1996, 59]. Piuttosto, dobbiamo concepire la nostra ragione come espressione particolare di una forma-di-vita che solo erroneamente può essere posta in antitesi con la comunità. Questo non significa abbandonare il piano della riflessione critica, ma riconoscerne i fondamenti, così da elaborare una concezione della ragione meno metafisica e più sociale. Secondo Larmore vi è in sostanza, nel romanticismo di Herder, una sorta di cooriginarietà tra autonomia privata e appartenenza pubblica: è questa la vera e propria svolta di pensiero impressa dal pensiero romantico all’autocomprensione della modernità, in quanto implica la rinuncia all’ipotesi che la ragione aspiri essenzialmente a elevarsi al di sopra delle circostanze storiche, per considerarla invece come ciò che determina le nostre scelte nella forma di vita che ci è data [Larmore 1996, 77].

Nella concezione romantica della comunità è tuttavia implicita la possibilità di un rovinoso errore, anche se è tuttavia anacronistico considerare, secondo Larmore, il nazionalismo e le sue origini romantiche soltanto alla luce degli errori che ha prodotto. L’errore consiste nella identificazione tra nazione e comunità morale, che implica due semplificazioni corrispondenti ma inverse: la comunità morale può infatti rivelarsi in proporzione più piccola e anche più ampia della nazione [Larmore 1996, 63]. La prima semplificazione promuove una immagine organica dello Stato, che sottovaluta l’importanza morale delle comunità subnazionali, ossia di quelle identità collettive di tipo pre- o sub-politico che si collocano a un livello ‘inferiore’ rispetto alla autonomia civica realizzata nella prassi legislativa dello Stato e che sono funzionali all’autoriconoscimento culturale di forme-di-vita di tipo minoritario. La seconda semplificazione nella identificazione di comunità e nazione consiste nell’ignorare il fatto che la comunità morale può trascendere, non casualmente ma intenzionalmente, la sfera delle differenze nazionali, attingendo a pretese di valore svincolate da orientamenti ideali di tipo particolaristico in quanto funzionali alla tutela degli individui in quanto uomini, indipendentemente dal loro essere titolari di una certa nazionalità e a prescindere dalla loro specifica forma-di-vita. Trasferire l’idea di comunità dal contesto culturale al contesto politico comporta infatti la possibilità di quelle regressioni nazionalistiche che hanno sempre esposto il nazionalismo alla minaccia di una sua utilizzazione strumentale da parte delle élite politiche. La coscienza nazionale è infatti un prodotto artificiale, che è servito a sostituire i disgregati legami cetuali propri dell’Europa premoderna con forme solidaristiche di associazione civica, e non un prodotto ‘naturale’ anteriore all’ordinamento costruttivo del diritto positivo e dell’ordinamento costituzionale. Richiamarsi a una comunità politica organicamente e naturalisticamente data significa cancellare l’artificialità che pertiene allo statuto giuridico della cittadinanza in nome di una appartenenza nazional-culturale che trasforma la comunità dei cittadini in una comunità basata regressivamente sull’appartenenza etnica.

Nell’idea romantica di comunità è dunque presente una ambivalenza costitutiva. Da un lato, almeno nella visione di Herder, vi è il riconoscimento esplicito della esistenza di una pluralità degli ideali del bene e di una ampia molteplicità dei modi di vivere che li esprimono. In questo senso, pluralismo e critica dell’autonomia cosmopolita costituiscono gli aspetti positivi del suo pensiero. Dall’altro, questi aspetti non vengono utilizzati per difendere il liberalismo, ma sono utilizzati per difendere una concezione organicistica dello Stato e della società. "Il motivo è che Herder riteneva che le forme comuni di vita e i legami costitutivi si estendessero a tutta la società. Il suo pluralismo si riferiva principalmente alla molteplicità delle società e non alla diversità all’interno di una di esse" [Larmore 1987]. Il senso della "ridefinizione selettiva" del pensiero romantico compiuta da Larmore sembra allora consistere in una posizione che si pone trasversalmente rispetto alla dicotomia liberalismo-comunitarismo. Ora, la relazione tra ordinamento politico e ideali della persona può essere concepita in due modi distinti. Il primo considera l’ordinamento politico come un modus vivendi, un mezzo per organizzare la coesistenza tra individui che concepiscono diversamente la vita buona. Il secondo esige che l’ordinamento politico rispecchi quelli che, in generale, sono i nostri impegni più profondi. Il primo fa tuttavia appello a ideali controversi come quello dell’autonomia, rendendo il liberalismo inutilmente vulnerabile: infatti, chi è contrario al liberalismo può attaccare l’ideale della neutralità politica contestando quello dell’autonomia personale — come si è appunto verificato, dopo Kant, nel pensiero politico romantico.Il secondo è viziato dal principio secondo il quale i legami costitutivi, per esistere, debbano estendersi su tutta la società, vietandosi così di riconoscere il pluralismo all’interno della società stessa — così trasformando, appunto, la critica dell’autonomia personale in un rifiuto dell’ideale politico della neutralità dello Stato. E tuttavia, la riscoperta da parte dei romantici dell’importanza dell’appartenenza non implica inevitabilmente il rifiuto del liberalismo: dato che né le idee di appartenenza e di organicismo sociale coincidono o sono logicamente connesse, né la neutralità liberale è in contraddizione con il fatto che le persone all’esterno della sfera politica abbiano legami costitutivi con ideali più sostanziali del bene, in quanto è solo all’interno della sfera politica che è importante essere neutrali rispetto alle concezioni della vita buona e agli ideali personali, liberalismo e comunitarismo cessano di configurarsi come posizioni alternative. Il liberalismo, così come viene inteso da Larmore, comporta infatti che la vita sociale si divida in ambiti diversi di pertinenze, in quanto, sottolineando l’eterogeneità del ‘pubblico’ (politico) e del ‘privato’, si rivela particolarmente consono alle moderne società pluralistiche, nelle quali, oltre che partecipare all’autonomia di una prassi civica guidata da principi universalistici, il cittadino può anche scegliere di appartenere a molteplici forme-di-vita di tipo etico, culturale o religioso.

Una volta che il liberalismo sia stato privato del pregiudizio che la sua difesa della sfera privata sia funzionale unicamente alla tutela di comportamenti motivati da un interesse personale e che tutte le relazioni sociali siano estrinseche alle più profonde concezioni di sé di coloro che vi partecipano, e che il romanticismo abbia rinunciato all’idea che se se l’ideale del distacco da tutti gli ideali empiricamente condizionati della vita buona non deve costituire il nostro ideale personale, allora non può costituire nemmeno il nostro ideale politico, la tensione tra queste due opposte interpretazioni della modernità può perdere larga parte della vis polemica utilizzata da entrambe le parti. Nella prospettiva assunta da Larmore, il compito della teoria liberale coincide pertanto con il problema di giustificare il principio della neutralità dello Stato senza schierarsi nella disputa tra individualismo e tradizione. Per il liberalismo deve cioè rimanere essenziale il fatto che le persone, in quanto cittadini, debbono essere trattate in modo eguale, a prescindere dagli ideali sostanziali e dai vincoli costitutivi che possono condividere con altre. Ma ciò non comporta alcun appello all’individualismo come valore generale, esteso a tutti gli ambiti della vita sociale. Il liberalismo deve cioè essere abbastanza neutrale da ammettere persone che danno valore all’appartenenza e al costume, poiché gli ideali romantici sono diventati una parte costante della nostra cultura, ma abbastanza forte da giustificare il principio della neutralità politica. Nel liberalismo di Larmore, i diritti individuali garantiti a livello politico devono sempre dare accesso alla forme di vita che sono costitutive dell’identità e che si dispongono al livello subpolitico delle forme-di-vita. In questo senso, l’individualismo continua a funzionare come una dottrina politica e giuridica, che tratta gli individui indipendentemente dallo status e dall’appartenenza e che assegna la priorità ai diritti individuali di libertà e partecipazione, riconoscendo ai diritti collettivi (socio-culturali) la funzione strumentale di assicurare gli effettivi presupposti per la pari opportunità dei primi — vale a dire dei fondamentali diritti liberali e politici. L’errore dei comunitaristi sta nel loro voler ridurre i discorsi politici sul piano etico. La sensibilità comunitaria riemerge così in vesti multiculturali: la polemica tra liberali e communitarian degli anni ’80 si ripresenta nella questione del difficile equilibrio tra dimensione culturale (e comunitaria) e dimensione politica (e liberale) delle auto-identificazioni collettive.

Rimane da vedere, tuttavia, se la scelta di Larmore, volta ad ancorare il concetto di politica deliberativa ai sottosistemi comunitari in cui si forma una volontà comune in nome di un liberalismo ‘politico’ che rinuncia a una immagine individualistica dell’uomo, dato che l’individualismo che gli è proprio viene rigorosamente circoscritto alla sfera politica, non sia in realtà una scelta strutturalmente impolitica. La rinuncia a una concezione ‘forte’ dell’autonomia e della individualità sembra infatti implicare la rinuncia a difendere una prospettiva politica, quella liberale, in cui si esprime un modello di convivenza sociale e civile che si fonda proprio su una visione individualistica del mondo e della società. Ma è precisamente il sacrificio di una visione coerentemente individualistica del mondo e della società a comportare il rischio di mettere a repentaglio la democrazia dei moderni, nel cui orizzonte la libertà individuale non dipende dalla appartenenza alla comunità, ma le è precedente e la condiziona. Nel momento in cui il multiculturalismo oggi, il comunitarismo ieri e il romanticismo prima ancora, si configurano come una proposta normativa destinata a tradurre il valore della appartenenza nella rivendicazione della differenza o della identità culturale tramite ‘diritti collettivi’ in nome di un primato delle culture sugli individui, si apre il problema di quale possa essere il collettivo a cui riconoscere la titolarità e l’esercizio di tali diritti e di che cosa rimanga della libertà prepolitica che idealmente precede la formazione della comunità politica. Non si tratta di una questione solo accademica: nel caso infatti che il riconoscimento di eventuali diritti collettivi, oggi difesi da quel multiculturalismo che raccoglie l’eredità romantica e la sua sensibilità per le comunità particolari e le loro tradizioni etico-culturali, venisse a occupare direttamente lo spazio politico, ci troveremmo di fronte a quei pericoli fondamentalistico di tipo premoderna o antimoderno che sembrano suscettibili di rimettere in discussione quei principi della universalità inclusiva del diritto che sono stati una faticosa e contrastata conquista democratica. Forse solo una comunità senza comunitarismo, in grado di riconoscere anche ai titolari dei diritti individuali una identità intersoggettivamente concepita ma aderente ai principi costituzionali della cultura politica piuttosto che agli orientamenti etici di una particolare forma di vita, potrebbe evitare di scambiare l’universalismo dei diritti (individuali) nei termini di un astratto livellamento delle differenze (sociali), in quanto la cooriginarietà di autonomia privata e autonomia pubblica potrebbe salvaguardare il pluralismo delle diverse comunità etiche integrate a livello subpolitico senza per questo compromettere la neutralità del diritto.

 

 

Riferimenti bibliografici

Dworkin R., La comunità liberale (1989), trad. it. in "Teoria politica", VI, 1, 1990, anche in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992 (2a ed. 2000).

Habermas J., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia (1992), trad. it. Milano, Guerini & Associati, 1996.

Habermas J., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (1996), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1998.

Kateb G., Individualism, Communitarianism and Docility, in "Social Research", 4, 1989.

Kymlicka W., Liberalism, Community and Culture, Oxford, Clarendon Press, 1991.

Kymlicka W., La cittadinanza multiculturale (1995), trad. it. Bologna, il Mulino, 1999.

Larmore C., L’eredità romantica (1996), trad. it. Milano, Feltrinelli, 2000.

Larmore C., Le strutture della complessità morale (1987), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1990.

MacIntyre A., Dopo la virtù. Saggio di teoria morale (1984), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1988.

Nagel T., Uno sguardo da nessun luogo (1986), trad. it. Milano, il Saggiatore, 1988.

Rawls J., Liberalismo politico (1993), trad. it. Milano, Edizioni di Comunità, 1994.

Taylor C., Il dialogo tra sordi di liberali e comunitaristi, trad. it. in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992 (2a ed. 2000).

Vitale E., Liberalismo e multiculturalismo. Una sfida per il pensiero democratico, Roma-Bari, Laterza 2000.

Walzer M., Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo (1994), trad. it. Bari, Dedalo, 1999.