Globalizzazione e democrazia: considerazioni su D. Held, Democrazia e ordine globale
La recente attenzione di D. Held per i problemi della globalizzazione (1) e per la ricerca di un possibile ordine democratico cosmopolitico segnano, rispetto alle sue precedenti riflessioni, il passaggio a una nuova consapevolezza legata alla sempre maggiore difficoltà di giustificare, dall'interno di uno stato nazionale, la legittimità, in termini democratici, del potere. Segnano cioè un netto superamento dell'analisi teorica incentrata sui modelli di democrazia (2) elaborati dal pensiero occidentale, dal mondo classico ai giorni nostri, per cercare di riorientare il tema su scala mondiale. L'ampliamento della prospettiva da cui, negli ultimi anni, egli ritiene necessario partire implica l'eclisse della gran parte delle concezioni che sono state alla base delle diverse tipologie di democrazia e scompagina, per così dire, i punti fissi di riferimento ideali giacché i processi di globalizzazione in atto sembrano mettere in discussione i controlli tradizionali su tutte le sfere di attività dall'ambiente all'economia, dalla politica alla cultura. Tuttavia, a suo parere, ciò non autorizza, come alcuni fanno, a ritenere superata l'autonomia della politica poiché il problema del potere e del suo controllo resta tale, anzi, diventa sempre più pressante e la ricerca di una soluzione diventa ineludibile. Proprio perciò, non condivide affatto le pessimistiche previsioni circa la ineluttabile fine della politica (3) e tanto meno le prospettive catastrofiche che sembrano contagiare una parte consistente della riflessione contemporanea quando preconizza la fine del socialismo e persino della geografia (4). Il disorientamento teorico indotto dall'insieme di processi che trasformano l'organizzazione spaziale e territoriale delle relazioni e delle transazioni sociali, economiche e culturali, al di là dei tradizionali rapporti tra stati sovrani, non può esimere, a suo avviso, dalla ricerca di un nuovo ordine globale in modo che il potere possa esser sempre ricondotto sotto un controllo democratico. Sostenere ciò, allo stato attuale, significa, Held lo sa bene, proporre semplicemente una sorta di sfida concettuale, si tratta, per il momento, di elaborare un esperimento intellettuale alla ricerca di nuovi strumenti interpretativi capaci di indicare le vie verso nuove procedure democratiche in dimensioni non solo statuali ma regionali (intese come unioni di più stati) e cosmopolitiche. Ad avviso di Held, c'è una doppia considerazione che va assunta come punto di partenza: è necessario, da un lato, prendere atto della plurima appartenenza dei cittadini a sfere diverse di governance, anche sopranazionali o internazionali, e cercare di prevedere le forme di una possibile integrazione lasciando loro la capacità di autodeterminarsi cioè la più ampia opportunità di agire e partecipare. Allo stesso tempo, però, è necessario smitizzare le conclusioni, a suo avviso troppo affrettate, di molti Western globalists che danno oramai per finito il ruolo dello stato nazionale. Esso è, certamente, messo in crisi dalle molte interferenze nei suoi ambiti tradizionali ma una corretta analisi delle disjunctures, degli smembramenti, delle fratture cui è sottoposto mettono, a suo parere, in rilievo l'estrema complessità del fenomeno che non presenta un andamento omogeneo tanto che, in taluni casi sembra, addirittura, rafforzare le competenze statuali (5) ed, in ogni caso, la nazione continua a presentarsi come un ancoraggio utile anche in un'ottica globale. Quello che risulta dunque obsoleto non è tanto la presenza dello stato nazionale che, nonostante tutto, sembra avere ancora dei compiti da assolvere quanto il concetto di sovranità che ad esso è stato collegato. Vi sono tradizionalmente due versioni di tale concetto che Held ritiene oramai decisamente superate: quello che attribuisce allo stato la titolarità della sovranità e quella che l'attribuisce al popolo. In ambedue le tradizioni, a suo parere, il carattere democratico è presunto ma non è reale: nel primo caso, lo stato è dato come ente originario e perciò, in ultima analisi, il suo apparato, il suo ordinamento risulta incontrollabile e immodificabile per i cittadini; nel secondo caso, è la volontà popolare a non essere soggetta ad alcun controllo e quindi suscettibile di riproporre forme di autoritarismo (6). Da questo punto di prospettiva, sia il liberalismo, inteso come la dottrina che ha giustificato lo stato di diritto, sia il marxismo, inteso come la dottrina che ha giustificato la sovranità popolare, sono ideologie logorate dagli sviluppi della storia del XX secolo. Ma c'è un 'altra ragione della loro oramai palese inadeguatezza: sono ambedue parziali nella loro analisi della realtà. Nella tradizione liberale il potere equivale unicamente al mondo del governo: la politica viene separata dalla società civile e, di conseguenza, da tutto il mondo economico che viene lasciato libero di autodeterminarsi come se ciò fosse senza conseguenze sul potere politico stesso (7). Nel marxismo, invece, viene sottolineata la connessione diretta tra politica ed economia ma vengono marginalizzate le tematiche istituzionali e in particolare vengono sottovalutate tutte le forme di potere diverse da quelle radicate profondamente nella produzione (8). I recenti processi di globalizzazione hanno evidenziato la settorialità oramai non più sostenibile di tali prese di posizioni. Di conseguenza è necessario ricorrere a una concezione più ampia di quella offerta da entrambe queste teorie politiche. Né lo stato deve dominare sulla comunità né quest'ultima può farlo sullo stato poiché né l'uno né l'altra rappresentano la totalità e perché, ad avviso di Held, la pluralità dei modi di essere della realtà non è riconducibile ad unità. Implicita perciò, in tali considerazioni, è la sua presa di distanza anche dalle recenti versioni delle due ideologie tradizionali cioè il neoliberismo e il comunitarismo che riproporrebbero posizioni, in ultima analisi, unitarie e perciò settoriali. Come non è possibile risolvere il problema del controllo del potere in termini di mera ingegneria costituzionale, di pesi e contrappesi, neppure è possibile pensare, in un mondo globale, a una omogenea concezione comunitaria. Serve piuttosto applicarsi alla elaborazione di uno strumento interpretativo diverso che concili l'indipendenza del popolo con il governo limitato in una dimensione che non può più essere quella del territorio statuale. Held propone di pensare a ambiti che definisce come "strutture comuni di azione politica". Si tratta di spazi in cui gli individui operano in un contesto interattivo di interessi comuni e che, di conseguenza, danno origine a un processo decisionale pubblico in cui si manifestano quelli che Held definisce siti di potere: egli ne individua sette senza alcuna pretesa di offrire un approccio sistematico ma a solo scopo illustrativo (essi sono: Il corpo umano, lo stato sociale, la cultura, le associazioni civiche, l'economia, la violenza ,le istituzioni giuridiche). E' all'interno di questi spazi, che non hanno una dimensione locale ma tematica, per così dire, che va cercata la via per rendere compatibile la necessità del potere con la autodeterminazione dei cittadini, la limitazione del potere con la necessità della decisione politica. All'interno di questi spazi andrebbe individuata solo "una cornice stabile e durevole" in cui possano operare obblighi e diritti per ognuno, una cornice che definisca l'autonomia legittima, il grado legittimo di partecipazione e di sottomissione al potere. Si tratta quindi di una cornice che deve tenere conto della compresenza di più esigenze in contrasto tra loro e deve mediarle (ad esempio i diritti di libertà con quelli sociali) e che comunque non può esser intesa come qualcosa di stabile né nel tempo né nello spazio, nel senso che il monitoraggio sulla realtà va inteso come un'attività costante giacché gli sviluppi, non essendo più controllabili dagli stati nazionali, richiedono una vigilanza e un adeguamento altrettanto costanti. All'interno di questi spazi andrebbe quindi ricercata la realizzazione della democrazia. Held è ben consapevole però che, proprio per le diverse caratteristiche dei diversi siti di potere e per la loro costante evoluzione e interazione, è impossibile dare delle indicazioni teoriche univoche e quindi ripiega su una definizione in negativo: garantire la democrazia vuol dire, più semplicemente, "riconoscere le strutture inaccettabili di differenza" (9) ed eliminarle il più possibile. In altri termini, il significato del termine democrazia non può esser imposto perché le condizioni della democrazia dipendono anche dalle situazioni contingenti e non possono esser teorizzate una volta per tutte. Held sa bene che gli stessi diritti che il mondo occidentale considera un baluardo di libertà non solo non sono condivisi in molta parte del restante mondo ma sono anzi spesso apertamente osteggiati. Tuttavia, in ogni diverso contesto, ci sono delle differenze che risultano chiaramente inaccettabili. Si tratta allora di prevedere strategie differenziate nei diversi luoghi purché conformi a un comune sentire, purché tali da non offendere i meno dotati di risorse e capacità. Si tratta non tanto di consentire a tutti l'autonomia, meta auspicabile ma difficilmente raggiungibile, quanto di eliminare le situazioni che egli definisce di nautonomia ossia di "asimmetria nella produzione e nella distribuzione di opportunità di vita che limita e disgrega le possibilità di partecipazione politica" (10). Le condizioni empiriche di tale perequazione non sono prevedibili a priori: non è un ideale di eguaglianza né formale né sostanziale che va perseguito ma più semplicemente una ricerca di eguali opportunità di partecipazione (11). Se un minimo comune denominatore è possibile prevedere, questo è legato alla possibilità di un'equa distribuzione delle opportunità di accesso alle posizioni, non a una distribuzione delle posizioni tout court. In questo modo si potrebbero conciliare diritti individuali e esigenze legate a una visione di Welfare State. Il fatto, in altri termini, che la scarsità di risorse spesso generi conflitti in merito alle priorità delle politiche pubbliche non infligge un colpo mortale alla teoria dei diritti come sostengono alcuni autori da cui Held dissente (12) poiché non si tratta di proporre "una gerarchia di bisogni" e neanche una società anarco-liberale. Non c'è un'unica procedura decisionale né un unico parametro che fissi stabilmente un ordine di priorità però una procedura e un ordine sono necessari in ogni specifico contesto locale e temporale. La complessità dell'oggi sta appunto nel dover accettare una soluzione che non può darci un quadro conchiuso; essa infatti deve tenere conto della contingenza delle situazioni e della velocità con cui le circostanze socio-economiche cambiano e a queste deve continuamente riadattarsi (13). Si può e si deve riconoscere la relatività storica e culturale della democrazia e quindi non pretendere che siano egualmente recepiti i suoi valori. Una comunità democratica cosmopolitica non vuol dire affatto che ci sia la possibilità di una integrazione politica sotto forma di consenso su un vasto spettro di credenze, valori, norme. Piuttosto si tratta di perseguire una pubblica e differenziata conciliazione delle opposte posizioni attraverso il dibattito e un processo deliberativo pubblico strettamente legato al "sito di potere" in oggetto . Quindi non si tratta di riproporre l'esperimento di Rawls cioè l'individuazione di un nucleo di valori che nessuna delle parti potrebbe, ragionevolmente, rifiutare, se in una posizione originaria di velo d'ignoranza, ma solo di sottoporre una opzione alla prova di imparzialità per vedere se, in quel contesto, è un valore condiviso. L'esempio che Held ci propone è quello della schiavitù e dell'apartheid che, nei nostri paesi, non supererebbero tale prova ma che, altrove o in altra epoca, l'hanno superata. Certo i valori di civiltà sono auspicabili ma non possono essere imposti, ci deve essere alla base quel "processo deliberativo pubblico" che egli definisce, in contrapposizione a una attività teorica individuale, come "una autodeterminazione strutturale non individualistica". Questo vuol dire che l'accordo non può prescindere dalle condizioni di tempo e di spazio, non vi è infatti alcun punto fisso di osservazione, alcuna posizione filosofica o approccio completamente neutrale il quale ci permetta di affermare che sia possibile raggiungere un accordo universale sulle condizioni generali della vita o sulle questioni etiche. Quindi non vi è neanche un sistema di diritti fissi e inalienabili che possa prescindere da questioni pratico-politiche. In questo senso l'invito di Gadamer a rivalutare i valori della tradizione culturale va accolto, badando, però, a non passare su posizioni solo di conservazione. Più in generale, Held invita a riflettere su alcune norme fondamentali che regolano il dialogo, le procedure e la composizione delle controversie piuttosto che sul contenuto del dialogo. Si tratta di cercare le condizioni minime di democrazia ma non tanto nel senso di una fondazione consensuale delle regole del gioco, come sostenuto da Bobbio, quanto attraverso la tesi di Habermas a favore della "forza della miglior argomentazione" che gli sembra uno strumento più flessibile e storicizzabile capace di evidenziare appunto le strutture inaccettabili di differenza. E' in ciò che si concretizza il processo democratico nel senso che contribuisce all'eliminazione delle asimmetrie che risultano inaccettabili ma resta un processo aperto sia per contenuti che per estensione spaziale e temporale. La conseguenza più interessante di questa definizione debole del processo democratico è il fatto che essa consente ad Held di evitare radicalizzazioni ideologiche dal momento che egli invita a tenersi lontani sia da ipotesi che preconizzano la formazione di uno Stato mondiale che prefigurano sempre forme intensamente interventiste e perciò autoritarie sia da quelle che, sovrastimando i benefici della parcellizzazione, valorizzano una indistinto pluralismo poliarchico (14). Ora, realisticamente, possiamo solo pensare alla ricerca di logiche di "sussidiarietà tra diversi livelli", ma non certo a un governo democratico globale; allo stesso tempo però non è condivisibile la rinuncia post-moderna alla ricerca di una nuova sintesi politico giuridica e nemmeno è possibile accettare un supino ripiegamento su posizioni minimaliste o, peggio ancora, scettiche foriere spesso, in ultima analisi, di pericolose adesioni alla prassi decisionista (15). Il tentativo di Held di fondere la tradizione filosofica anglo-americana e quella continentale, in particolare modo francese, evidenzia un eclettismo di fondo della sua riflessione che toglie, per molti aspetti, rigore alle sue proposte. Egli, tuttavia, ha il merito di sottolineare come anche i pregiudizi culturali o le tradizioni storiche costituiscano elementi della comprensione della realtà e quindi vadano presi in considerazione anche quando ci si ponga in una prospettiva meramente teorica. Held si muove forse troppo disinvoltamente su un terreno che spazia dalla storia del pensiero politico all'analisi politologica sino a quella sociologica: il che, se riesce, indubbiamente, a dare il senso della complessità interdisciplinare dei temi affrontati, fornisce anche una ricostruzione incerta, problematica e soprattutto indeterminata nelle soluzioni prospettate: infatti i nessi e i passaggi cruciali in cui dovrebbe verificarsi la transizione sono appannati, risultano delineati con una certa superficialità, contaminati come sono da una doppia prospettiva, insieme pratica e teorica. E' questo il prezzo che egli, consapevolmente, sa di dovere pagare per riaffermare l'esigenza, nonostante le enormi difficoltà dovute alla dimensione globale, di una nuova riflessione sulla democrazia e per non confondere la riflessione politica con la political science che, a suo avviso arbitrariamente, ritiene di poter ridurre drasticamente la complessità sociale attraverso parametri di analisi "avalutativi e empirici". In conclusione, la sua proposta, nonostante l'opzione a favore di una fluidità metodologica forse eccessiva, resta testimonianza di coraggio intellettuale e va intesa come un invito a perseguire nella strada della ricerca di nuove forme di legittimità senza lasciarsi intimidire dal fatto che i presupposti politici a noi noti sono stati messi in discussione.
(1) D. Held, Democrazia e ordine globale, Asterios, Trieste, 1999 ( Democracy and the global order, Cambridge, Polity Press, 1995) back (2) D.Held, Modelli di democrazia, Mulino Bologna, 1989 ( Models of Democracy ,Cambridge, Polity Press, 1987). back (3) Su tali problematiche si veda P. P. Portinaro, Antipolitica o fine della politica? Considerazioni sul presente disorientamento teorico, "Teoria Politica", 1988, pp. 121-137. back (4) F. Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992 (The End of History and the Last Men, London, Hamisch Hamilton, 1992); R. O'Brien, The End of Geography, London, Routledge, 1992. back (5) L'autore dedica un'ampia ricostruzione a questa analisi che individua cinque momenti di frattura con il tradizionale ordine di Westfalia ove è sancito il principio di sovranità e effettività degli stati nazionali. Cfr. D. Held, Democrazia e ordine globale, cit., pp. 104-145. back (6) D.Held, Democrazia e ordine globale, cit., p.152: "nel primo caso la persona artificiale viene concettualizzata senza garantire un'effettiva responsabilità nei confronti di tutti i cittadini, nel secondo, essa si riduce a un mandato della volontà popolare privo di qualsiasi forma di autorità indipendente, per esempio, per imporre limiti reali alle decisioni di una maggioranza che persegua obiettivi antidemocratici o contrari alla minoranza". back (7) D. Held, Democrazia e ordine globale, cit., p. 180: "quando si consideri il potere come un settore distinto dall'economia e dalla cultura si perde di vista una vastissima area di potere ,incluse le sfere di rapporti produttivi e riproduttivi". back (8) D. Held, Democrazia e ordine globale, cit. p.180: "il marxismo non offre un'analisi sistematica dei pericoli del potere politico centralizzato o del problema della responsabilità politica, analisi che invece rappresenta il vero punto di forza del pensiero liberale". back (9) D. Held, Democrazia e ordine globale, cit., p.254. back (10) D. Held, Democrazia e ordine globale, cit., pp.175-176. back (11) D. Held, Democrazia e ordine globale, cit., p. 211. back (12) La polemica è con R. Bellamy, Citizenship and Rights, in Theory and Concepts of Political Analysis:An Introduction, Manchester, Manchester University Press, 1993. back (13) D. Held, Liberalism, Marxism, and Democracy, in Modernity and its Futures, Cambridge, Polity Press, 1992, p. 44: "one of abiding lessons of the twentieth century must surely be that history is not closed and that human progress remains an extraordinarily fragile achievement, however one defines and approaches it". back (14) D. Held, D. Held, The Possibilities of Democracy: a Discussion of Robert Dahl, Democracy and its Critics, "Theory and Society", 1991, pp. 875-889. back (15) È questo infatti il percorso che ha caratterizzato la riflessione di D. Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica della democrazia, Milano, Feltrinelli, 1992.Una scelta esclusivamente realistica induce infatti l'autore a ritenere i concetti: sovranità popolare, bene comune, partecipazione, consenso, pluralismo, opinione pubblica mere scatole vuote che hanno perso il significato originario. I regimi democratici vengono visti come "sistemi autocratici differenziati e limitati" (p. 209) e il contenuto anche minimo della democrazia rischia di precipitare in forme oligarchiche attraverso una serie di impercettibili slittamenti sino a "profilarsi la soluzione del decisionismo in quanto strategia della decisione politica opportunistica svincolata da ogni tipo di considerazione generalizzante degli interessi" (p. 211).Questo spiega le riserve sull'eccessivo ottimismo di Held che Zolo esprime nella Prefazione all'edizione italiana del saggio. Vero è, però, che recentemente Zolo ha rivisto la sua posizione, accogliendo la possibilità di "un pacifismo debole, di una società giuridica in grado di coordinare i soggetti della politica internazionale secondo una logica di sussidiarietà normativa rispetto alle competenze degli ordinamenti statali". Cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 1995 e D. Zolo, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Roma, Carocci, 1998. back |