Scetticismo humeano e filosofia morale
James Allan, nel suo A Sceptical Theory of Morality and Law (New York, Peter Lang, 1998 (1) espone una proposta metaetica per mezzo della quale intende difendere una posizione scettica fondata su basi humeane. Come avviene frequentemente negli scrittori di ispirazione analitica, lo scopo prioritario di chi scrive non è quello di interpretare correttamente il pensiero del filosofo che lo ispira (nel caso specifico, appunto, David Hume), bensì la finalità della ricerca è di trovare una risposta a questioni filosofiche pressanti. Leggendo il libro di Allan, i riferimenti a Hume vanno, quindi, intesi come ipotesi di studio, piuttosto che come conclusioni di una ricerca storiografica, mentre ciò che conta è quanto e come singoli aspetti della proposta filosofica humeana (o interpretazioni che possono essere suggerite dai suoi scritti) possano essere utilizzati nel dibattito filosofico corrente. Con le parole dello stesso Allan: "[ I] l mio fine non è di offrire un commento puntuale della teoria morale di Hume, o un’analisi esegetica dei suoi scritti, ma piuttosto quello di costruire uno scetticismo morale praticabile. Mano a mano che la mia narrazione procederà utilizzerò liberamente il pensiero di Hume, ma allo stesso tempo non esiterò a criticare quelli che ritengo essere i suoi errori, ad aggiungere delle cose, e anche a ignorare intere sezioni ed elementi costitutivi del suo pensiero". (STML p. 12) Le tematiche generali, come viene suggerito dallo stesso titolo, sono due: la filosofia della morale e la filosofia del diritto, dove quest’ultima viene esaminata nei suoi aspetti che la pongono in relazione alla prima. Il libro inizia con la presentazione di classici argomenti humeani, in particolare con le critiche alle pretese della ragione di dare risposte certe al di fuori di ambiti limitati, critiche che conducono alla valorizzazione del ruolo delle passioni. La ragione può manifestarsi in due modi: (i) come ragione dimostrativa, nell’ambito formale, logico-matematico; (ii) come ragione causale, quando ci indica come orientarci nel mondo empirico. Uno dei problemi notoriamente affrontati da Hume è se il secondo uso della ragione consenta di fondare credenze epistemologicamente giustificate in relazione al concetto di ‘causa’. Questo problema è riconducibile al problema dell’induzione: osservazioni di fenomeni passati autorizzano previsioni per il futuro? Ciò che assimila le due questioni è che in entrambi i casi il problema essenziale è di vedere se ci siano delle ragioni per ritenere che fenomeni che sono stati correlati nel passato lo siano anche necessariamente, ovvero se siano destinati a essere correlati anche in futuro. L’idea di Hume è che non vi sia alcuna base razionale per fondare simili convinzioni. E tuttavia, gli esseri umani credono di identificare continuamente nessi causali di questo genere, e pensano che il futuro rispecchierà il passato. Ma questa convinzione è dettata dalla nostra specifica costituzione umana, e non dall’autorità di un ragionamento plausibile. Semplicemente, siamo fatti in modo tale da non poter non credere all’induzione e alla necessità dei nessi causali. Tuttavia, da tali premesse Hume non giunge al pirronismo, ossia a uno scetticismo radicale. Dobbiamo accogliere le caratteristiche contingenti della nostra natura, e affidarci a quelle convinzioni che, naturalisticamente, si impongono, al fine di poterci orientare nel mondo. Questa stessa prospettiva epistemologica generale è ripresa da Hume nella sua riflessione etica, innanzi tutto con il suo celeberrimo argomento sull’inerzia della ragione: P1 - La ragione non può muovere le persone all’azione. P2 - Le valutazioni morali muovono le persone all’azione. C - La creazione di valutazioni morali non è soltanto un processo razionale. Nell’indurci ad agire la ragione influisce soltanto nella misura in cui indica i mezzi appropriati a raggiungere determinati fini, ma questi ultimi sono stabiliti dalle nostre passioni. Ogni azione richiede un desiderio pre-esistente dotato di forza motivazionale. Allan dedica ampio spazio alla posizione anti–scettica e anti–humeana di Thomas Nagel (2). La posizione di Nagel è che noi siamo in grado di essere motivati anche da prospettive remote, e non soltanto da desideri immediati. Possiamo rinunciare a un bene o a un piacere immediato, in vista dell’ottenimento di uno più distante. In questi casi, noi siamo convinti di realizzare scelte prudenzialmente più motivate. Questo è possibile poiché abbiamo una visione di noi quali soggetti che permangono nel tempo. Ma se è possibile essere motivati dalla percezione di noi stessi quali soggetti che si estendono nel tempo, possiamo essere motivati anche dalla percezione dell’esistenza di altri soggetti analoghi. Di conseguenza, la sola ragione è in grado di essere una forza motivante, e la considerazione degli interessi degli altri farebbe parte integrante del ragionamento morale. Secondo Allan in queste proposte non c’è nulla di teoricamente rivoluzionario o di radicalmente anti–humeano. In primo luogo, perché la motivazione fornita dalla considerazione di prospettive remote significa soltanto che a motivarci sono desideri rivolti a un periodo distante nel tempo, ma che, proprio in quanto desideri, rimangono sempre una forza motivazionale del tutto inseribile nella prospettiva humeana. Per quanto riguarda le conclusioni riguardanti il livello morale, Allan nota che nel ragionamento umano non è universalmente presente l’interesse per gli altri, e ciò sposta l’onere della prova a carico di Nagel. Ma Nagel non offre alcun argomento conclusivo a favore della sua specifica concezione di ‘ragione morale’, una forma di ragione più inclusiva di quella formale e di quella empirica riconosciute da Hume: "in nessun luogo Nagel è in grado di provare che la mancanza di interesse per gli altri è ‘irrazionale’". (STML p. 32). Ovviamente, Allan si sofferma pure sul celeberrimo argomento di Hume sulla grande divisione, secondo il quale vi è un salto logico immotivato nel passaggio da enunciati descrittivi a enunciati normativi (da enunciati contenenti l’espressione è a quelli contenenti l’espressione deve essere). Siffatto argomento, secondo Allan, non dimostra soltanto che non vi può essere un’etica per viam deductionis, ma anche che la sola visione del mondo naturale non è sufficiente a fondare una prospettiva morale. A questa posizione di Hume si potrebbe tentare di replicare invocando un concetto di ‘ragione’ diverso dai due accolti dal filosofo scozzese. Ad esempio, riferendosi a una speciale facoltà conoscitiva, l’intuizione morale, che coglierebbe verità morali, sui generis, diverse dai fatti del mondo naturale. È la via intrapresa da Reid e Price. Allan non percorre questo sentiero epistemologico e ontologico, poiché "richiede il sacrificio di un’ampia parte della struttura del mondo usualmente accolta". (STML p. 42) Il fatto che sia lecito supporre che non vi è una realtà morale sui generis, assieme al fatto che noi siamo motivati dai nostri pensieri – concezioni generali, ragionamenti, conclusioni particolari – morali, indica che è possibile ritenere che la motivazione sia una fonte a noi interna di natura passionale. La mia opinione è che l’argomentazione di Allan sia quanto meno affrettata. Per quale motivo l’intuizionismo ci costringerebbe a sacrificare una parte ampia della struttura del mondo che normalmente accogliamo? È evidente, viceversa, che l’intuizionismo semmai aggiunge qualcosa al mondo così come viene usualmente esperito e conosciuto, ma esso non è in via di principio contraddittorio con alcun aspetto delle spiegazioni scientifiche del mondo. L’intuizionismo afferma semplicemente che vi è una parte di realtà qualitativamente diversa dal mondo come è descritto dalla scienza, ma lascia del tutto intatto la validità epistemologica e ontologica di quest’ultimo. Vi sono, certamente, argomenti plausibili per criticare l’intuizionismo. Penso ad esempio al rasoio di Ockam (frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora), o all’argument from queereness di John Mackie (3). Ma Allan non li invoca e al lettore rimangono precluse argomentazioni decisive per rifiutare l’intuizionismo. Allan si confronta con un altro modo di replicare a Hume, ancora una volta proposto da Nagel, per il quale i valori morali sono reali, ma al di fuori del mondo naturale. Riusciamo a percepire questa realtà quando ci stacchiamo dalla nostra prospettiva particolare e osserviamo il mondo da una prospettiva distaccata, oggettiva. Adottando questa prospettiva, riusciamo a cogliere nuovi valori, ma anche a assumere motivazioni nuove. L’obiezione di Allan a questa proposta è che essa non esibisce alcuna ragione valida per pensare che nel mondo esista una realtà morale. In quale modo la prospettiva distaccata, imparziale, riesce a cogliere una realtà morale? Come si può dimostrare che questa realtà morale esiste veramente e non è soltanto una nostra proiezione? Nagel afferma soltanto che in una prospettiva imparziale formiamo credenze diverse da quelle che abbiamo nella nostra prospettiva particolare, ma nulla ancora indica che le prime siano più reali delle seconde. In questo caso, ritengo che la critica di Allan sia parziale, e non colga la complessità della posizione di Nagel. Nagel intende indicare che vi sono due prospettive possibili per cogliere i valori. Una è quella personale, nella quale ciascuno percepisce i propri valori specifici. Da questa prospettiva i valori si riferiscono ai soggetti coinvolti. Il valore di evitare la sofferenza ne è un esempio indicativo. La prospettiva imparziale è possibile solo perché è esiste la prospettiva parziale. Dalla prospettiva imparziale si osserva un mondo dove esistono valori correlati all’esistenza di altre persone. La vera novità è che questa prospettiva permette di vedere che tutte le persone che attribuiscono ad alcuni fatti un valore, hanno uguale peso. La critica di Allan si concentra sul fatto che dalla prospettiva imparziale si vedrebbe una realtà diversa da quella percepita dalla prospettiva parziale, che sarebbe l’unica realtà morale oggettiva. E Allan si chiede da dove arrivi questa realtà. Ma la domanda ha già una risposta. Arriva dalle diverse prospettive parziali. Negare che vi sia una realtà morale, dei valori nel mondo, in questo caso equivale a negare che vi siano nel mondo persone per le quali delle cose hanno valore. Ma Allan non intraprende questa strada, ed effettivamente si tratterebbe di un'ipotesi assurda. Ciò che invece io credo si possa obiettare a Nagel è la sua affermazione per cui la prospettiva oggettiva implicherebbe di per sé l’accoglimento del principio di uguaglianza. Questo è, in realtà, un nuovo principio introdotto dalla prospettiva imparziale, e effettivamente ci sarebbe da indagare se la sua introduzione sia plausibile. Allo scetticismo di Allan giova anche la discussione delle posizioni metaetiche che fanno leva sull’analisi del linguaggio morale. Seguendo Mackie, Allan sostiene che il linguaggio morale è di natura descrittiva. Gli enunciati morali intenderebbero descrivere una presunta realtà morale. Si tratterebbe perciò di enunciati passibili di verità e falsità. Un simile risultato è raggiunto da un’indagine empirica, dallo studio di ciò che le persone effettivamente vogliono esprimere quando pronunciano enunciati morali. Nel farlo, le persone usualmente commettono un errore epistemologico, credendo che esista una dimensione specifica – la realtà morale – che è null’altro che il prodotto della proiezione delle nostre emozioni. Questa posizione è ben lungi dall’essere universalmente accolta. Ad esempio, il quasi–realismo di Simon Blackburn la ritiene assurda. Ciò appare evidente dal fatto che si continua a usare, senza cambiamenti rilevanti, il linguaggio morale anche dopo che si sono chiariti gli errori epistemologici ed ontologici del realismo morale. Il quasi-realismo afferma che gli enunciati morali del senso comune non hanno l’ambizione di cogliere verità morali. Gli enunciati morali non esprimono un atteggiamento epistemologico ed ontologico, bensì soltanto un impegno verso un certo tipo di azioni. Quando una persona dice: "Maltrattare i gatti deve essere vietato!", questo soggetto non vuol dire che ‘maltrattare i gatti’ è in un certo senso vero, bensì si impegna a realizzare il divieto espresso dall’enunciato. Pur con questa differenza di significato, gli enunciati morali possono essere usati seguendo le stesse regole della logica, come pure le altre regole del linguaggio morale tradizionale. Ma, per Allan, Blackburn non ha identificato in modo corretto l’oggetto del dibattito. Affermare che il linguaggio morale dovrebbe essere considerato in base ai risultati degli studi epistemologici e ontologici, rappresenta una questione diversa rispetto alla constatazione di quale sia di fatto l’uso del linguaggio morale nel linguaggio ordinario, di modo che "il quasi-realismo stesso risulta una teoria estremamente non convincente sull’attuale significato del linguaggio morale". (STML p. 74) Rimane ad Allan il compito di spiegare la fenomenologia morale, come mai si esprimono giudizi morali, perché si approvano alcune azioni, mentre se ne disapprovano altre. Mi soffermerò, in particolare, sul modo in cui viene trattato il problema della giustizia. Nella tradizione humeana, si distinguono due generi di virtù morali. Quelle che suscitano un’approvazione spontanea e immediata (seppure presuppongano la necessità dell’adozione di una prospettiva adeguata) – le ‘virtù naturali’ –, e quelle invece che sono il risultato di una convenzione – le ‘virtù artificiali’ –. La giustizia è una di queste ultime. Come si giunge a questa convenzione? L’analisi humeana inizia dall’identificazione di alcune caratteristiche generali della natura umana – precisamente dall’istinto rivolto a favore degli interessi personali e all’amore verso se stessi, congiuntamente a una benevolenza soltanto limitata –, e da una caratteristica generale delle condizioni di vita umane –cioè le risorse limitate delle quali si può disporre –. Le difficoltà poste da questa situazione sono immediatamente visibili: poiché ciascuno pensa primariamente al proprio bene (e eventualmente al bene di chi è situato nelle sue immediatamente vicinanze emotive), e poiché le risorse per realizzarlo sono limitate, vi è la possibilità di conflitti distruttivi. Per evitarla, e per risolvere in modo cooperativo lo scontro di interessi, si giunge all’invenzione delle regole di convivenza sociale. Questa convenzione è, appunto, la giustizia. Al modello humeano non sono, ovviamente, mancate le critiche. Ad alcuni è sembrato irrealistico pensare che la giustizia possa essere il risultato di una convenzione, poiché per costruire una convenzione è necessario disporre di un linguaggio (questa è l’obiezione sollevata da Matthew Kramer). Però il linguaggio, a propria volta, non può sorgere che in seguito all’esistenza di una collaborazione già presente. La giustizia, come insieme di regole praticate dalle persone, deve esistere, in un qualche modo, già prima che si costruiscano convenzioni, perché è il loro presupposto. Come afferma Allan: "sembra che Kramer assuma la posizione per cui una vita transfamiliare precederebbe di fatto qualsiasi linguaggio sofisticato. Appare implicito dai suoi argomenti che questa vita sociale transfamiliare sarebbe in qualche senso ‘naturale’ o ‘originale’ perché dovrebbe già essere in atto affinché il linguaggio possa formarsi in un momento successivo". (STML p. 103) Allan non crede che la società transfamiliare debba procedere il linguaggio transfamiliare. Il linguaggio e la giustizia potrebbero, ad esempio, essersi sviluppati parallelamente. Ma proprio perché la giustizia, nella tradizione humeana, non poggia sulla ragione, vi è un motivo per pensare che possa iniziare a formarsi, almeno nella sua fase embrionale, senza la necessità di un linguaggio, che appare piuttosto vincolato alla strutturazione e alla comunicazione di un piano razionale. Per Kramer è invece la ragione e non le passioni a essere determinante nella costruzione della giustizia, poiché è solo attraverso la ragione che si comprende la necessità di favorire i nostri interessi per mezzo di una virtù artificiale quale la giustizia. Allan ammette che la ragione (intesa probabilisticamente) ha un ruolo determinante. È, infatti, vedendo benefici già presenti e formulando previsioni sul futuro che la convenzione viene modellata. Ma una risposta humeana, se ammette tutto ciò, aggiunge anche che è plausibile ritenere che i primi stentati passi della giustizia non hanno un carattere razionale. L’impulso iniziale sarebbero passioni, come la simpatia, che spingono gli uomini a essere cooperativi. Tale spiegazione appare ad Allan maggiormente in accordo con ciò che sappiamo dell’evoluzione. In questa prospettiva si può affermare che quegli individui che hanno sfruttato un impulso alla cooperazione hanno avuto le migliori probabilità di sopravvivenza. Ovvero, la scelta cooperativa sarebbe stata operata all’inizio dalla selezione naturale, e non da un atto intellettuale. La ragione può certo intervenire a proposito dell’ottimizzazione delle scelte cooperative (ad esempio, mostrando l’opportunità di accoglierla anche da parte di chi non la possiede nel grado socialmente richiesto), ma solo successivamente. Da questa analisi Allan conclude ancora una volta verso una posizione antirealista, sostenendo che "non c’è alcun ordinamento ideale di giustizia, alcun principio ideale di distribuzione che attende di essere scoperto dalla ragione. Piuttosto la giustizia, come sistema di costrizioni sociali, deve la propria esistenza a un complesso insieme di fattori che includono le passioni individuali e i desideri, semplicemente guidati o re–diretti dalla ragione causale, unitamente ai sentimenti che ci hanno spinto a favore del loro mantenimento". (STML p. 115) Ma il realismo è veramente confutato in questo modo? Oppure non si deve piuttosto dire che è stata fondata una nuova prospettiva realista, un realismo morale naturalista riduzionista? La mia posizione è che nella spiegazione humeana della giustizia si intravede la possibilità di fondare un realismo morale di questa fatta. Le regole di giustizia sarebbero regole prudenziali su come vivere socialmente per promuovere nel modo migliore il proprio interesse. Può essere vero che all’inizio gli individui non abbiano scoperto razionalmente queste regole, ma vi siano stati trascinati da un istinto (o che avvenga così anche successivamente nel tempo), ma questo vorrebbe soltanto dire che la scelta è stata operata dalla selezione naturale anziché dall’intelletto umano. Che la scelta sia stata esercitata (almeno inizialmente o parzialmente) dalla selezione naturale e non direttamente dall’intelletto umano non è di ausilio per confutare l’affermazione che le regole sono comunque presenti e possono essere conosciute. A questo punto, vedo soltanto due possibilità di risposta da parte dell’anti-realista. La prima è dire che sono necessarie delle regole di giustizia, ma non specifiche regole di giustizia. La scelta del genere di giustizia sarebbe arbitraria, e quindi non ci sarebbe nessuna realtà più profonda dietro alla particolarità delle convenzioni umane. Si tratta di un tema che richiederebbe una discussione ampia, che tralascio in questa sede. L’altra possibilità è dire che il riduzionismo deve essere eliminativistico, ossia che riducendo ontologicamente la realtà morale a realtà prudenziale si elimina ontologicamente la realtà morale. A questo punto diviene indispensabile vedere che cosa ci sia di contingente e che cosa di necessario nella definizione della morale. Se dopo la riduzione si saranno preservate le caratteristiche necessarie della ‘morale’, allora non ci sarà stata alcuna eliminazione ontologica. Quali sono queste caratteristiche necessarie? Una è quella di comprendere regole supreme valide. La giustizia ha proprio regole di questo tipo. Poiché la convivenza pacifica è un bene necessario per tutti, le regole necessarie a sostenerla dovranno essere tutelate, qualsiasi siano gli interessi specifici di persone diverse. Un’altra caratteristica necessaria della morale è l’universalizzabilità. Le regole della giustizia hanno proprio questa caratteristica. È impossibile immaginare una convenzione rivolta a garanzia di un ordinamento stabile, se i partecipanti non sono pronti ad accogliere che le stesse regole valgono per tutti in condizioni simili. La terza caratteristica è di avere un contenuto prescrittivo, cosa ovviamente presente nelle regole di giustizia anche dopo tale riduzione ontologica. Il libro di Allan si conclude con un’estensione della sua argomentazione metaetica alla filosofia del diritto. L’ambizione è quella di estendere i presunti risultati scettici della discussione metaetica al dibattito sul diritto. In particolare, due temi appaiono rilevanti ai filosofi del diritto contemporanei: se la teoria di Ronald Dworkin (per cui gli hard cases devono essere affrontati attraverso l’individuazione di quei principi generali che meglio supportano il codice giudiziario, e estraendo da questi principi le deduzioni rilevanti per il caso dibattuto) possa essere valida alla luce dello scetticismo morale, e se i diritti umani possono essere ritenuti un fondamento imprenscindibile del sistema giuridico. Come ho già indicato, pur dissentendo da alcune posizioni espresse da Allan, ritengo che l’opera (che ha nella chiarezza espositiva un grande valore) abbia indubbiamente notevoli aspetti di interesse, tanto nell’interpretazione di Hume quanto nell’utilizzo teoretico del pensiero del filosofo scozzese e nel contributo al dibattito metaetico contemporaneo.
Note. (1) D’ora in poi citato nel testo come STML seguito dall’indicazione delle pagine. back ( 2) T. Nagel, The Possibility of Altruism, Princeton, Princeton University Press, 1978, trad. it. La possibilità dell’altruismo, Bologna, Il Mulino, 1994. back(3) J. Mackie, Ethics. Inventig Right and Wrong, Harmondsworth, Penguin, 1977. back |