C.U.S.R.P. - Due integralismi divisi solo dall'oro nero
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Due integralismi divisi solo dall'oro nero

La guerra degli Stati uniti contro l'Afghanistan può essere spiegata dalla strategia statunitense di controllare l'Asia centrale,una zona nevralgica nel flusso mondiale del petrolio. Ma è anche il frutto del conflitto tra due integralismi, quello puritano e quello islamico wahhabita incarnato da Osama bin Laden, alleati fino alla Guerra del Golfo. Un'intervista con Johan Galtung, docente di studi sulla pace all'Università delle Hawaii e premio Nobel «alternativo» per i diritti umani


 

Diagnosi, prognosi, terapia: è a partire da questi tre passaggi che Johan Galtung, cattedratico norvegese con il piglio del medico, si spende da anni per trovare forme creative per la risoluzione delle piccoli e grandi guerre che marchiano a sangue il pianeta. Professore di studi sulla pace presso l'università delle Hawaii, l'Università di Witten/Herdecke (Germania), l'università di Tromsoe (Norvegia)e la European Peace University, Galtung ha ricevuto nel 1987 il Nobel alternativo Right Livelihood Award, per il suo impegno nell'educazione alla pace. Nel 1993 ha fondato l'organizzazione Transcend, un network globale di studiosi e attivisti impegnati nell'analisi sul campo e nella ricerca di soluzioni di pace in vari punti caldi del pianeta. Da allora gira incessantemente per presentare e sperimentare le idee e le proposte elaborate da lui e dagli altri membri di Transcend. Lo incontriamo a Roma, alla vigilia di una missione di mediazione a Kabul, dopo una conferenza all'Università La Sapienza su «Il mondo dopo l'11 settembre». Ed è dagli eventi dell'11 settembre che Galtung parte per esporci le sue teorie.

Qual è la sua lettura degli attacchi contro le Torri gemelle e della reazione di Washington?
Ritengo sia possibile leggere l'11 settembre e gli eventi successivi come uno scontro tra due sette fondamentaliste: da una parte l'islam wahhabita- che in Arabia saudita è religione di stato -, dall'altra il puritanesimo protestante, che è di fatto il pensiero dominante negli Stati uniti.Queste due sette, sia pure su fronti opposti, sono speculari, dal momento che presentano un numero inquietante di elementi in comune.

Quali sono questi punti in comune?
Innanzitutto hanno entrambe una visione esclusiva e esclusivista della religione. Tanto i seguaci di Ibn Abd al Wahhab, vissuto nella penisola arabica tra il 1703 e il 1792, quanto i discendenti dei pellegrini puritani giunti in America nel 1620 si ritengono un popolo eletto. I puritani, in particolare, hanno riadattato il mito ebraico della Genesi a proprio uso e consumo: la nuova Sion non era più sulle sponde del Mediterraneo,ma dall'altra parte dell'Oceano. Da questo punto ne discende un altro,ugualmente pericoloso e assolutamente comune alle due tendenze: l'idea che il mondo sia diviso in due, tra quelli che aderiscono alla setta e quelli che non vi aderiscono.
Quando Bush dice «o con noi o contro di noi» non fa altro che esprimere questo manicheismo patologico, che è un elemento consustanziale del puritanesimo. Lo stesso può dirsi dei proclami di bin Laden contro gli infedeli. Chi non aderisce ai principi della setta èun nemico, e pertanto deve essere schiacciato. I discorsi di bin Laden e di Bush sono assolutamente speculari. Solo che i due si servono di mezzi leggermente differenti: il primo usa il terrorismo, il secondo il terrorismo di stato.

Esiste tuttavia una sfasatura tra queste due tendenze. Se in Arabia saudita il wahhabismo è fede di stato - e quindi l'esclusivismo è accettato ufficialmente - gli Stati uniti si definiscono un paese libero e tollerante in cui tutte le opinioni hanno diritto di essere espresse...
Il predominio della setta puritana si avvale di strumenti più raffinati di quelli del wahhabismo. Quindici anni dopo il loro arrivo sulle coste atlantiche, i puritani hanno fondato una facoltà di teologia,nucleo iniziale di quella che sarebbe poi diventata l'università più importante degli Stati uniti d'America: Harvard. Questa, che in Occidente è ritenuta la migliore università del mondo- the university of excellence -, è una vera e propria fabbrica di ideologia, da dove vengono diffuse le linee guida del dominio americano.

Tale dominio non si è però basato fino ad oggi su un'alleanza di ferro proprio con il wahhabismo saudita?
Sì. In effetti non è possibile comprendere l'11 settembre senza analizzare la relazione economica esistente tra gli Stati uniti e l'Arabia saudita. Tra i due è stato sancito una specie di matrimonio di interesse: da una parte la casa reale - custode dei luoghi sacri e depositaria della purezza dell'islam - si è sempre impegnata a fornire a Washington petrolio in grandi quantità e a basso costo; dall'altra gli americani si sono impegnati a pagare il conto e a proteggere eternamente la dinastia al potere a Riyadh. Ma l'oro nero produce ricchezza e la ricchezza è in opposizione con la visione ascetica della vita, che rappresenta un altro elemento costitutivo del wahhabismo. Se, nonostante questa contraddizione,il matrimonio ha funzionato per diversi anni, la rottura era comunque inevitabile.

Cosa ha provocato questa rottura?
Il punto di passaggio è stato la guerra del Golfo del 1991 e la successiva permanenza delle truppe americane sul suolo sacro della penisola arabica che, secondo i wahhabiti, non può essere calpestato da infedeli. Questo ha fatto vacillare il patto tra Washington e la casa reale, che si trova sempre più isolata nel suo paese. Io ritengo che la dinastia dei Saud abbia a tutt'oggi la stessa speranza di vita che aveva lo scià in Iran nel 1976: al massimo tre anni. Non si può non tener conto che quindici dei diciannove attentatori dell'11 settembre erano cittadini sauditi. E che l'attacco contro New York e Washington è servito anche indirettamente a lanciare un monito alla casa reale. La quale, permettendo alle truppe statunitensi di rimanere nella penisola, aveva tradito i principi del wahhabismo.

La risposta degli Usa agli attentati perpetrati contro il suo territorio da cittadini sauditi è stata però la guerra in Afghanistan...
L'attacco all'Afghanistan è servito ad avviare la penetrazione statunitense in Asia centrale, una regione ricca di idrocarburi e di gas. Non bisogna dimenticare che gli americani hanno un rapporto morboso, quasi orgasmico, con il petrolio. E che questa amministrazione è costituita essenzialmente da petrolieri. Pochi sanno che il segretario di stato Colin Powell, di cui tutti conoscono il passato di generale, ha una formazione di geologo del petrolio. Prima di abbandonare i sauditi, Washington deve trovare altre fonti di energia a basso costo.

Pensa che l'amministrazione Bush sapesse in anticipo degli attentati contro il World Trade Center e il Pentagono?
Non credo, come si dice oggi, che il governo americano sapesse e abbia taciuto. Ritengo però che abbia colto la palla al balzo. L'amministrazione americana ha una lista di obiettivi strategici e l'Afghanistan era in cima a quella lista. L'11 settembre ha fornito il pretesto necessario per lanciare un attacco che era stato pianificato già dal mese di agosto. Tutti questi passaggi non sono abbastanza noti perché la stampa occidentale si guarda bene dal rivelarli.

Qual è stato il ruolo della stampa in questa vicenda?
Invece di svolgere la sua funzione tradizionale di quarto potere, la stampa americana ed occidentale in generale è ormai diventata una cassa di risonanza dell'ideologia dominante. A questo discorso fanno eccezione pochi organi di informazione veramente liberi: The Guardian e TheIndependent in Gran Bretagna, Le Monde diplomatique in Francia,DerSpiegel in Germania e, in Italia, il manifesto. È anche per questo che, tra i seminari che propone la mia organizzazione Transcend in giro per il mondo, uno è dedicato proprio al «giornalismo di pace».

Che cos'è di preciso «Transcend»? E quali sono i suoi campi di azione?
Transcend è un'organizzazione per la mediazione dei conflitti bellici, costituita da persone da sempre impegnate nel campo della pace e dello sviluppo. La nostra politica si è basata, fin dall'inizio,su un approccio pragmatico: trovare un'idea, sperimentarla sul campo, migliorarla. La filosofia di Transcend si struttura in concreto su quattro pilastri d'attività: azione, educazione/formazione, diffusione delle idee,ricerca. L'obiettivo non è solo quello di trovare soluzioni creativeai conflitti in corso, ma anche quello di provvedere alla realizzazione di una vera e propria cultura di pace. Ecco perché da anni organizziamo in diversi paesi seminari di educazione alla non violenza, di peacekeeping,di peace making, di democrazia e diritti umani, di pedagogia di pace e, come dicevo, di giornalismo di pace.

Qual è il metodo che seguite nella risoluzione dei conflitti?
Siamo dell'idea che alla radice di ogni conflitto ci sia un divario profondo, l'esistenza tra gli attori antagonisti di obiettivi inconciliabili. Tale divario tende a cristallizzarsi e a diventare sempre meno sanabile. È importante quindi identificare e analizzare le cause profonde di questa contraddizione e, a partire da questa analisi, proporre approcci di pace. Questo primo passaggio è quello che chiamo della diagnosi. Alla diagnosi segue la prognosi, ossia una previsione dei probabili sviluppi futuri. Fatta la prognosi, elaboriamo di volta in volta la terapia più adatta.

Come si legge, dal punto di vista della filosofia «Transcend»,il conflitto mediorientale?
La diagnosi di quanto sta avvenendo in Palestina è abbastanza evidente: il processo di Oslo è morto a causa della frustrazione che hanno dovuto subire i palestinesi dal 1993 al settembre 2000, quando infine la loro rabbia è scoppiata nella seconda Intifada. La prognosi è anch'essa di facile definizione: a tutti appare chiaro che un accordo, per essere stabile e reale, deve coinvolgere il maggior numero possibile di attori, quindi anche i gruppi più radicali. Da qui dobbiamo partire per elaborare la nostra terapia.

Su quali punti si basa questa terapia?
Israele deve innanzitutto ritirarsi ai confini del 1967 e riconoscere senza indugi lo stato palestinese con Gerusalemme come capitale. A quel punto è necessario stabilire forme reali di cooperazione tra i due stati: nella gestione comune di Gerusalemme - capitale confederale di entrambi gli stati -, nella politica di sicurezza e in quella economica. A livello regionale, poi, bisognerebbe creare una sorta di comunità mediorientale senza la partecipazione degli Stati uniti che, a quanto mi risulta, non sono un paese mediorientale e devono perciò evacuare le proprie truppe dalla regione. Il modello a cui penso è quello della Comunità europea, sancito dal Trattato di Roma del 1957. Lo stesso modello potrebbe essere valido per il Medioriente: creare una comunità tra stati arabi, Israele, Turchia e kurdi, con un'equa ripartizione delle riserve acquifere, un controllo sugli armamenti e un libero scambio delle merci,dei servizi, delle persone, delle idee. Penso che questa sia l'unica soluzione possibile per una pace stabile e duratura.

 

TIZIANA BARRUCCI
STEFANO LIBERTI

 

il manifesto, 28 maggio 2002