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Gli indigeni latino-americani, dalla subalternità al riconoscimento costituzionale

 

   

Tesi di laurea triennale di

Raffaele Piras

Corso di laurea triennale in

Scienze politiche e relazioni internazionali

Facoltà di

Scienze politiche, sociologia, comunicazione

Università di

Roma La Sapienza

Relatore

prof. Tito Marci
Anno accademico 2014-2015

 

 

Questo lavoro nasce dal mio interesse per gli studi che hanno come oggetto le eredità del colonialismo, in particolare nella regione latino-americana. Considero tale regione, infatti, un vero e proprio laboratorio sociale, politico ed economico, all’interno del quale negli ultimi anni – e in particolare a partire dai movimenti di protesta di inizio millennio – nuovi attori sociali irrompono al centro dello spazio politico. Nello specifico il lavoro di tesi analizza i movimenti che hanno portato la popolazione indigena a passare da una condizione di subalternità a una condizione in cui può non solo vantare rapporti diretti con i governi ma anche, come nel caso boliviano su cui mi sono concentrato, rendersi addirittura protagonista di processi costituenti.

La parte iniziale della tesi ripercorre sommariamente la storia dell’America Latina dalla fase coloniale al nuovo millennio, affrontando il processo di indipendenza dei vari Paesi. L’intento di questa prima parte storica è di porre l’accento sull’importanza del settore creolo, ovvero dei diretti discendenti dei conquistadores spagnoli, all’interno del processo d’indipendenza. Infatti, a differenza di quanto forse avvenuto in Africa e Asia, le élites indipendentiste in America Latina erano composte proprio dai creoli, di matrice europea. Furono questi che crearono regimi di dominio e di segregazione nei confronti degli indios – ridotti di fatto a una condizione di subalternità – contribuendo al riprodursi delle linee di esclusione ereditate dal colonialismo e quindi a una situazione di stratificazione sociale su basi etniche.

Nella parte centrale del lavoro viene introdotto il concetto di subalternità a partire dal pensiero di Antonio Gramsci (in particolare i Quaderni del carcere n.3 e n.25). Secondo l’autore le classi subalterne sono caratterizzate da disorganizzazione e da un’incapacità di “farsi Stato”: chi resta al livello della società civile resta subalterno. Il binomio egemonia/subalternità offre categorie più ampie di quelle marxiste classiche, connotate dalla contrapposizione di borghesia e proletariato, ed è dunque in grado di tenere insieme sfruttati e oppressi in un senso più comprensivo. È soprattutto questo aspetto che giustifica la fortuna di questi termini all’interno degli studi postcoloniali e più in particolare all’interno dei subaltern studies indiani e dei decolonial studies latino-americani. Studi, questi, che porteranno il concetto di subalternità al di fuori dei canoni del marxismo ortodosso collegandolo a una dimensione di razza e etnia, oltre che di genere.

Gli studi decoloniali, in particolare quelli latino-americani, hanno avuto il merito di aver posto le basi di un nuovo approccio epistemologico e sociologico della liberazione sociale.

Partendo dall’analisi dell’eredità coloniale che continua a manifestarsi in maniera multiforme, gli studiosi decoloniali demarcano due aspetti che si differenziano per alcuni tratti fondamentali: il colonialismo, che fa riferimento all’occupazione militare e all’annessione giuridica di determinati territori e dei suoi abitanti da parte di una potenza straniera, e la colonialità, ossia la dimensione culturale del colonialismo, quella che il sociologo Anibal Quijano chiama “traccia epistemica”. Questa parte del lavoro vuole appunto ricordare come siano state represse le forme indigene di produzione del sapere, i loro sistemi di significati e i loro universi simbolici, ponendo l’accento sulla soluzione decoloniale che prevede un vero e proprio sganciamento, delinking per riprendere il termine inglese utilizzato, dalle forme eurocentriche di conoscenza.

L’ultima parte, infine, approfondisce la nascita dei governi progressisti latino-americani all’inizio di questo millennio, nel contesto di una generale virata a sinistra della regione latino-americana dovuta in larga parte alla frustrazione causata dal modello neoliberale del Washington consensus, che avrebbe dovuto rimediare alle crisi economiche e finanziarie iniziate con le dittature militari attraverso una serie di aggiustamenti strutturali.

Ruolo fondamentale è stato svolto dai movimenti sociali. La potenza destituente delle rivolte di inizio millennio – delle quali esemplare è stata quella di Buenos Aires del 2001, ma vanno ricordate anche quelle in Bolivia contro privatizzazioni di acqua e gas rispettivamente nel 2000 e nel 2003 – ha segnato l’impossibilità di un ritorno alle politiche di austerità e ha invece portato all’insediamento dei governi progressisti post-neoliberali, caratterizzati da una riorganizzazione dell’intero processo politico attorno alla figura dello Stato. Questi nuovi governi non solo vantano rapporti diretti con i movimenti che hanno delegittimato i governi precedenti, ma in alcuni casi, come quello boliviano, vedono anche l’elezione del primo presidente indio e danno vita a Carte costituzionali innovative al cui interno i movimenti indigeni possono finalmente esprimersi.

La Costituzione promulgata in Bolivia nel febbraio 2009, in particolare, fa riferimento – nel Preambolo – alla memoria storica delle lotte indigene, dalla sollevazione anticoloniale alle recenti lotte per acqua e gas, a dimostrazione dello stretto rapporto con i movimenti sociali. Inoltre, riconoscendo i costumi e i diritti dei popoli originari e il loro particolare rapporto con la natura, rappresenta da un punto di vista decoloniale un’epistemologia alternativa: un’epistemologia del Sud, come la chiama il sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos. Allo stesso modo il concetto di plurinazionalità su cui la costituzione si basa implica una sfida radicale alla concezione egemonica ed eurocentrica dello Stato-nazione, secondo cui ad ogni Stato corrisponde una sola etnia, una sola cultura e una sola religione.

La novità di queste esperienze risiede quindi nella rottura con il modello classico neoliberale e nell’irruzione nel campo della politica di soggettività, di attori sociali storicamente esclusi.

A partire dalle insurrezioni dei primi anni 2000, infatti, governare ha assunto il significato di fare quotidianamente i conti con il potere destituente della moltitudine. L’allargamento delle titolarità sociali nel campo della politica è stata, quindi, una necessità che ha portato a un ampliamento della partecipazione e della sfera dei diritti a livello costituzionale.

 

 

Note biografiche sull’autore

 

Raffaele Piras è laureato in Scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Roma La Sapienza e si occupa, in particolare, di politica internazionale e di studi postcoloniali.

 

 

Per contattare l’autore

raffaele_piras@hotmail.it

 

 

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