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America Latina in… tesi
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Il
narcotraffico in Perù, Bolivia e Colombia: origini e sviluppi
Scheda tesi di laurea
Tesi di laurea di
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Valerio D’Angelo
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Corso di laurea in
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Storia, economia ed
istituzioni dell’America Latina
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Facoltà
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Scienze politiche e
relazioni internazionali
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Università
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Luiss-Libera
università internazionale degli studi sociali
Guido Carli, Roma
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Relatore
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Prof. Luigi Guarnieri Calò
Carducci
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Correlatore
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Prof. Gregory Alegi
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Anno accademico
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2007-2008
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L’uso di sostanze psicotrope
ha sempre accompagnato la storia umana: la ricerca di stati alterati di
coscienza ha costituito infatti una costante culturale delle società arcaiche, e
il consumo di prodotti allucinogeni, per lo più estratti dal mondo vegetale, ha
rappresentato, a seconda delle circostanze, un veicolo per interpretare gli
auspici divini (come il pejote nelle comunità sciamaniche), un forte
aggregante sociale (come il consumo di alcolici nelle società occidentali) o
entrambe (ed è il caso della foglia di coca). La coca, la cui masticazione
risale probabilmente al 2100 a.C, veniva utilizzata dalle comunità indigene
precolombiane generalmente durante i riti e le cerimonie religiose, oltre che
per finalità mediche.
Il conquistatore spagnolo
assunse, almeno all’origine, un atteggiamento di tipo proibizionista: nel 1567
il Consiglio delle Indie condannò la coca come una superstizione degli indios e
furono emanate contro la coca più di 70 ordinanze; tuttavia, non passò molto
tempo prima che gli spagnoli iniziassero a pagare i minatori indios con foglie
di coca e la Chiesa esigesse il pagamento in decime per il raccolto. Presto le
piantagioni di coca, seppur tollerate, vennero lentamente sostituite da quelle
di tabacco, caffè e canna da zucchero, prodotti che soddisfacevano maggiormente
i gusti europei.
La stessa comunità
scientifica moderna applaudì la scoperta della cocaina, alcaloide della pianta
isolato nel 1858 e, per un certo periodo, coca e cocaina godettero, in Europa e
Stati Uniti, di grande popolarità; mescolato con del vino, l’estratto di foglie
di coca (Vin Mariani) era elogiato e consumato da medici, scrittori, artisti,
intellettuali, re e principi, governanti ed ecclesiastici. È solo con la nascita
della società del benessere e dei consumi che l’uso di droga (e in primis
di cocaina) diventa massiccio; negli anni Sessanta infatti, la domanda
statunitense di droghe si va rapidamente ampliando a causa del convergere di
varie circostanze: i veterani di ritorno dal Vietnam diffondono il consumo di
marijuana, anfetamine e acido lisergico e, mentre l’uso di eroina e marijuana
tende a ubicarsi negli strati bassi e marginali della popolazione, negli anni
Settanta, il consumo di cocaina raggiunge i settori medi e alti della cultura e
dell’impresa. La cocaina soprattutto, lontana dall’essere consumata come droga
di protesta o di evasione, diviene un mezzo efficace per aumentare la capacità
lavorativa e come fonte di creatività e immaginazione negli ambienti artistici.
È proprio in quegli anni che
le maggiori potenze planetarie, e gli Stati Uniti in testa, dichiarano “guerra
totale alla droga”. Oltre alla nocività delle droghe in sé, si affermarono altri
motivi che condussero a un conflitto che vedrà come drammatico teatro d’azione
soprattutto Bolivia, Perù e Colombia, secondo una logica dettata più
dall’utilitarismo bellico (Karl von Clausewitz diceva che per rimuovere un
problema bisogna colpire il suo centro di gravità, prevedibilmente i Paesi
produttori) che da buonsenso e intelligenza tattica. Tra tali fattori vi fu
sicuramente l’affermazione del concetto di salute pubblica, ossia un bene
sociale di cui lo Stato moderno si fa tutore: la repressione, in questa ottica,
diventa così il principale (c’è infatti anche la prevenzione) strumento per
“garantire” ai cittadini questo tipo di protezione. Il proibizionismo,
nonostante avesse già dato prova negli anni Trenta di fungere da catalizzatore
della malavita e permettere ai nuovi imprenditori delle droghe illegali di
trovare un posto nella società “legale”, venne tuttavia riconsiderato un valido
strumento nella guerra alle droghe avviata negli anni Settanta, con effetti
devastanti per il sistema politico ed economico, oltre che per la pace sociale
dei Paesi produttori, Perù, Bolivia e Colombia in primis. La supposta
protezione della salute pubblica così, favorì inintenzionalmente la criminalità
organizzata.
Oltre alla tutela della
salute pubblica, gli altri due fattori che motivarono la guerra alle droghe
furono una buona dose di ideologia sull’argomento, e il tentativo di mascherare
con nobili fini (eliminare il traffico di droga) obiettivi più politici
(l’avanzare delle guerriglie di stampo comunista in numerosi Paesi
sudamericani). Non è casuale infatti che la nascita di una imprenditoria delle
droghe si sia affermata proprio in quegli anni; nel 1971 la crisi del dollaro e
l’instabilità monetaria furono seguiti dalla crisi energetica del 1973 acuita
dall’embargo petrolifero attuato dai produttori arabi dopo la guerra dello Yom
Kippur che, a causa dell’aumento eccessivo del prezzo, squilibrò la bilancia
estera americana, aggravata dalla successiva recessione che attanagliò
l’economia statunitense tra il 1973 e il 1975; infine, l’aggressione sovietica
all’Afghanistan e alla Polonia, consolidò la sindrome di impotenza che gli Usa
avevano già avvertito in Vietnam.
La sfiducia nell’economia e
nella politica furono accompagnate da una critica dell’ideologia liberale
accusata di incoraggiare la decadenza nazionale a causa della passività e della
compiacenza con cui fronteggiava tali presunti nemici della nazione. Tutti
fattori che furono determinanti nella vittoria di Reagan nel 1980; inoltre, la
campagna elettorale repubblicana si incentrò sull’idea di una moralità, privata
e pubblica, come fondamento dell’ordine politico nazionale. La lotta al
crescente consumo di droghe, accompagnato da alti indici di criminalità, fu il
catalizzatore intorno al quale si focalizzò questo tipo di “nuova morale”.
Concetti come “guerra totale” o ”tolleranza zero” divennero frequenti nel gioco
politico. L’obiettivo dichiarato della guerra alle droghe era, ed è tutt’oggi,
quello di inferire un colpo decisivo all’offerta: la guerra dovrebbe cioè
comportare un aumento dei costi di produzione che farebbe aumentare i prezzi di
vendita del bene e, in questo modo, provocare una diminuzione della domanda e
quindi dei profitti, motivo che renderebbe l’affare non più redditizio.
Contrariamente, poiché i costi di produzione sono già molto bassi, l’unico
risultato che la guerra consegue è aumentare i benefici impedendo che i prezzi
si abbassino ulteriormente a causa della sovrapproduzione di cocaina.
I mezzi adottati dalla
trentennale guerra al narcotraffico sono stati sostanzialmente tre: legislazione
antidroga interna (ma anche l’uso di strumenti quali la non certificazione ai
Paesi considerati non cooperativi), pressioni affinché il proprio sistema
legislativo fosse internazionalmente riconosciuto e le proprie Corti competenti
in merito (quindi anche a giudicare i narcotrafficanti) e, infine, l’intervento
militare. Negli anni Settanta, più di 55 leggi federali e innumerevoli leggi
statali prevedevano uno svariato numero di misure punitive compreso l’ergastolo
o la stessa pena di morte. Al fine di fare chiarezza in questa situazione di
proliferazione legislativa, il Comprehensive drug abuse prevention and
control act del 1970, annullava, sostituiva e attualizzava tutte le
precedenti leggi federali relative ai narcotici e altre sostanze tossiche, il
possesso stesso diventava illegale, sebbene le pene più severe fossero tuttavia
riservate alla produzione e alla distribuzione illecita di droghe.
Le leggi di regolamentazione
o di proibizione dell’uso di narcotici sono state generalmente inefficaci e
controproducenti: l’illegalità dell’importazione, della vendita, e dell’uso di
droghe, non ha infatti impedito lo sviluppo di un sistema di contrabbando e di
un mercato nero incredibilmente redditizi. Per quanto riguarda il secondo
strumento, cioè le pressioni sui governi dei Paesi produttori, questa esigenza
giustificò interventi militari che violarono la sovranità territoriale di Panama
e del Nicaragua e costanti minacce alla sovranità dei tre grandi produttori di
droga, Bolivia, Perù e Colombia. L’intervento militare “interno”, cioè degli
eserciti nazionali degli stessi Paesi produttori, si caratterizzò invece in
ripetute violazioni dei diritti umani delle popolazioni a cui tali interventi
erano diretti, di cui sono esempi l’operazione Blast furnance in Bolivia,
la creazione della base militare di Santa Lucia nell’Alto Huallaga
peruviano e i continui aiuti militari statunitensi all’esercito colombiano.
L’alta e crescente
narcotizzazione della società nordamericana e di una parte dell’Europa
occidentale diventano la condizione determinante che specializzò Paesi come la
Bolivia, il Perù e la Colombia. Tali Paesi, definiti narcodemocrazie, sono
nazioni economicamente deboli, spesso guidate da élite corrotte e che,
talvolta, sperano negli aiuti di Washington come condizione di sopravvivenza,
oltre al fatto che sovente gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali
hanno esplicitamente rafforzato le “democrazie” locali contro i fuochi della
guerriglia (vedi Perù e Colombia), legittimando non di rado giunte militari
colluse col narcotraffico.
La guerra alle droghe
tuttavia era, ed è, una guerra asimmetrica, condotta dalle autorità statali
contro attori che operano a livello internazionale: la definizione di
multinazionali del crimine è quanto mai indovinata. Ciò che infatti caratterizza
i traffici illeciti è che tali attività si autostrutturano in spazi e
sottosistemi autonomi, dotati di estensione e di poteri propri, tendenti a
interagire fra loro: i distinti sottosistemi e le reti criminali infatti si
intrecciano e si scambiano mutuamente apparati, personale, capitali, traffici,
protezioni, mezzi (finanziari, organizzativi, di aggressione o di difesa),
collegamenti socioeconomici e politici.
Le conseguenze dell’azione di
una tale holding criminale sono visibili nel settore economico dei tre
Paesi sopraccitati, dove le attività illegali legate al narcotraffico hanno
costituito quasi sempre il grosso dell’intera economia nazionale. Lo dimostrano
gli indicatori economici relativi alle quantità e ai valori delle esportazioni,
ai loro ingressi in valuta, al prodotto interno lordo. È quindi palese l’impatto
positivo del narcotraffico sui sistemi economici di Paesi poveri, con una forte
crisi economica e un alto tasso di disoccupazione, che conseguentemente traggono
beneficio dall’ingresso di narcodollari, oltre alla creazione di migliaia di
posti di lavoro dovuti al narcotraffico. Ad avvantaggiarsene sono però anche i
singoli apparati governativi, poiché il flusso di denaro illecito è stato spesso
utilizzato per colmare il debito estero o riequilibrare la bilancia dei
pagamenti; non è trascurabile poi la rianimazione dell’economia per via dei
numerosi investimenti realizzati dai narcos, quali acquisti di terreni,
di case, di azioni, di servizi e di interventi nell’ambito commerciale, etc.
Accanto alla narcoeconomia si va delineando anche la narcopolitica, consistente
nella capacità delle organizzazioni criminali di esercitare pressione,
penetrazione, influenza e controllo sulla politica e sullo Stato, che vengono
progressivamente egemonizzati dall’economia criminale tramite la corruzione e
l’intimidazione non solo dei rappresentanti statali, ma anche della stampa,
dell’opinione pubblica, dei partiti e delle organizzazioni sociali e culturali.
Il narcotraffico è oggi uno
dei più redditizi commerci mondiali, le cui conseguenze si ripercuotono non
soltanto sulle economie nazionali, ma anche sul grado di democraticità degli
Stati e, cosa più importante, sui diritti umani delle popolazioni loro malgrado
coinvolte.
Note biografiche sull’autore
Ha conseguito la laurea in
Relazioni internazionali presso la Luiss-Libera università internazionale degli
studi sociali Guido Carli di Roma nel novembre 2008. Vive tra l’Italia e la
Spagna dove si occupa di storia e filosofia dei movimenti sociali. Collabora con
alcune riviste on line.
Per contattare
l’autore:
valeriodangelo@ymail.com
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